PAVIA MORTE INCIDENTE RISARCIMENTO OTTENUTO
Secondo la giurisprudenza consolidata
in tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. (…)”.
Sulla non risarcibilità danno “tanatologico” (o da perdita della vita), si è già espressa Cass. S.U. 15350/2015, alla quale si fa integrale rinvio: pertanto, nulla può essere riconosciuto a tale titolo, a favore delle eredi.
Per orientamento ormai sufficientemente consolidato, “in tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. (…)”.
Nel caso che occupa, non ricorre né l’una né l’altra ipotesi.
Ed infatti:
– quanto al primo profilo, l’istruttoria svolta ha messo in luce che, al momento dei soccorsi, la vittima era lucida e collaborante, ma i parametri in linea di massima erano stabili e non vi era una “sensazione di morte imminente”, sebbene vi fosse la complicazione della terapia (farmaco anticoagulante) che la T. assumeva; manca la prova, in sostanza, che la stessa abbia avvertito l’imminenza del proprio exitus, posto che gli stessi sanitari non avevano una simile percezione;
– quanto al secondo, il danno biologico cd. terminale è configurabile (e trasmissibile iure successionis) ove la persona ferita non muoia immediatamente, ma normalmente si richiede che sopravviva almeno ventiquattro ore, tale essendo la durata minima, per convenzione legale, ai fini dell’apprezzabilità dell’invalidità temporanea, essendo, invece, irrilevante che sia rimasta cosciente; il decesso della T. è avvenuto all’incirca 22 ore dopo l’incidente, cosicché tale voce di danno non appare risarcibile.
Possono invece essere rimborsate le spese funerarie, nella misura esposta in atti (Euro 4.770,00), quale danno patrimoniale subito iure proprio dalla figlia L.T.. Trattandosi di credito risarcitorio – e, quindi, di valore – sono dovuti la rivalutazione ISTAT e gli interessi compensativi dalla presumibile data del pagamento (28.06.2017) a quella della presente sentenza.
È poi noto che il ristoro del danno non patrimoniale alla persona deve avvenire in maniera unitaria, secondo la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.: tanto vale anche in caso di morte di un prossimo congiunto.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di PAVIA
SEZIONE TERZA CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Mariaelena Cunati
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. r.g. 1162/2019 promossa da:
L.T. (C.F. (…)),
S.T. (C.F. (…)),
T.G.M.R. (C.F. (…)),
L.L. (C.F. (…)), in persona dei genitori S.T. e F.L.; con il patrocinio dell’avv. LUGANO MARCELLO e domicilio eletto in VOGHERA, VIA PAPA GIOVANNI XXIII, presso avv. LUGANO MARCELLO
ATTORI
contro
V.A. SPA (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. BRAZESCO MARZIO e domicilio eletto in VIGEVANO, VIA DE AMICIS 33, presso avv. VALERIA BONVINI
SOCIETA’ C.A. SOCIETÀ COOPERATIVA (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. LOMBONI GIUSEPPE e domicilio eletto in MILANO, PIAZZA EMILIA 9, presso avv. LOMBONI GIUSEPPE
CONVENUTI
G.L. (C.F. (…)),
CONVENUTO CONTUMACE
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Si premette che le questioni sollevate dalle parti – assieme alla documentazione prodotta – verranno esaminate se e nell’ordine in cui saranno ritenute saranno utili ai fini della decisione.
Il giorno 26.05.2017, alle ore 14,50 circa, lungo la strada Circonvallazione ex SS 461, il veicolo ALFA ROMEO 166 (tg. (…)) perse il controllo e, invadendo la corsia di marcia opposta, andò a impattare contro l’autovettura CITROEN C1 (tg. (…)), condotta da L.T.. Nell’urto, rimase ferita F.S.T., trasportata sul secondo veicolo, la quale, immediatamente ricoverata presso l’Ospedale Civile di Voghera, spirò il giorno successivo, alle ore 12.
Su queste premesse, L.T., S.T., T.G.M.R. e L.L. – rispettivamente figlie (le prime due) e nipoti (gli altri due) di F.S.T. – hanno agito in giudizio per ottenere la condanna di V.A. S.p.a. (compagnia A.C.), G.L. (conducente e proprietario della ALFA ROMEO) e Società C.A. Soc. Coop. (compagnia assicuratrice della ALFA ROMEO) a risarcire i danni, patrimoniali e non, patiti iure hereditatis e iure proprio in conseguenza del decesso della congiunta, nella misura indicata nelle conclusioni rassegnate.
- e V., eccepita entrambe la propria carenza di legittimazione passiva, hanno contestato la fondatezza delle pretese avversarie, ritenute ingiustificate e, comunque, esorbitanti, anche in ragione delle somme già versate a favore delle due figlie.
