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SEPARAZIONI MARITO MOGLIE ANSIA CONFLITTI SOLUZIONI BOLOGNA, COME RISOLVERE LA SEPARAZIONE ?

SEPARAZIONI MARITO MOGLIE ANSIA CONFLITTI SOLUZIONI BOLOGNA

RINUNCIA EREDITA’ COSA E’ ?QUANDO FARLA ? AVVOCATO SUCCESSIONI BOLOGNA effetti della rinuncia all eredità rinuncia successione conseguenze rinuncia eredità costi rinuncia eredità rinuncia eredità termine rinuncia eredità minorenni rinuncia eredità modulo rinuncia eredità debiti
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Sia in sede di separazione che di divorzio – gli artt. 155 quater c.c. (applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis) e 6, co. 6, della L. n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 11 della L. n. 74 del 1987, consentono al giudice di assegnare l’abitazione al coniuge non titolare di un diritto di godimento (reale o personale) sull’immobile, solo se a lui risultino affidati figli minori, ovvero con lui risultino conviventi figli maggiorenni non autosufficienti. Tale ‘ratio’ protettiva, che tutela l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile, invece, in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso i quali non sussiste, invero, proprio in ragione della loro acquisita autonomia ed indipendenza economica, esigenza alcuna di spedale protezione (cfr., ex plurimis, Cass. 5857/2002; 25010/2007; 21334/2013). Devesi – per il vero – considerare, in proposito, che l’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde all’esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento alla conservazione del loro ‘habitat’ domestico inteso come centro della vita e degli affetti dei medesimi, con la conseguenza che detta assegnazione non ha più ragion d’essere soltanto se, per vicende sopravvenute, la casa non sia più idonea a svolgere tale essenziale funzione. (Cass. 6706/2000).

. Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, dunque, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti. E tuttavia, tale intrinseca provvisorietà dei provvedimenti in parola non incide sulla natura e sulla funzione della misura, posta ad esclusiva tutela della prole, con la conseguenza che anche in sede di revisione – come in qualsiasi altra sede nella quale, come nel presente giudizio, sia in discussione il permanere delle condizioni che avevano giustificato l’originaria assegnazione – resta imprescindibile il requisito dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti.

avvocati a bolognaNe discende che, se è vero che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall’art. 6, co. 6, della legge sul divorzio, nondimeno l’assegnazione in questione non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente destinato l’assegno di divorzio (Cass. 13736/2003; 10994/2007; 18440/2013).

Ebbene, non può revocarsi in dubbio che i principi di diritto suesposti debbano costituire le linee guida per risolvere anche il caso – ricorrente nella specie – in cui (a casa adibita a residenza coniugale sia stata alienata, dopo l’assegnazione all’altro coniuge (affidatario di figli minori o convivente con figli maggiorenni non auto-sufficienti), dal coniuge proprietario dell’immobile.

Ed invero, ai sensi dell’art. 6, co. 6, della legge n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dall’art. 11 della l. n. 74 del 1987), applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni.

Tale opponibilità conserva, beninteso, il suo valore finché perduri l’efficacia della pronuncia giudiziale, costituente il titolo in forza del quale il coniuge, che non sia titolare di un diritto reale o personale di godimento dell’immobile, acquisisce il diritto di occuparlo, in quanto affidatario di figli minori o convivente con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti (cfr. Cass. S.U. 11096/2002, in motivazione; Cass. 5067/2003; 9181/2004; 12296/2005; 4719/2006). È fin troppo evidente, infatti, che il perdurare sine die dell’occupazione dell’immobile – perfino quando ne siano venuti meno i presupposti, per essere i figli divenuti ormai autonomi economicamente – si risolverebbe in un ingiustificato, durevole, pregiudizio al diritto del proprietario terzo di godere e disporre del bene, ai sensi degli artt. 42 Cost. e 832 c.c. Una siffatta lettura delle succitate norme che regolano l’assegnazione della casa coniugale (v. ora l’art. 337 sexies c.c.), del resto, presterebbe certamente il fianco a facili censure di incostituzionalità.

Ciò posto, va rilevato che l’efficacia della pronuncia giudiziale del provvedimento di assegnazione in parola può essere messa in discussione tra i coniugi, circa il perdurare dell’interesse dei figli, nelle forme del procedimento di revisione previsto all’art. 9 della L. n. 898 del 1970, attraverso la richiesta di revoca del provvedimento di assegnazione, per il sopravvenuto venir meno dei presupposti che ne avevano giustificato l’emissione.

Per converso, deve ritenersi che il terzo acquirente – non legittimato ad attivare il procedimento suindicato – non possa che proporre, instaurando un ordinario giudizio di cognizione, una domanda di accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario della casa coniugale, per essere venuta meno la presenza di figli minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, con il medesimo conviventi. E ciò al fine di conseguire una declaratoria di inefficacia del titolo che legittima l’occupazione della casa coniugale da parte del coniuge assegnatario, a tutela della pienezza delle facoltà connesse al diritto dominicale acquisito, non più recessive rispetto alle esigenze di tutela dei figli della coppia separata o divorziata (cfr. Cass. 18440/2013, secondo cui ogni questione relativa al diritto di proprietà della casa coniugale o al diritto di abitazione sull’immobile esula dalla competenza funzionale del giudice della separazione o del divorzio, e va proposta con il giudizio di cognizione ordinaria). In mancanza, il terzo – non potendo attivare il procedimento, riservato ai coniugi, di cui all’art. 9 della legge sul divorzio – resterebbe, per il vero, del tutto privo di tutela, in violazione del disposto dell’art. 24 Cost..