G.L. è stato dichiarato contumace.
La causa è stata istruita mediante assunzione della prova orale testi T. ed altri.
Precisate le conclusioni come in epigrafe e decorsi i termini concessi ex art. 190 c.p.c., è stata emessa la presente sentenza.
Le eccezioni di carenza di legittimazione passiva, sollevate da C. e V., possono dirsi superate in virtù della dichiarazione, da parte della prima, di assumere la gestione della vertenza ex art. 141 D.Lgs. n. 209 del 2005 (Codice Assicurazioni) per conto della consorella.
Nonostante i fatti dedotti non possano considerarsi “pacifici”, agli effetti dell’art. 115 c.p.c., stante la contumacia di G.L., la sussistenza della sua piena responsabilità, nella causazione dell’evento mortale, trova sicuro riscontro:
– nella relazione dell’autorità intervenuta in loco;
– nella sentenza di patteggiamento del conducente del veicolo ALFA ROMEO, per il reato di omicidio stradale;
– nella mancata contestazione, da parte di ambedue le compagnie assicuratrici, della dinamica dell’incidente, così come ricostruita dagli attori;
– nel tipo di lesioni riportate da F.S.T., in esito allo scontro, di lì a breve seguite dal decesso.
Sulla determinazione del quantum debeatur, si osserva quanto segue.
Sulla non risarcibilità danno “tanatologico” (o da perdita della vita), si è già espressa Cass. S.U. 15350/2015, alla quale si fa integrale rinvio: pertanto, nulla può essere riconosciuto a tale titolo, a favore delle eredi.
Per orientamento ormai sufficientemente consolidato, “in tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. (…)”.
Nel caso che occupa, non ricorre né l’una né l’altra ipotesi.
Ed infatti:
– quanto al primo profilo, l’istruttoria svolta ha messo in luce che, al momento dei soccorsi, la vittima era lucida e collaborante, ma i parametri in linea di massima erano stabili e non vi era una “sensazione di morte imminente”, sebbene vi fosse la complicazione della terapia (farmaco anticoagulante) che la T. assumeva; manca la prova, in sostanza, che la stessa abbia avvertito l’imminenza del proprio exitus, posto che gli stessi sanitari non avevano una simile percezione;
– quanto al secondo, il danno biologico cd. terminale è configurabile (e trasmissibile iure successionis) ove la persona ferita non muoia immediatamente, ma normalmente si richiede che sopravviva almeno ventiquattro ore, tale essendo la durata minima, per convenzione legale, ai fini dell’apprezzabilità dell’invalidità temporanea, essendo, invece, irrilevante che sia rimasta cosciente; il decesso della T. è avvenuto all’incirca 22 ore dopo l’incidente, cosicché tale voce di danno non appare risarcibile.
Possono invece essere rimborsate le spese funerarie, nella misura esposta in atti (Euro 4.770,00), quale danno patrimoniale subito iure proprio dalla figlia L.T.. Trattandosi di credito risarcitorio – e, quindi, di valore – sono dovuti la rivalutazione ISTAT e gli interessi compensativi dalla presumibile data del pagamento (28.06.2017) a quella della presente sentenza.
È poi noto che il ristoro del danno non patrimoniale alla persona deve avvenire in maniera unitaria, secondo la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.: tanto vale anche in caso di morte di un prossimo congiunto.
Proprio in tema di danno ai superstiti, è stato precisato che il danno per la perdita del rapporto parentale va valutato unitamente al danno c.d. esistenziale, poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca: ciò in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che diversi aspetti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato, rimanendo fermo l’obbligo di tenere conto, ai fini della personalizzazione della liquidazione, di tutte le peculiari modalità del singolo caso.
Va ancora aggiunto che la suddetta liquidazione non può che avvenire ex artt. 1226 e 2056 c.c., con criterio necessariamente equitativo, che può essere ancorato a una serie di parametri, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza e ogni altra circostanza utile, come le abitudini di vita e la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, nonché l’età della vittima e dei singoli superstiti.
Resta invece a carico della controparte dimostrare l’esistenza di situazioni che compromettano l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare, ma anche di ogni altra circostanza obiettiva che possa incidere, in senso peggiorativo, sull’ammontare del risarcimento.
Come parametro di riferimento, gli stessi attori individuano le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano: la scelta appare condivisibile – sebbene recentemente sia stato sollevato qualche dubbio sulla tecnica con cui sono state redatte – fermo restando che, in ogni caso, “bisogna guardare al profilo dell’effettiva quantificazione del danno, a prescindere da quale sia la tabella adottata”.