 

In conclusione, la durata del matrimonio costituisce di regola una circostanza che influisce sulla determinazione dell’ammontare dell’assegno e non già sul suo riconoscimento, salvo casi eccezionali che peraltro nella specie non sono stati individuati dalla sentenza impugnata non essendo stato accertato in giudizio che non si era verificata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi. Quanto all’accertamento del tenore di vita in costanza di matrimonio,lo stesso risulta basato su un attento esame da parte della Corte d’appello delle risultanze testimoniali con cui è stata rilevata l’attendibilità delle deposizioni rese dai testimoni citati dalla T. relative al tenore di vita della coppia (villa con giardino, arredamento con mobili di antiquariato,caveau con quadri d’autore, acquisti da parte della T. in negozi in via (omissis) ed in via della (…) etc.) in quanto sostanzialmente le loro deposizioni non contrastavano con quelle rese dai testi addotti da controparte che avevano comunque riconosciuto l’attività di mercante d’arte del D.P. e che avevano confermato che i coniugi vivevano in una villetta anche se non proprio nel centro di (…). La Corte d’appello ha poi rilevato che, in ordine all’accertamento del detto tenore di vita, non poteva avere rilevanza l’avvenuta liquidazione dell’attività imprenditoriale del D.P. , posto che questa era avvenuta a dieci anni di distanza dalla cessazione della convivenza. Argomentazione questa del tutto corretta in quanto riferita al tenore di vita in costanza di matrimonio e non alla situazione economica ed all’adeguatezza dei mezzi economici delle parti al momento della pronuncia di divorzio. Quanto a queste ultime, il motivo in esame si incentra soprattutto sull’assunto che, avendo la T. rinunciato in sede di separazione all’assegno di mantenimento, ciò voleva dire che questa disponeva di adeguati mezzi di sussitenza, ma non censura in modo specifico l’accertamento effettuato dalla Corte d’appello circa i redditi della T. derivanti dalla sua attività di avvocato (meno di cinque mila Euro annui) e dalla proprietà di un immobile (poco più di mille Euro) attestanti una situazione di evidente insufficenza economica, né il ricorrente, a parte la deduzione della messa in liquidazione della propria attività (circostanza che di per sé non dimostra il venire meno di ogni capacità di produrre reddito se non associata all’affermazione di avere cessato ogni attività lavorativa, potendosi cessare un’attività per intraprendere un’altra) non deduce alcun elemento in base al quale affermi di non disporre di un reddito adeguato.

Nel giudizio di separazione dei coniugi, la declaratoria di addebito richiede, quindi, un’autonoma domanda di parte. Gli effetti dell’addebito si riverberano esclusivamente sul piano patrimoniale, determinando la perdita del diritto all’assegno di mantenimento e dei diritti successori in capo al coniuge al quale viene addebitata la separazione.

È ormai consolidato il principio secondo il quale, affinché si possa giungere ad una pronuncia di separazione con addebito, è necessario che venga prima accertata, in maniera rigorosa, la sussistenza di un nesso causale tra la condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, ovvero il grave pregiudizio all’educazione della prole.

Ove non si riesca a raggiungere la piena prova che la condotta contraria ai doveri del matrimonio posta in essere da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stata causa diretta del fallimento della convivenza, il giudice dovrà necessariamente astenersi dal pronunciare la separazione con addebito.

Se tale violazione cagioni, altresì, la lesione di diritti costituzionalmente protetti, la stessa potrà integrare gli estremi dell’illecito civile, dando così luogo anche ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non endo-familiari, senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a tali danni.

gli artt. 155 quater c.c. (applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis) e 6, co. 6, della L. n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 11 della L. n. 74 del 1987, consentono al giudice di assegnare l’abitazione al coniuge non titolare di un diritto di godimento (reale o personale) sull’immobile, solo se a lui risultino affidati figli minori, ovvero con lui risultino conviventi figli maggiorenni non autosufficienti. Tale ‘ratio’ protettiva, che tutela l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile, invece, in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso i quali non sussiste, invero, proprio in ragione della loro acquisita autonomia ed indipendenza economica, esigenza alcuna di spedale protezione (cfr., ex plurimis, Cass. 5857/2002; 25010/2007; 21334/2013). Devesi – per il vero – considerare, in proposito, che l’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde all’esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento alla conservazione del loro ‘habitat’ domestico inteso come centro della vita e degli affetti dei medesimi, con la conseguenza che detta assegnazione non ha più ragion d’essere soltanto se, per vicende sopravvenute, la casa non sia più idonea a svolgere tale essenziale funzione. (Cass. 6706/2000).

Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, dunque, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti. E tuttavia, tale intrinseca provvisorietà dei provvedimenti in parola non incide sulla natura e sulla funzione della misura, posta ad esclusiva tutela della prole, con la conseguenza che anche in sede di revisione – come in qualsiasi altra sede nella quale, come nel presente giudizio, sia in discussione il permanere delle condizioni che avevano giustificato l’originaria assegnazione – resta imprescindibile il requisito dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti.

Ne discende che, se è vero che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dall’art. 6, co. 6, della legge sul divorzio, nondimeno l’assegnazione in questione non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente destinato l’assegno di divorzio (Cass. 13736/2003; 10994/2007; 18440/2013).

 

La Giurisprudenza specifica che: «ai fini dell’addebitabilità della separazione il Giudice di merito deve accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi, e quindi se sussista un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, o se piuttosto la violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto di essa» (Cass. 2012, n. 8862; Cass. 2012, n. 8873; Cass., Sez. I, 2010, n. 21245; Cass. 2001, n. 12130; Cass., Sez. I, 1999, n. 7566).

l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali (v., da ultimo, Cass., sent. n. 11686 del 2013).

 

ANZOLA DELL’EMILIA SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 2. ARGELATO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 3. BARICELLA SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 4. BENTIVOGLIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 5. BOLOGNA SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 6. BORGO TOSSIGNANO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 7. BUDRIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 8. CALDERARA DI RENO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 9. CAMUGNANO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO10. CASALECCHIO DI RENO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO11. CASALFIUMANESE SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO12. CASTEL D’AIANO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO13. CASTEL DEL RIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO14. CASTEL DI CASIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO15. CASTEL GUELFO DI B. SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO16. CASTEL MAGGIORE SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO17. CASTEL SAN PIETRO TERME SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO18. CASTELLO D’ARGILE SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO19. CASTENASO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO20. CASTIGLIONE DEI PEPOLI SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO2

SEPARAZIONI MARITO MOGLIE ANSIA CONFLITTI SOLUZIONI BOLOGNA

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Mette conto porre in rilievo che, mentre ai fini della integrazione fattispecie di cui all’art. 12-sexies L. n. 898/1970 è sufficiente dimostrare la volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale e non occorre, quindi (come riconosciuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 472 del 1989), che dall’inadempimento consegua anche il ‘far mancare i mezzi di sussistenza’, tale elemento risulta invece necessario ed ineludibile ai fini della integrazione della figura criminosa prevista dall’art. 570 comma secondo, n. 2, cod. pen..