Né può assumere rilievo, in proposito, il fatto che tali tabelle non contemplino l’ipotesi di danno derivante dalla perdita del nonno, dal momento che “in tema di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, poiché la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., non è limitata alla cd. “famiglia nucleare”, il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto”.
In base agli elementi disponibili, il danno risarcibile può allora essere liquidato, a favore di ciascuna figlia, in Euro 165.960,00.
Ed infatti – in ragione dell’età già avanzata della vittima e delle congiunte, dell’esistenza, per entrambe, di un nutrito nucleo familiare e del fatto che, all’epoca, non convivevano più con la madre – non appare possibile spingersi oltre quello che, nelle tabelle milanesi, è stato indicato come “valore monetario medio”, anche considerato che le dirette interessate non hanno fornito specifici elementi che permettano una personalizzazione “in aumento”, dovendo la quantificazione per lo più poggiarsi sull’intensità della relazione parentale (madre – figlia) e sul dolore presumibilmente patito (allora e tuttora) in conseguenza della morte comunque prematura, improvvisa e violenta della stretta congiunta.
Il che significa che S.T. ha già ricevuto il pagamento, prima del giudizio, di una somma esaustiva – e, anzi, superiore (Euro 166.000,00) – rispetto al pregiudizio patito, mentre, per calcolare quanto ancora spetti a L.T., occorre sottrarre dal dovuto (Euro 165.960,00) l’acconto pacificamente messo a disposizione il 19.07.2018 (Euro 83.000,00) attraverso un’operazione che consiste, preliminarmente, nel rendere omogenei tali importi (devalutandoli, alla data dell’illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l’acconto dal credito risarcitorio e, infine, calcolare gli interessi compensativi – finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento – sull’intero capitale per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto, e solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto rivalutato per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva.
Adottando il secondo criterio (rivalutazione di entrambe le somme all’ultima rilevazione ISTAT disponibile), il residuo credito risarcitorio per le voci di danno finora esaminate ammonta a:
– Euro 167.453,64 (165.960,00 riv. da 1.01.2021 a 30.06.2021), da cui sottrarre
– Euro 84.079,00 (Euro 83.000,00 riv. da 19.07.2018 a 30.06.2021),
per un totale di Euro 83.374,64, a cui vanno aggiunti gli interessi compensativi, da calcolarsi nella maniera descritta da Cass. 6347/2014.
Quando alla posizione dei nipoti T.G.M.R. e L.L., entrambi hanno dimostrato di avere intrattenuto, con F.S.T., un rapporto effettivamente stretto, sebbene di diversa intensità: verosimilmente maggiore per il primo, che ha convissuto con la vittima dal 2001 alla sua dipartita, e minore per la seconda, che andava dalla nonna i pomeriggi, a studiare o a farle compagnia, perché i genitori erano impegnati in negozio, e, quando è mancata, ha sofferto molto.
Tenuto conto, anche in questo caso, dell’età dei congiunti e della vittima, nonché dell’esistenza di un nucleo familiare numeroso, si ritiene di poter liquidare – per lo più in conseguenza della sofferenza presumibilmente cagionata dalla morte inaspettata e cruenta della nonna, a cui ambedue i nipoti erano legati, e dalla mancanza verosimilmente percepita nelle vite quotidiane – la somma di Euro 50.000,00 a favore del primo e Euro 25.000,00 a favore della seconda, all’attualità.
L’individuazione dei soggetti responsabili richiede qualche breve riflessione.
Per il suo carattere eccezionale, l’azione diretta – prevista dall’art. 141 Cod. Ass. nei confronti dell’assicuratore del veicolo sul quale il danneggiato era a bordo – non può essere applicata analogicamente a soggetti che non siano nella stessa espressamente contemplati e, quindi, diversi dal terzo trasportato. La sua fondatezza, tuttavia, postula perlomeno l’accertamento della corresponsabilità del vettore.
Nei confronti di V. – quale A.C. su cui viaggiava F.S.T., al momento dell’impatto – non avrebbero potuto essere proposte le domande formulate dai congiunti iure proprio, potendo essere rivolte solo al responsabile civile e alla sua assicurazione. Quelle iure hereditatis, invece, avrebbero potuto essere accolte soltanto nell’ipotesi – esclusa dalle eredi in citazione e rimasta indimostrata all’esito del giudizio, sebbene ventilata da V. ante causam – di responsabilità in qualche misura attribuibile a L.T., nella causazione dell’incidente.
In corso di causa, V. “ha assunto, in accordo con C.A., la gestione della vertenza ex art. 141 Codice assicurazioni, salvo diritto di surroga integrale verso responsabile e suo assicuratore per quanto già pagato e quanto andrà eventualmente ancora a pagare a favore degli attori”.