Ne discende che la riqualificazione giuridica del fatto dal delitto originariamente contestato di cui al citato art. 12-sexies a quello dell’art. 570, secondo comma, cod. pen. – pur legittima in quanto compiuta senza alcuna violazione del principio sancito nell’art. 521 cod. proc. pen. – avrebbe nondimeno imposto un’accurata verifica dei giudici di merito circa la sussistenza dei presupposti fattuali della nuova fattispecie ravvisata.

Ed invero, il reato previsto dall’art. 570, secondo comma n. 2, cod. pen. ha come presupposto necessario l’esistenza di un’obbligazione alimentare ai sensi del codice civile, ma non assume carattere meramente sanzionatorio del provvedimento del giudice civile nel senso che l’inosservanza anche parziale di questo importi automaticamente l’insorgere del reato, di tal che, per configurare l’ipotesi delittuosa in esame, occorre che gli aventi diritto all’assegno alimentare versino in stato di bisogno, che l’obbligato ne sia a conoscenza e che lo stesso sia in grado di fornire i mezzi di sussistenza.

Difatti, come questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, ivi compresa la oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore, mentre deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (Sez. 6, n. 159898 del 04/02/2014 – dep. 09/04/2014, S. Rv. 259895).

Di tali principi non ha adeguatamente tenuto conto il Collegio di merito, che ha omesso esplicitare, giusta le specifiche deduzioni difensive, le ragioni obbiettive sulla scorta delle quali abbia ritenuto provato che M. facesse mancare i ‘mezzi di sussistenza’ ai figli, da valutare in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, ai fini del – sia pur contenuto – soddisfacimento del ‘minimo vitale’ e delle altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione).

La motivazione del provvedimento è insoddisfacente anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sul quale si era incentrato uno specifico motivo d’appello.

AS3Ed invero, ribadito che il reato de quo richiede il mero dolo generico e non un dolo specifico, il Giudice di secondo grado avrebbe dovuto indagare, lasciandone circostanziata traccia nella motivazione, se – nel momento in cui provvedeva ad un adempimento solo parziale dell’obbligazione alimentare, sosteneva talune spese dei figli e lasciava a loro ed alla ex coniuge la disponibilità dell’alloggio familiare – M. avesse coscienza e volontà di erogare ai propri figli mezzi di sussistenza insufficienti.

Sono fondate anche le censure che riguardano l’integrazione del reato di ingiuria.

Secondo la contestazione, l’offesa alla persona si sarebbe sostanziata nell’avere M. , nel corso di una conversazione telefonica con la nuova moglie, bollato l’ex coniuge con l’epiteto di ‘stupida’.

Secondo i principi affermati da questa Corte regolatrice, al fine dell’accertamento dell’idoneità dell’espressione utilizzata a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 cod. pen., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata; nel contempo è necessario considerare che l’uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014 – dep. 04/12/2014, F, Rv. 261310).

Sulla scorta dei principi appena esposti, ritiene il Collegio che l’espressione ‘stupida’, rivolta all’indirizzo della persona offesa, in un contesto di conflittualità tra coniugi, non possa ritenersi determinare automaticamente la lesione del bene tutelato dall’art. 594 cod. pen., non concretandosi necessariamente in un giudizio di disvalore sulle qualità personali del destinatario: si tratta invero di termine ormai frequentemente utilizzato nel linguaggio comune, anche dei minori, e che può ritenersi assumere valenza offensiva soltanto allorché sia inserito in un contesto che esprima, senza possibilità di equivoci, disprezzo e disistima verso a vittima. Contesto siffatto che non risulta essere stato adeguatamente rappresentato nel passaggio argomentativo della pronuncia dedicato a tale imputazione, là dove – secondo la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici della cognizione – l’espressione veniva utilizzata dal M. non in una comunicazione diretta con la persona offesa, bensì in una conversazione con una terza persona allorquando la presunta vittima si trovava chiusa nella stanza da bagno, dunque in una situazione nella quale la stessa non ha, ragionevolmente, potuto cogliere appieno il contesto complessivo del discorso nell’ambito del quale l’espressione veniva spesa e di apprezzarne l’effettiva valenza ingiuriosa.

Ad ogni modo, la Corte non ha adeguatamente argomentato la configurabilità del dolo, seppure nella forma eventuale.

Ricorre invero il dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile, sebbene non certa, l’esistenza dei presupposti della condotta, ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare ad essa, accetta che il fatto possa verificarsi, decidendo di agire comunque. Parametri non tenuti in adeguata considerazione dal Giudice d’appello allorché ha ritenuto integrato il dolo quantomeno eventuale nella condotta dell’agente che spendeva l’espressione in ipotesi offensiva, nel corso di una conversazione telefonica intercorsa con altri, nel mentre nell’alloggio ‘non grande’ si trovava la persona attinta dalla parola ingiuriosa, avendo egli accettato il rischio che quest’ultima potesse cogliere l’epiteto offensivo, in quanto evento non ‘improbabile o del tutto inverosimile’. Tale ragionamento, nondimeno, non si confronta con la specifica deduzione difensiva secondo la quale, al momento, la persona offesa si trovava non – genericamente – in un’altra stanza, ma chiusa in bagno a fare la doccia, in una situazione nella quale non può dirsi rispondere ad una comune massima d’esperienza che sia ‘probabile’ o ‘verosimile’ che taluno possa cogliere il senso della conversazione telefonica che altri stia facendo al telefono, sì da poterne percepire i contenuti offensivi.

 

 

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 8 gennaio 2016, n. 535

 

Ritenuto in fatto

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Con provvedimento del 25 settembre 2014, in parziale riforma dell’impugnata sentenza del Tribunale di Udine del 20 aprile 2011, la Corte d’appello di Trieste, concesse le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato la pena inflitta a M.A. in quella di mesi due di reclusione ed Euro 200 di multa, in ordine al reato di cui all’art. 570, comma 2, cod. pen. (in detti termini riqualificata già dal primo giudice l’originaria contestazione ex art. 12-sexies L. n.898/1970, sub capo 1) della rubrica), nel contempo sostituendo la pena detentiva inflitta per detto reato con quella pecuniaria di Euro 2280, e la pena detentiva per i reati di ingiuria e lesioni sub capi 2) e 3) con la pena pecuniaria di Euro 500 di multa.