Pertanto, V., in tale ultima veste, e G.L. vengono condannati a pagare:
– a favore di L.T., Euro 4.770,00 per spese funerarie ed Euro 83.374,64 per danno parentale;
– a favore di T.G.R., Euro 50.000,00 per danno parentale;
– a favore di L.L., Euro 25.000,00 per danno parentale.
Il tutto oltre interessi e rivalutazione, se dovuti, così come in parte motiva: va esclusa, invece, l’autonoma risarcibilità di un “danno da ritardo” ulteriore, trattandosi profilo già contemplato nei meccanismi di attualizzazione delle somme liquidate, se riconosciuti.
Ogni altra domanda, da chiunque formulata, si intende respinta.
Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate utilizzando i parametri medi applicabili ex D.M. n. 55 del 2014 e s.m.i. in base al valore reale della controversia (da Euro 52.001,00 a Euro 260.000,00) – che si discosta notevolmente da quello dichiarato (superiore ad Euro 520.000,00) – e all’attività dettagliata nella nota spese depositata (tutte le fasi).
Nei rapporti tra gli attori vittoriosi e C. e tra S.T. e i convenuti, esse vengono integralmente compensate, in considerazione, nel primo caso, della fondatezza della domande svolte nei confronti dell’assicurazione del conducente responsabile e della decisione, comunque autonoma, di quest’ultima di continuare a difendersi in giudizio, anche dopo l’assunzione della lite da parte della consorella, e, nel secondo, della sostanziale unicità dell’attività difensiva svolta dalle parti costituite per contrapporsi all’accoglimento delle pretese attoree, da chiunque proposte.
Spetta infine il rimborso delle spese di iscrizione a ruolo (Euro 1.714,00).
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
ACCERTA la responsabilità esclusiva di G.L. nella causazione del sinistro di cui è causa e, per l’effetto,
CONDANNA G.L. e V.A. S.p.a., quale assicurazione che ha assunto la gestione della vertenza in oggetto per conto di Società C.A. Soc. Coop., a pagare la somma di:
– Euro 4.770,00 per spese funerarie ed Euro 83.374,64 per danno parentale a favore di L.T.,
– Euro 50.000,00 per danno parentale a favore di T.G.R. e
– Euro 25.000,00 per danno parentale a favore di L.L.,
oltre interessi e rivalutazione, se dovuti, così come in parte motiva;
CONDANNA G.L. e V.A. S.p.a., nella sua predetta qualità, a rimborsare a L.T., T.G.R. e L.L., le spese di lite, che si liquidano in Euro 1.713,00 per spese esenti e Euro 13.430,00 per compenso professionale, oltre IVA e CPA come per legge e spese forfettarie nella misura del 15%;
COMPENSA integralmente le spese di lite tra L.T., T.G.R., L.L. e Società C.A. Soc. Coop. e tra S.T., V.A. S.p.a., Società C.A. Soc. Coop. e G.L.;
RESPINGE ogni altra domanda da chiunque formulata.
Conclusione
Così deciso in Pavia, il 19 luglio 2021.
Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2021.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. SALME’ Giuseppe – rel. Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente Sezione –
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –
Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 12282/2008 proposto da:
M.G., A.A., M.M., M.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE PROVINCE 114-B23, presso lo studio dell’avvocato D’AMICO PAOLA, rappresentati e difesi dall’avvocato DE MAGISTRIS ENRICO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del Direttore Sinistri pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato VITOLO MASSIMO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati RODOLFI MARCO, MARTINI FILIPPO, per procura speciale del notaio Dott. Sandro Serra di Bologna, rep. 79843 del 24/03/14, in atti;
– resistente con procura –
e contro
D.L.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 423/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 16/03/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2014 dal Presidente Dott. GIUSEPPE SALME’;
uditi gli avvocati Filippo MARTINI, Marco RODOLFI;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione dell’11 aprile 2002 M.F. e A.A., M.M. e G., rispettivamente, genitori e sorelle di M.A., hanno convenuto in giudizio davanti al tribunale di Cuneo D.L. e la Unipol Assicurazioni chiedendo la condanna di entrambi al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla morte del congiunto avvenuta a causa della collisione frontale tra l’auto Fiat Punto, di proprietà di M.F. e condotta dal figlio A. e l’auto Renault Espace, condotta dal D., che procedeva in senso opposto, fuori dal centro abitato, sulla strada provinciale (OMISSIS). Gli attori hanno sostenuto che l’incidente era avvenuto per esclusiva responsabilità del D. che aveva effettuato la svolta a sinistra per immettersi in un’area privata senza concedere la dovuta precedenza all’auto che marciava in senso opposto e che, non ostante che il conducente poi deceduto avesse frenato e si fosse spostato sulla sua destra, non aveva potuto evitare l’urto.