1.1. Dopo avere fato atto delle doglianze mosso nell’appello, la Corte territoriale ha posto in evidenza, quanto al capo 1), che la corresponsione una tantum di Euro 400, l’erogazione di somme direttamente ai figli a titolo di liberalità ed il consenso prestato a che moglie e figli abitassero nella casa intestata ad entrambi non possono supplire alla corresponsione sistematica delle somme cui il genitore è tenuto; che lo stato di bisogno dei minori è presunto e non è superato dalla circostanza che i figli siano affidati al servizio sociale o assistiti da istituti; che, quanto al capo 2), è integrato il dolo dell’ingiuria, almeno nella forma eventuale; che, quanto al capo 3), non è ravvisabile nella specie la legittima difesa; che, nondimeno, sono applicabili le circostanze attenuanti generiche e sostituibile la pena detentiva con la pena pecuniaria.

Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’Avv. Denisa Pitton, difensore di fiducia del M. , e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:

2.1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 12-sexies L. n. 898/1970, per avere il giudice di primo grado, esclusa la valenza della sentenza straniera nell’ordinamento italiano, riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 570, secondo, cod. pen., in assenza di una specifica contestazione in tale senso;

2.2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 570, secondo comma, cod. pen., per avere la Corte omesso di considerare, per un verso, come, nonostante la parziale mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento, non siano mai mancati ai figli i mezzi di sussistenza, avendo la stessa coniuge riconosciuto nel corso della deposizione che l’imputato aveva provveduto alle spese scolastiche, mediche e sportive dei figli nonché alle ricariche dei loro telefoni cellulari, con ciò soddisfacendo le loro esigenze primarie; per altro verso, come, nel periodo in contestazione, l’imputato avesse subito un grave infortunio sul lavoro, che – come documentato – gli aveva impedito di lavorare;

2.3. vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 570, secondo comma, cod. pen., per avere il Collegio d’appello ritenuto provato il dolo del reato, pur a fronte del parziale adempimento dell’obbligo di mantenimento verso i figli;

2.4. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 594 cod. pen., per avere la Corte ritenuto integrato il reato sebbene l’imputato avesse apostrofato la moglie con l’epiteto offensivo (‘stupida’) allorché ella era chiusa in bagno per fare la doccia e non aveva pertanto potuto percepire l’offesa;

2.5. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 582 cod. pen., per avere il Giudice di secondo grado escluso gli estremi della legittima difesa putativa, avendo M. agito nell’intento di difendersi anziché di impedire alla moglie di riappropriarsi della collana che egli teneva al collo;

2.6. vizio di motivazione in relazione alla quantificazione della pena, per avere il Collegio d’appello trascurato di considerare che l’inottemperanza agli obblighi si era protratta per soli due mesi, nei quali l’imputato aveva comunque fatto fronte al pagamento di alcune spese dei minori.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.

È destituito di fondamento il primo motivo, con il quale il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto legittima la riqualificazione giuridica, ad opera del primo giudice, del fatto di cui al capo 1) dall’ipotesi originariamente contestata di cui all’art. 12-sexies L. n. 898/1970 a quella di cui all’art. 570, secondo comma, cod. pen..

Ed invero, secondo l’insegnamento di questo Supremo Collegio, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. si deve tenere conto, non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le proprie difese sull’intero materiale probatorio, posto a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, 27/2/2008, Fontanesi, Rv. 239866; Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 – dep. 29/11/2013, Di Guglielmi Rv. 257278). Se il ‘fatto’ va definito come l’accadimento di ordine naturale, dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, di luogo e di tempo, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, la violazione del principio di correlazione si realizza e si manifesta solo attraverso un’alterazione consistente ed una trasformazione radicale della fattispecie concreta, nei suoi elementi essenziali, che non consenta di rinvenire un nucleo comune, identificativo della condotta, con il risultato di un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, tra il fatto contestato e quello accertato, capace di creare un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte del quale si verifica un pregiudizio, concreto e reale, dei diritti della difesa (Cass., Sez. 2, 45993/2007, Cuccia, Rv. 239320).

A fronte della riqualificazione giuridica del fatto, con la sentenza di primo grado, e della specifica contestazione mossa al riguardo nell’atto d’appello, la Corte territoriale ha escluso la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, evidenziando come l’imputato, assistito dal difensore fiduciario, avesse accettato il contraddittorio instauratosi a seguito della escussione dibattimentale della moglie, nel corso della quale ella aveva appunto riferito che il marito aveva fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli, all’epoca, rispettivamente di 16 e 12 anni d’età.

La motivazione svolta sul punto dal Collegio di merito risulta congrua e scevra da illogicità manifesta, là dove pone in luce le ragioni per le quali il Giudice distrettuale abbia ritenuto che l’imputato avesse una compiuta conoscenza di tutti i termini della contestazione, sia formale sia ‘sostanziale’, così da poter esercitare appieno la difesa in relazione all’intero themaprobandum, con particolare riguardo alla circostanza di fatto – ulteriore rispetto a quella oggetto di originaria contestazione – rappresentata dall’avere fatto mancare ai figli i mezzi di sussistenza, su cui appunto si è incentrata la condanna ex art. 570, secondo comma n. 2, cod. pen..

A ciò si aggiunga che proprio su tale circostanza – id est ‘l’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza’ – si è incentrato uno dei motivi d’appello (e poi di ricorso per cassazione), il che dimostra per tabulas come l’imputato fosse in concreto edotto anche di tale aspetto della contestazione, tanto da promuovere sul punto il vaglio dei giudici dell’impugnazione di merito.

Colgono di contro nel segno le censure con le quali il ricorrente deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta integrazione del reato di cui all’art. 570, comma secondo n. 2, cod. pen. Lamenta, in particolare, il ricorrente la mancata valutazione da parte della Corte territoriale delle circostanze dedotte in sede di appello concernenti la corresponsione alla coniuge di alcune rate dell’assegno e di diverse somme ai fini della copertura di parte delle spese per il mantenimento dei figli nonché la messa a disposizione dell’alloggio coniugale, facendo fronte al pagamento delle rate del mutuo ipotecario.