Si è costituita in giudizio solo la Unipol Assicurazioni, eccependo che la responsabilità era esclusivamente del M., che marciava a velocità eccessiva in centro abitato e non indossava cinture di sicurezza e, in via subordinata, sostenendo che doveva ritenersi la pari responsabilità concorrente dei conducenti. La convenuta ha anche contestato l’entità del risarcimento richiesto, sia con riferimento al danno biologico iure hereditatis che al danno esistenziale familiare e al danno morale.
Il tribunale di Cuneo, con sentenza del 1 dicembre 2013, dichiarata la concorrente responsabilità del D. per il 70 % e del M. per il 30 %, rigettata la richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali futuri e del danno biologico iure hereditatis, ha determinato in Euro 63.579,55 il risarcimento dovuto ad M. A., in Euro 59.430,19 quello dovuto ad A.A. e in Euro 11.886,04 quello dovuto a ognuna delle sorelle, M. M. e a G..
La corte d’appello di Torino, confermato il concorso di responsabilità dei conducenti, ha ridimensionando quella del M., determinandola nel 20%, valutando come ben più grave quella dell’investitore che aveva effettuato una svolta a sinistra senza dare la precedenza al veicolo che procedeva in senso opposto e invadendone la corsia di marcia, come emergeva dalla testimonianza di un passeggero dell’auto che seguiva quella condotta dalla vittima. Ha inoltre osservato che non poteva essere accolta la richiesta di nuova c.t.u. basata sulla critica di quella già effettuata in primo grado, perchè basata sull’applicazione di parametri teorici, perchè anche un altro c.t.u. non avrebbe potuto che applicare parametri generali per la valutazione dei fatti accertati. Ha inoltre rilevato che dalla certificazione rilasciata dal comune di (OMISSIS) risultava che il luogo dello scontro era posto fuori dal centro abitato e che, pertanto, il limite di velocità generale era quello di 90 km orari, mentre il c.t.u., sulla base delle tracce di frenata lasciate dall’auto del M. e degli effetti dell’urto della stessa con un terzo veicolo in sosta, aveva calcolato che la velocità dell’auto della vittima era di circa 120 km quando il conducente si era avveduto dell’ostacolo sulla sua traiettoria e di circa 103 km orari al momento dell’impatto. Comunque tale velocità non era adatta alle concrete condizioni dei luoghi in considerazione del fatto che la strada provinciale era fiancheggiata da abitazioni. Infine, la corte territoriale ha concluso affermando che, anche a ritenere che se il M. avesse rispettato il limite di velocità dei 90 km orari, a causa della repentinità della manovra di svolta a sinistra del D., non avrebbe potuto evitare lo scontro, pur essendo vero che la minore velocità avrebbe reso meno drammatiche le conseguenze dell’urto.
Quanto alla liquidazione dei danni la corte territoriale ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento dei danni patrimoniali futuri dei genitori della vittima, rilevando che dalle testimonianze raccolte era emerso che M.A. viveva con i genitori e che versava una somma di L. 1.500.000 mensili, ma che non era provato che gli stessi fossero in condizioni economiche tali da dover essere mantenuti, e, quindi, ben poteva ritenersi che tale somma fosse destinata a coprire esclusivamente le spese del proprio mantenimento.
E’ stato anche confermato il rigetto della domanda di risarcimento del danno biologico iure hereditatis, in conformità con l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, espressamente richiamato nella sentenza impugnata, secondo cui gli eredi possono chiedere solo il riconoscimento, pro quota, dei diritti entrati nel patrimonio del de cuius, e quindi, nel caso di morte che si verifica immediatamente o a breve distanza di tempo dalla lesione, possono ottenere solo il risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute della vittima, ma non quello per la lesione del diverso bene giuridico della vita, che, per il definitivo contestuale venir meno del soggetto, non entra nel suo patrimonio e può ricevere tutela solo in sede penale.
Infine, la corte territoriale ha respinto la censura secondo la quale il tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento del danno esistenziale rilevando che invece tale richiesta era stata esaminata e accolta (pagina 13 della sentenza di primo grado) anche se il danno era stato liquidato equitativamente in modo complessivo, insieme ad altre voci di danno non patrimoniale.
M.F. e A.A., M.M. e G. ricorrono per la cassazione della sentenza della corte d’appello di Torino sulla base di sette motivi.
Il D. e la Unipol non hanno svolto attività difensiva.