Mette conto porre in rilievo che, mentre ai fini della integrazione fattispecie di cui all’art. 12-sexies L. n. 898/1970 è sufficiente dimostrare la volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale e non occorre, quindi (come riconosciuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 472 del 1989), che dall’inadempimento consegua anche il ‘far mancare i mezzi di sussistenza’, tale elemento risulta invece necessario ed ineludibile ai fini della integrazione della figura criminosa prevista dall’art. 570 comma secondo, n. 2, cod. pen..

Ne discende che la riqualificazione giuridica del fatto dal delitto originariamente contestato di cui al citato art. 12-sexies a quello dell’art. 570, secondo comma, cod. pen. – pur legittima in quanto compiuta senza alcuna violazione del principio sancito nell’art. 521 cod. proc. pen. – avrebbe nondimeno imposto un’accurata verifica dei giudici di merito circa la sussistenza dei presupposti fattuali della nuova fattispecie ravvisata.

Ed invero, il reato previsto dall’art. 570, secondo comma n. 2, cod. pen. ha come presupposto necessario l’esistenza di un’obbligazione alimentare ai sensi del codice civile, ma non assume carattere meramente sanzionatorio del provvedimento del giudice civile nel senso che l’inosservanza anche parziale di questo importi automaticamente l’insorgere del reato, di tal che, per configurare l’ipotesi delittuosa in esame, occorre che gli aventi diritto all’assegno alimentare versino in stato di bisogno, che l’obbligato ne sia a conoscenza e che lo stesso sia in grado di fornire i mezzi di sussistenza.

Difatti, come questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, ivi compresa la oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore, mentre deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (Sez. 6, n. 159898 del 04/02/2014 – dep. 09/04/2014, S. Rv. 259895).

Di tali principi non ha adeguatamente tenuto conto il Collegio di merito, che ha omesso esplicitare, giusta le specifiche deduzioni difensive, le ragioni obbiettive sulla scorta delle quali abbia ritenuto provato che M. facesse mancare i ‘mezzi di sussistenza’ ai figli, da valutare in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, ai fini del – sia pur contenuto – soddisfacimento del ‘minimo vitale’ e delle altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione).

La motivazione del provvedimento è insoddisfacente anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sul quale si era incentrato uno specifico motivo d’appello.

Ed invero, ribadito che il reato de quo richiede il mero dolo generico e non un dolo specifico, il Giudice di secondo grado avrebbe dovuto indagare, lasciandone circostanziata traccia nella motivazione, se – nel momento in cui provvedeva ad un adempimento solo parziale dell’obbligazione alimentare, sosteneva talune spese dei figli e lasciava a loro ed alla ex coniuge la disponibilità dell’alloggio familiare – M. avesse coscienza e volontà di erogare ai propri figli mezzi di sussistenza insufficienti.

Sono fondate anche le censure che riguardano l’integrazione del reato di ingiuria.

Secondo la contestazione, l’offesa alla persona si sarebbe sostanziata nell’avere M. , nel corso di una conversazione telefonica con la nuova moglie, bollato l’ex coniuge con l’epiteto di ‘stupida’.

Secondo i principi affermati da questa Corte regolatrice, al fine dell’accertamento dell’idoneità dell’espressione utilizzata a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 cod. pen., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata; nel contempo è necessario considerare che l’uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014 – dep. 04/12/2014, F, Rv. 261310).

Sulla scorta dei principi appena esposti, ritiene il Collegio che l’espressione ‘stupida’, rivolta all’indirizzo della persona offesa, in un contesto di conflittualità tra coniugi, non possa ritenersi determinare automaticamente la lesione del bene tutelato dall’art. 594 cod. pen., non concretandosi necessariamente in un giudizio di disvalore sulle qualità personali del destinatario: si tratta invero di termine ormai frequentemente utilizzato nel linguaggio comune, anche dei minori, e che può ritenersi assumere valenza offensiva soltanto allorché sia inserito in un contesto che esprima, senza possibilità di equivoci, disprezzo e disistima verso a vittima. Contesto siffatto che non risulta essere stato adeguatamente rappresentato nel passaggio argomentativo della pronuncia dedicato a tale imputazione, là dove – secondo la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici della cognizione – l’espressione veniva utilizzata dal M. non in una comunicazione diretta con la persona offesa, bensì in una conversazione con una terza persona allorquando la presunta vittima si trovava chiusa nella stanza da bagno, dunque in una situazione nella quale la stessa non ha, ragionevolmente, potuto cogliere appieno il contesto complessivo del discorso nell’ambito del quale l’espressione veniva spesa e di apprezzarne l’effettiva valenza ingiuriosa.

Ad ogni modo, la Corte non ha adeguatamente argomentato la configurabilità del dolo, seppure nella forma eventuale.

Ricorre invero il dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile, sebbene non certa, l’esistenza dei presupposti della condotta, ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare ad essa, accetta che il fatto possa verificarsi, decidendo di agire comunque. Parametri non tenuti in adeguata considerazione dal Giudice d’appello allorché ha ritenuto integrato il dolo quantomeno eventuale nella condotta dell’agente che spendeva l’espressione in ipotesi offensiva, nel corso di una conversazione telefonica intercorsa con altri, nel mentre nell’alloggio ‘non grande’ si trovava la persona attinta dalla parola ingiuriosa, avendo egli accettato il rischio che quest’ultima potesse cogliere l’epiteto offensivo, in quanto evento non ‘improbabile o del tutto inverosimile’. Tale ragionamento, nondimeno, non si confronta con la specifica deduzione difensiva secondo la quale, al momento, la persona offesa si trovava non – genericamente – in un’altra stanza, ma chiusa in bagno a fare la doccia, in una situazione nella quale non può dirsi rispondere ad una comune massima d’esperienza che sia ‘probabile’ o ‘verosimile’ che taluno possa cogliere il senso della conversazione telefonica che altri stia facendo al telefono, sì da poterne percepire i contenuti offensivi.

Sono fondati anche i motivi riguardanti la restante imputazione per il reato di lesioni.

In linea generale, deve essere premesso che, secondo il costante insegnamento di questo Supremo Collegio, l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in se considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Sez. 1, n. 13370 del 05/03/2013 – dep. 21/03/2013, R., Rv. 255268).