La terza sezione civile, in esito alla discussione fissata per l’udienza del 22 gennaio 2014, con ordinanza del 4 marzo 2014, pronunciata a seguito di riconvocazione del collegio, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, avendo rilevato l’esistenza di un contrasto consapevole tra la sentenza 23 gennaio 2014 n. 1361, che ha ammesso la risarcibilità, iure hereditatis, del danno derivante da perdita della vita verificatasi immediatamente dopo le lesioni riportate in un incidente stradale, e il precedente contrario e costante orientamento, risalente alla sentenza delle sezioni unite n. 3475 del 1925, che ha anche trovato conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994 e in decisioni delle sezioni unite (da ultimo, la n. 26972/2008), che hanno negato tale risarcibilità. L’ordinanza aggiunge che la questione di cui si tratta dovrebbe anche considerarsi di particolare importanza.
In data 31 maggio 2014 i ricorrenti hanno presentato memoria. La Unipol ha conferito procura speciale per la discussione.
Motivi della decisione
- Con il primo motivo, deducendo la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1227, 2043e 2056c.c., e vizio di motivazione, i ricorrenti criticano la sentenza impugnata per avere ritenuto il concorso di responsabilità del M., invece che quella esclusiva del D., sulla base di una motivazione relativa al superamento della velocità massima da parte del M. non adeguata nè sorretta da accertamenti tecnici corretti, in conseguenza del rigetto, altrettanto immotivato, della richiesta di nuova c.t.u.. Rilevano anche la contraddizione tra l’affermazione che la repentinità della manovra di svolta a sinistra avrebbe reso inevitabile lo scontro pure se la velocità della vittima fosse rimasta nei limiti legali e il rilievo secondo cui in tal caso le conseguenze del sinistro sarebbero state meno disastrose.
Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano che, violando l’art. 154 C.d.S., la corte territoriale, nell’affermare il concorso di responsabilità invece che la responsabilità esclusiva del D., non abbia dato adeguato rilievo alla condotta dello stesso, che aveva omesso di accertarsi che la manovra di svolta a sinistra potesse essere effettuata senza creare intralcio o pericolo, segnalandola tempestivamente.
I motivi non sono fondati.
La corte territoriale ha fornito puntuale motivazione del giudizio di fatto relativo alla dinamica dell’incidente indicando le fonti del proprio convincimento, comprensivo del diverso apprezzamento del grado della concorrente responsabilità della vittima. Ha altresì indicato la ragione del rigetto della richiesta di nuova c.t.u., basata sulla critica dell’utilizzazione di parametri teorici da parte del c.t. nominato dal tribunale che non era idonea a giustificare il ricorso a un’ulteriore c.t.u.. Le argomentazioni della corte territoriale sono logiche e sufficienti e pertanto non giustificano alcuna censura in questa sede.
- Deducendo la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2043e 2697c.c., i ricorrenti, con il terzo motivo, censurano la sentenza impugnata per avere negato il risarcimento del danno patrimoniale lamentato da M.F. e A.A. non ostante che fosse stata acquisita la prova della convivenza di M. A. con i genitori e il suo contributo mensile di L. 1.500.000 che avrebbe potuto continuare, in considerazione dell’età della vittima (31 anni) e dei genitori stessi, per almeno un quinquennio.
Lamentano, inoltre, con il quarto motivo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e artt. 2727 e 2720 c.c.) che invece di porre a fondamento della decisione le prove raccolte il giudice del merito si sia basato sulla mera presunzione che i versamenti mensili avessero la funzione di far fronte alle proprie spese di vitto e alloggio.
Il motivo non è fondato. La presunzione utilizzata dalla corte territoriale per affermare che i versamenti mensili da parte del figlio convivente non avevano la funzione di contribuire al mantenimento dei genitori, ma quella di far fronte alle spese per il proprio mantenimento è corretta, essendo basata sulla mancanza di prova dell’insufficienza economica dei genitori, e non merita la critica, peraltro del tutto apodittica e generica, dei ricorrenti.
- Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32Cost., e art. 2043c.c.. Criticano la sentenza impugnata per aver escluso il risarcimento, richiesto iure hereditatis, del danno biologico per la morte del congiunto seguita immediatamente dopo la lesione subita a causa dello scontro, non ritenendo condivisibile la netta distinzione fra il bene della salute e il bene della vita, tutelati, l’uno dall’art. 32, e l’altro dall’art. 2 Cost., e quindi compresi nella tutela risarcitoria atipica apprestata dall’art. 2043 c.c.. Denunciano la contraddizione tra l’ammissione del risarcimento a favore degli eredi per il danno meno grave derivante dalla perdita della salute e la negazione di tale risarcimento per il danno ben più grave derivante dalla perdita della vita dalla quale, indipendentemente dal venir meno del soggetto, non può che derivare un danno risarcibile. D’altra parte, tra la lesione e la morte esisterebbe sempre un sia pur impercettibile spazio temporale e quindi non esisterebbe giustificazione logica tra ammettere il risarcimento nel caso in cui tale spazio è ampio e negarlo quando è minimo.
3.1. L’ordinanza della terza sezione, con la quale è stato segnalato il contrasto consapevole tra la sentenza n. 1361 del 2014 e il precedente costante e risalente orientamento, individua la questione rimessa all’esame di queste sezioni unite nella risarcibilità o meno iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito.
Esulano quindi dal tema che formerà oggetto della presente decisione le questioni relative al risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni. Con riferimento a tale situazione, infatti, non c’è alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (che prende le mosse dalla sentenza delle sezioni unite del 22 dicembre 1925, alla quale di seguito si farà più ampio riferimento) sul diritto iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi.
L’unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con “mera sintesi descrittiva” (Cass. n. 26972 del 2008), è indicato come “danno biologico terminale” (Cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) – liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno – e,da altro orientamento, è classificato come danno “catastrofale” (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno “catastrofale”, inoltre, per alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (Cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n. 13537 del 2014) e per altre, di danno biologico psichico (Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011). Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni perchè, come già osservato, anche in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l’utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale.
3.2. Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, invece, si ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento dei danno iure hereditatis. Tale orientamento risalente (Cass. sez. un. 22 dicembre 1925, n. 3475: “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza di un subbietto di diritto”) ha trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994 e, come rilevato, anche nella più recente sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 (che ne ha tratto la conseguenza dell’impossibilità di una rimeditazione della soluzione condivisa) e si è mantenuto costante nella giurisprudenza di questa Corte (tra le più recenti, successivamente alla citata sentenza della Corte costituzionale: Cass. n. 11169 del 1994, n. 10628 del 1995, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 3592 del 1997, n. 1704 del 1997, n. 9470 del 1997, n.11439 del 1997, n. 5136 del 1998, n. 6408 del 1998, n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 1633 del 2000, n. 2134 del 2000, n. 4729 del 2001, 4783 del 2001, n. 887 del 2002, n. 7632 del 2003, n. 9620 del 2003, n. 517 del 2006, n. 3760 del 2007, n. 12253 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 15706 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 2654 del 2012, n. 12236 del 2012, n. 17320 del 2012).
A tale risalente e costante orientamento le sezioni unite intendono dare continuità non essendo state dedotte ragioni convincenti che ne giustifichino il superamento. Certamente tali ragioni non sono state neppure articolate con la sentenza n. 15760 del 2006 (pronunciata su ricorso avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni da morte di congiunto avanzata iure proprio) che, con affermazione avente dichiarata natura di obiter “sistematico”, si è limitata ad auspicare che, in conformità con orientamenti dottrinari italiani ed Europei, sia riconosciuto quale momento costitutivo del credito risarcitorio quello della lesione, indipendentemente dall’intervallo di tempo con l’evento morte causalmente collegato alla lesione stessa. Ma anche l’ampia motivazione della sentenza n. 1361 del 2014, che ha effettuato un consapevole revirement, dando luogo al contrasto in relazione al quale è stato chiesto l’intervento di queste sezioni unite, non contiene argomentazioni decisive per superare l’orientamento tradizionale, che, d’altra parte, risulta essere conforme agli orientamenti della giurisprudenza Europea con la sola eccezione di quella portoghese.
La premessa del predetto orientamento, peraltro non sempre esplicitata, sta nell’ormai compiuto superamento della prospettiva originaria secondo la quale il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all’agire dell’autore dell’illecito e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca “nessuna responsabilità senza colpa” e corrispondente alle codificazioni ottocentesche per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del ’42).
L’attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l’area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell’analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l’esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva ” (Corte cost. n. 372 del 1994). Nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente (Cass. n. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi (Corte cost. n. 372 del 1994; Cass. n. 4991 del 1996; n. 1704 del 1997; n. 3592 del 1997; n. 5136 del 1998; n. 6404 del 1998; n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 2134 del 2000; n. 517 del 2006, n. 6946 del 2007, n. 12253 del 2007). E poichè una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poichè, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. n. 4991 del 1996).
E’ questo l’argomento che la dottrina definisce “epicureo”, in quanto riecheggia le affermazioni di Epicuro contenute nella Lettera sulla felicità a Meneceo (“Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perchè quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perchè per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci”) e che compare nella già indicata sentenza delle sezioni unite n. 3475 del 1925 ed è condiviso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994, – che ha escluso la contrarietà a Costituzione dell’interpretazione degli articoli 2043 e 2059 c.c. secondo cui non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita, potendo giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile, solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni, nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte – e dalla costante giurisprudenza successiva di questa Corte.