Nell’escludere la ravvisabilità nella specie dell’esimente della legittima difesa, anche in via putativa, la Corte ha valorizzato lo squilibrio di forze fra l’imputato e la vittima, il valore affettivo dell’ornamento che la donna intendeva recuperare e la natura della lesione a lei inferta dall’imputato, sostanziatasi in un morso ad una mano, e tuttavia non ha dato conto del contesto complessivo dell’azione nel quale si inseriva la condotta aggressiva ed, in particolare, della condotta in concreto serbata dalla vittima, sì da poter apprezzare la ravvisabilità della invocata scriminante. Ed invero, la circostanza – valorizzata dalla Corte – che la ex – moglie intendesse riappropriarsi di una collana d’oro che M. portava al collo, in quanto avente implicazioni sentimentali, rende ragione del movente del comportamento serbato dalla donna prima di essere colpita, ma non chiarisce quale sia stato in concreto detto comportamento ed, in particolare, se ella – ferma detta finalità dell’agire – abbia o meno posto in essere un’aggressione fisica in danno del M. e, se sì, di quale entità, là dove l’azione di strappare una collana dal collo ha riverberi non solo di natura economica, ma – contrariamente a quanto argomentato dalla Corte territoriale (a pagina 6 della sentenza) – anche sul piano della lesione alla propria incolumità personale, vista la delicatezza della parte interessata e le abrasioni o i tagli da violento sfregamento provocabili nell’operazione di strappo.

Né la causa di giustificazione di cui all’art. 52 cod. pen. può ritenersi correttamente denegata sul presupposto che ‘l’intendimento del M. era semplicemente quello di impedire alla ex-moglie di riappropriarsi della collana e, dunque, di difendere un bene di natura patrimoniale’.

In considerazione dell’ampiezza dell’espressione un ‘diritto proprio’, la difesa legittima può infatti essere ravvisata anche a protezione dei diritti patrimoniali, che possono essere legittimamente difesi anche con atti violenti a condizione che sussista la proporzione e che quel comportamento costituisca l’unico mezzo per impedire l’aggressione al patrimonio e non rappresenti, invece, l’attuazione di una ritorsione (Cass. Sez. 1, n. 45407 del 10/11/2004 -dep. 23/11/2004, Podda Rv. 230392).

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Trieste per nuovo giudizio.

 

P.Q.M.

 

annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Trieste per nuovo giudizio.

 

ANZOLA DELL’EMILIA SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 2. ARGELATO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 3. BARICELLA SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 4. BENTIVOGLIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 5. BOLOGNA SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 6. BORGO TOSSIGNANO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 7. BUDRIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 8. CALDERARA DI RENO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO 9. CAMUGNANO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO10. CASALECCHIO DI RENO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO11. CASALFIUMANESE SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO12. CASTEL D’AIANO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO13. CASTEL DEL RIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO14. CASTEL DI CASIO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO15. CASTEL GUELFO DI B. SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO16. CASTEL MAGGIORE SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO17. CASTEL SAN PIETRO TERME SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO18. CASTELLO D’ARGILE SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO19. CASTENASO SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO20. CASTIGLIONE DEI PEPOLI SEPARAZIONI E DIVORZI AVVOCATO2

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 28 gennaio 2016, n. 3741

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MILO Nicola – Presidente

Dott. TRONCI A. – rel. Consigliere

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere

Dott. SCALIA Laura – Consigliere

Dott. PATERNO’ RADDUSA Benedet – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 4971/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 25/02/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/12/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. TRONCI ANDREA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IACOVIELLO F. M.,

che ha concluso per la declaratoria d’inammissibilita’ del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

  1. Con sentenza in data 25.02.2014, la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza con cui il precedente 17.06.2010 il Tribunale di S. Maria C.V. – sezione di Carinola aveva dichiarato (OMISSIS) colpevole del contestato reato di cui all’articolo 570 c.p. – per essersi sottratto agli obblighi inerenti alla propria qualita’ di coniuge, non versando alla moglie separata, (OMISSIS), la somma destinata al suo mantenimento, inizialmente pari ad euro 361,00 mensili e di poi ridotta, a far tempo dal (OMISSIS), ad euro 160,00 – per l’effetto condannandolo, con le concesse attenuanti generiche ed il beneficio della sospensione condizionale, alla pena di giustizia di mesi due di reclusione ed euro 69,00 di multa, nonche’ al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore della costituita parte civile, cui era assegnata la provvisionale di euro 500,00.

Il giudice distrettuale, premesso che la natura permanente del reato escludeva che potesse dirsi maturata la pur eccepita prescrizione, senza che fosse a cio’ di ostacolo la circostanza che il capo d’accusa indicasse la data del 04.11.2002, essendo specificato come la stessa coincidesse con il mero accertamento dell’illecito de quo, rilevava come la sola doglianza di merito sviluppata nell’interesse dell’imputato, relativa alla sua pretesa incapacita’ patrimoniale, non fosse stata in alcun modo dimostrata dall’interessato – a nulla valendo, ovviamente, la sua mera condizione di coltivatore diretto – tanto piu’ alla luce delle rigorose caratteristiche che devono connotare detta incapacita’, tale da integrare, in conformita’ all’insegnamento del giudice di legittimita’, “una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilita’ di introiti”.

  1. Avverso la menzionata pronuncia il difensore di fiducia del (OMISSIS), avv. (OMISSIS), interponeva tempestivo ricorso, sulla scorta di un unico motivo con cui deduceva “violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b) ed e), per inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione agli articoli 570 e 157 e 158 c.p. e articolo 125 c.p.p. e per mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione”. Tanto in ragione della omessa considerazione, da parte della Corte territoriale:
  2. a) che la permanenza cessa con il compimento dell’azione che pone fine alla condotta antigiuridica, ovvero per sopravvenuta impossibilita’ della prestazione, ovvero ancora per effetto del venir meno dello stato di bisogno dell’alimentando, con conseguente necessita’ di verifica di siffatte circostanze, in senso contrario non potendo ritenersi sufficiente la mera dichiarazione della persona offesa, in sede di esame dibattimentale, relativa al protrarsi ancora nel 2009 dello stato di inadempienza dell’odierno ricorrente, essendo anzi sintomatico che il primo giudice avesse indicato nel 29 luglio 2010 la data di maturazione della prescrizione;
  3. b) che il (OMISSIS), dopo l’iniziale adempimento dell’obbligazione a suo carico, aveva poi cessato di farvi fronte a seguito della sopravvenuta impossibilita’ economica, “ampiamente documentata in atti ed emersa dall’istruttoria dibattimentale”;
  4. c) che il contrario convincimento del giudice di merito era frutto di “una semplice deduzione priva di motivazione adeguata”;
  5. d) che, non potendo ipotizzarsi che la (OMISSIS) fosse in grado di sostentarsi con la modesta somma di euro 161,00 posta a carico del (OMISSIS), doveva logicamente reputarsi che la stessa avesse iniziato a lavorare e si fosse trasferita presso i genitori, avendo cosi’ “paradossalmente dal 2002 … migliorato la sua condizione”.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Nulla quaestio per cio’ che concerne la natura di reato permanente propria della fattispecie per cui e’ processo – sulla quale conviene, del resto, lo stesso ricorrente – essendo solo il caso di precisare che, proprio perche’ tale, la sua consumazione “si protrae unitariamente per tutto il periodo in cui perdura l’omesso adempimento, con la conseguenza che, anche con riferimento alla fase iniziale della condotta illecita, il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione della permanenza, coincidente con il sopraggiunto pagamento o con l’accertamento della responsabilita’ nel giudizio di primo grado” (cosi’ Cass. Sez. 6 , sent. n. 51499 del 4-19.12.2013, Rv. 258504; adde anche Cass. Sez. 6 , sent. n. 33220 del 22-28.07.2015, Rv. 264429).

Del tutto correttamente, pertanto, il giudice distrettuale ha escluso potesse dirsi maturata la prescrizione invocata sub a), avendo ritenuto protratta la condotta illecita dell’agente “quantomeno fino alla data dell’anzidetto esame dibattimentale” della parte lesa, ossia fino al 14.01.2009, a nulla evidentemente valendo, in senso contrario, che il primo giudice avesse indicato nel 29.07.2010 (tenuto conto delle sospensioni intervenute nel corso della celebrazione del dibattimento) l’epoca di maturazione dell’anzidetta causa estintiva, malamente assumendo la data di accertamento del reato, quale risultante dal capo d’imputazione, ai fini della individuazione del dies a quo, da cui iniziare il computo del termine di legge.

Del pari, non riveste alcun fondamento la contestazione del ricorrente circa la pretesa, acritica accettazione della dichiarazione della parte lesa, in ordine al protrarsi dell’inadempimento del marito ed imputato ancora alla data della sua audizione dibattimentale: l’assunto, infatti, non solo e’ totalmente apodittico, di talche’ mai potrebbe integrare alcuna delle denunciate violazioni, ma risulta, a monte, intrinsecamente contraddittorio, stante l’addotta impossibilita’ economica, a giustificazione della condotta tenuta dall’imputato.

  1. Non maggior fondamento riveste la doglianza relativa all’omesso apprezzamento, da parte della Corte territoriale – e, a monte, da parte, del primo giudice – della prova, pur asseritamente fornita, della sopravvenuta impossibilita’ economica del (OMISSIS), onde il contrario convincimento dei giudici di merito sarebbe frutto – come gia’ si e’ avuto modo di rilevare – unicamente di “una semplice deduzione priva di motivazione adeguata” v. sopra, punti b) e c).

Trattasi, ancora una volta, di un’allegazione del tutto generica ed indimostrata, come tale non suscettibile di scalfire in alcun modo – tanto piu’ alla luce dei limiti propri della presente sede di legittimita’ – la corretta affermazione che leggesi nella sentenza impugnata, secondo cui, in ossequio all’insegnamento di questa Corte, l’incapacita’ economica dell’imputato deve essere assoluta, si’ da “integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilita’ di introiti”: il che non risulta esser stato minimamente dimostrato, essendo anzi stata acquisita la prova – debitamente posta in luce nella sentenza di prime cure – che, a seguito dell’azione esecutiva intrapresa dalla succitata (OMISSIS), il (OMISSIS) consegno’ in contanti all’ufficiale giudiziario la somma di euro 1.000,00, a riprova della sicura gratuita’ del comportamento tenuto dall’imputato, sostanziatosi nell’assoluta cessazione della corresponsione di ogni supporto economico in favore della moglie separata.

Inconsistente, infine, e’ il rilievo critico di cui al precedente punto d), atteso che il pur ipotetico miglioramento delle condizioni di vita della (OMISSIS), grazie all’ausilio dei genitori, non incide in alcun modo sulla persistenza, in capo al prevenuto, dell’obbligo, la cui violazione integra la fattispecie prevista e punita dall’articolo 570 c.p., (cfr., in senso conforme, fra le tante, Cass. Sez. 6 , sent. n. 46060 del 22.10.2014, Rv. 260823 e n. 40823 del 21.03.2012, Rv. 254168). Per altro verso, poi, del tutto generico e’ il riferimento all’esercizio di attivita’ lavorativa da parte dell’avente diritto, che lo stesso ricorso prospetta in termini meramente ipotetici (“Certamente la (OMISSIS) dal 2002 in poi ha dovuto procurarsi i mezzi di sostentamento, ha iniziato a lavorare …”).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

qSuprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza  22 aprile 2016, n. 8149

Fatto e diritto

Rilevato che:

  1. Il Tribunale di Perugia, con sentenza n. 760/12, ha dichiarato la separazione personale dei coniugi P.E. e Z.D. rigettando le altre domande proposte dalle parti (addebito della separazione e assegno di mantenimento) e compensando le spese processuali.
  2. La Corte di appello di Perugia, pronunciando sull’appello del P. che ha insistito nella richiesta di addebito della separazione e nel riconoscimento del suo diritto a un assegno di mantenimento, ha confermato la decisione di primo grado, con sentenza n. 421/13, nella quale ha ribadito l’assenza di prove idonee a far ritenere fondate le sue domande.
  3. Ricorre per cassazione P.E. affidandosi a tre motivi di impugnazione, configurati in aderenza ai precedenti motivi di appello e alle richieste istruttorie, come richiesta di accertamento della responsabilità della separazione a carico della Z. nonché delle condizioni di sproporzione reddituale e patrimoniale idonee a giustificare la sua richiesta di assegno di mantenimento.
  4. Si difende con controricorso Z.D. .
  5. Le parti depositano memorie difensive. Ritenuto che:
  6. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 143, 2697, 2727, 2729, 2730 e 2732, 2735 c.c. e degli artt. 112, 116, 184, 132 n. 4, 342, 345 c.p.c. in relazione agli artt. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. Il ricorrente contesta l’affermazione della Corte di appello secondo cui i documenti sui quali il ricorrente fonda l’asserito raggiungimento della prova sulla domanda di addebito oltre che tardivamente prodotti sarebbero anche irrilevanti.
  7. Il motivo è infondato. Il ricorrente non ha dotato il ricorso delle allegazioni necessarie a dimostrare la tempestività della produzione né ha portato argomenti per poter ritenere che la valutazione della documentazione sia censurabile sotto il profilo della violazione di legge. Appare del tutto impropria l’attribuzione di un valore confessorio alle lettere di cui il ricorrente ha trascritto nel ricorso solo alcuni frammenti. Si tratta di affermazioni della Z. contenute in lettere, di cui una risalente a un periodo remoto rispetto alla separazione, e che anche se estrapolate dal loro contesto non sono di certo idonee a integrare il valore di una confessione rispetto a una valutazione strettamente riservata al giudice di merito come l’addebito della separazione. Sotto il profilo fattuale esse, per come le hanno valutate i giudici di merito, non attestano alcun fatto violativo di doveri coniugali trattandosi di autocritiche (essere stati sgarbati o aver avuto un comportamento sbagliato) compiute in un contesto riservato e con riferimento a una relazione quale quella matrimoniale in cui abitualmente il comportamento dei coniugi esprime luci ed ombre. Né essersi assunti la responsabilità della separazione può significare aver riconosciuto un comportamento violativo dei doveri coniugali tale da aver reso intollerabile la prosecuzione della relazione coniugale stessa. Piuttosto dovrebbe attribuirsi a tale espressione il diverso significato di assunzione della scelta di interrompere il legame coniugale il che equivale all’esercizio di una libertà fondamentale quale quella di autodeterminarsi nella conduzione della propria vita familiare e personale.
  8. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 147 e 148, 2697, 2727, 2729 c.c., degli artt. 112, 116, 132 n. 4, 342, 345 c.p.c. in relazione agli artt. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. il ricorrente contesta la valutazione della Corte di appello circa la consistenza patrimoniale e la capacità reddituale delle parti che lo ha costretto a una riduzione drastica del suo tenore di vita. Si tratta di una impugnazione inammissibile perché non in grado di chiarire le ragioni delle dedotte violazioni di legge. Sotto il profilo dell’omesso esame di fatti rilevanti il ricorrente non indica chiaramente quali fatti decisivi avrebbe ignorato la Corte di appello mentre tutte le censure già proposte con l’appello risultano prese in esame dalla Corte distrettuale perugina che ha rilevato come effettivamente la Z. sia proprietaria di una tenuta agricola con villa che ha donato al figlio ma dove ancora risiede in forza di un contratto di affitto con canone simbolico; che l’attività agrituristica è cessata nel 2009; che il reddito dichiarato della Z. è modestissimo (1.106 Euro annui); che il ricorrente è medico specialista e non è chiaro se la sua attività professionale sia stata definitivamente chiusa; che in ogni caso egli non dichiara alcun reddito e percepisce una pensione mensile di 500 Euro; ha la proprietà di alcuni immobili in Perugia e Gualdo Tadino che in parte ha venduto ricavando dalle vendite capitali di una certa consistenza; vive in una casa di proprietà. Su tali presupposti la Corte di appello ha ritenuto non provato uno squilibrio economico e patrimoniale tale da giustificare l’imposizione alla Z. di un assegno di mantenimento. Si tratta di una valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità se non ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 n. 5, riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, che introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. civ. S.U. n. 8053 del 7 aprile 2014). Il motivo di ricorso non risulta rispondere a questi requisiti e la lettura della motivazione evidenzia come le circostanze prese in esame dalla Corte di appello siano le stesse su cui si incentrano le difese del ricorrente mentre la valutazione compiuta dai giudici di merito risponde a quei requisiti di minimo costituzionale della motivazione che la stessa sentenza citata ha posto come limite invalicabile della ammissibilità dell’impugnazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., affermando che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
  9. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., degli artt. 24 e 111 Costituzione, degli artt. 112, 116, 132 n. 4, 342, 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. Il ricorrente lamenta la mancata ammissione della prova per testi il cui articolato riproduce nel ricorso.
  10. Anche in questo caso la Corte di appello ha preso in esame le deduzioni istruttorie dell’odierno ricorrente e le ha valutate non indispensabili ai fini della decisione, vertendo su circostanze ininfluenti o comunque su elementi inidonei per la dimostrazione dell’addebitabilità della separazione o, altrimenti, della posizione reddituale delle parti, e ha ritenuto del tutto sufficiente la documentazione acquisita agli atti. Il motivo si presenta pertanto come una richiesta di riesame della rilevanza della prova per testi; giudizio precluso in questa sede se non al fine di un controllo della motivazione nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 c.p.c. cui si è fatto ampio cenno. Tale controllo esclude nella specie che la Corte di appello abbia reso una motivazione apparente se si rileva che la maggior parte delle circostanze di cui ai capitoli di prova sono pacifiche o palesemente irrilevanti come i fatti successivi alla separazione ai fini della domanda di addebito o quelli relativi all’effettuazione di lavori a spese del ricorrente che non costituiscono l’oggetto del giudizio ovvero come l’acquisto di un aereo da turismo da parte del figlio dei litiganti. Mentre la circostanza della perdita del lavoro per effetto del trasferimento dalla Svizzera non ha evidentemente convinto la Corte di appello alla luce della documentazione (inserzione sulle pagine bianche e gialle degli anni 2011 e 2012 dell’attività di medico specializzato in nefrologia e dietologia) anche sotto il profilo della dimostrazione di una perdita assoluta della capacità lavorativa e reddituale per un così lungo periodo di tempo.

  11. Il ricorso va pertanto respinto con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 2.100, di cui 100 per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, dello stesso articolo 13.

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