3.3. La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (Cass. n. 1361 del 2014), anche perchè, secondo un’autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intersa collettività.
Ora, in disparte che la corrispondenza a un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo, deve rilevarsi che, secondo l’orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato). Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria “sia data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti”.
Coglie il vero, peraltro, il rilievo secondo cui oltre che oggetto di un diritto del titolare, insuscettibile di tutela per il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio, la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza escludere il diritto ex art. 185 c.p., comma 2, al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato, ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, per l’evidente difficoltà, tutt’ora esistente per quanto riguarda la tutela giurisdizionale amministrativa, di individuare e circoscrivere l’ambito della “collettività” legittimate a invocare la tutela.
3.4. Ulteriore rilievo, frequente in dottrina, è che sarebbe contraddittorio concedere onerosi risarcimenti dei danni derivanti da lesioni gravissime e negarli del tutto nel caso di illecita privazione della vita, con ciò contraddicendo sia il principio della necessaria integralità del risarcimento che la funzione deterrente che dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile e che dovrebbe portare a introdurre anche nel nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi.
L’argomento (“è più conveniente uccidere che ferire”), di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo, perchè non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall’applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell’illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l’autore dell’illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore.
Peraltro è noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132 del 1985, n. 369 del 1996, n. 148 del 1999) il principio dell’integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale ed è quindi compatibile con l’esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che in una perdita che richiede l’esistenza di un soggetto che tale perdita subisce.
Del pari non appare imposta da alcuna norma o principio costituzionale un obbligo del legislatore di prevedere che la tutela penale sia necessariamente accompagnata da forme di risarcimento che prevedano la riparazione per equivalente di ogni perdita derivante da reato anche quando manchi un soggetto al quale la perdita sia riferibile.
Da quanto già rilevato, inoltre, la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi” (Cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito.
3.5. Pur non contestando il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in adesione a un’autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994) secondo il quale i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell’evento lesivo, in sè considerato, si è affermato con la sentenza n. 1361 del 2014 che il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell’evento lesivo che, salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale, ponendosi come eccezione a tale principio della risarcibilità dei soli “danni conseguenza”.
Ma, a parte che l’ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l’anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” e il “bene vita” sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Peraltro, se tale anticipazione fosse imposta dalla difficoltà di quantificazione del lasso di tempo intercorrente tra morte (da intendersi sempre processo mortale e non come evento istantaneo) e lesione, necessario a far sorgere nel patrimonio della vittima il credito risarcitorio, sarebbe facile osservare, da un lato, che da punto di vista giuridico è sempre necessario individuare un momento convenzionale di conclusione del processo mortale, come descritto dalla scienza medica, al quale legare la nascita del credito, e dall’altro, che l’individuazione dell’intervallo di tempo tra morte e lesione, rilevante ai fini del riconoscimento del credito risarcitorio, è operazione ermeneutica certamente delicata e che presenta margini di incertezza, ma del tutto conforme a quella che il giudice è costantemente impegnato ad operare quando è costretto a fare applicazione di concetti generali e astratti.
- Con il sesto motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 2, 29e 30cost. e dell’art. 2043, nonchè dell’art. 112 c.p.c.. Premessa la distinzione tra danno morale e danno esistenziale, per perdita del rapporto parentale conseguente alla morte del congiunto, i ricorrenti lamentano che la corte territoriale non si sia pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno esistenziale, avendo affermato che tale danno era stato risarcito dal tribunale con la liquidazione equitativa complessiva del danno morale.
Con il settimo motivo i ricorrenti ribadiscono che la corte territoriale non avrebbe fornito alcuna motivazione del rigetto della domanda di risarcimento del danno esistenziale.
I motivi sono infondati. Premesso che la corte territoriale, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, ha motivato, richiamando e condividendo quanto operato dal tribunale, la liquidazione unitaria del danno, avendo considerato, al momento della relativa quantificazione, tanto quello di tipo relazionale quanto la sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale, e quindi non ha omesso di valutare il relativo capo di domanda, deve anche osservarsi che, come affermato da queste sezioni unite con le sentenze 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975 non sono configurabili, all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale, cioè del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, autonome sottocategorie di danno, perchè se in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all’art. 2059 c.c..
Poichè la presente decisioni trae origine da un contrasto insorto nella giurisprudenza della Corte le spese del presente giudizio possono essere interamente compensate.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 17 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2015