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Quale risarcimento spetta agli eredi in caso di incidente mortale?

Quale risarcimento spetta agli eredi in caso di incidente mortale?

Quale risarcimento spetta agli eredi in caso di incidente mortale?

In caso di morte dell’infortunato conseguente alle lesioni riportate in un incidente stradale, il diritto al risarcimento del danno biologico è trasmissibile “iure hereditatis” ai superstiti. Ciò in quanto il danno biologico, nell’ipotesi di fatto lesivo mortale si configura come diminuzione dell’aspettativa di durata della vita del soggetto leso sicchè, per effetto dell’evento morte, la lesione del suddetto diritto si monetizza convertendosi in pretesa pecuniaria facente parte del patrimonio della vittima e suscettibile di trasmissione agli eredi a prescindere, quindi, dalla circostanza che la morte sia conseguita istantaneamente all’azione illecita ovvero integri un effetto ritardato di essa.

In caso di incidente stradale mortale bisogna distinguere tra danni che maturano nella sfera della vittima (iure proprio), successivamente trasmissibili agli eredi e danno propri dei congiunti per lesione di diritti riferibili direttamente a questi ultimi. Si distingue tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale. Tra i primi rientrano le perdite nella sfera patrimoniale del soggetto nelle voci del danno emergente (perdite effettivamente subite) e del lucro cessante (mancato guadagno). Nella seconda, nel danno non patrimoniale le poste risarcitorie attengono ai beni non patrimoniali del soggetto, alla lesione dei valori fondamentali tutelati dalla Costituzione o da altre norme dell’ordinamento.

Quali sono i danni patrimoniali risarcibili agli eredi in caso di incidente stradale mortale?

I danni patrimoniali in caso di incidente stradale mortale sono quelli di cui all’art. 1223 c.c.  comprensivi sia della perdita subita dal danneggiato, danno emergente, sia del mancato guadagno ossia del lucro cessante. Condizione necessaria per la liquidazione di tale danno l’esistenza di una causalità diretta e immediata rispetto al sinistro. La disposizione civilistica, infatti, rende risarcibile il danno patrimoniale solo se la perdita consegue in modo diretto e lineare al danno.

Nei confronti degli eredi è liquidabile il danno biologico per morte del congiunto da incidente stradale?

Il risarcimento del danno biologico può essere chiesto e ottenuto sotto un duplice profilo:

  1. iure hereditatis: in questo caso si fa valere il diritto al risarcimento del danno biologico che è entrato nel patrimonio del defunto. La configurabilità dà luogo a un contrasto in quanto per alcuni è un diritto personalissimo non trasmissibile mortis causa e per altra e diversa impostazione viene a crearsi un diritto di credito trasmissibile iure hereditatis. Non mancano coloro che affermano, nel caso in esame, la debenza del risarcimento solo e se la vittima resta in vita per un lasso di tempo tale da permettere l’acquisizione del diritto nel suo patrimonio successivamente oggetto di successione.
  2. Il danno biologico è configurabile anche iure proprio quale compromissione della salute a causa della morte del parente. Anche in questo caso sono due le tesi in gioco tra coloro che affermano l’inconfigurabilità della colpa del danneggiante in quanto danno non prevedibile e la sentenza della Corte Costituzionale che rende risarcibile il danno biologico ai congiunti se il turbamento psichico non si esaurisce nella pecunia doloris, ma degenera in malattia psichica con referente normativo nell’art. 2059 c.c.

In caso di lesioni i congiunti possono ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale?

Sì, si fa valere lo sconvolgimento del tenore di vita a seguito delle lesioni riportate dal congiunto dopo l’incidente stradale.

Quale rapporto devono avere i congiunti con la vittima dell’incidente stradale per ottenere il risarcimento?

Premesso che anche i parenti sono danneggiati in via immediata e diretta dall’illecito, per non allargare a dismisura l’area del risarcimento, in un primo momento, si è detto che era necessario un rapporto qualificato con la vittima che di solito coincideva con la natura familiare dello stesso oppure con la convivenza. Questa ricostruzione è stata superata con riferimento al danno esistenziale il cui riconoscimento apre alla tutela di ogni valore relativo alla persona e garantito dalla Costituzione. La vittima secondaria, il congiunto, tale non è né si tratta di danno cd da rimbalzo perché si vanno a proteggere posizioni soggettive fondamentali.

All’interno del danno non patrimoniale è compreso anche quello tanatologico ossia da morte?

No, il nostro ordinamento non riconosce la risarcibilità del danno tanatologico ossia da morte proprio in quanto con la perdita della vita viene meno anche il titolare del diritto. Diversamente per il danno catastrofale (sofferenza psichica dovuta alla consapevolezza della morte imminente) e per quello terminale (pregiudizio alla salute a fronte dell’evento letale) unanimemente considerati risarcibili.

È risarcibile il danno da perdita del rapporto familiare?

Sicuramente sì. Gli eredi possono ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto familiare che è annoverabile tra i danni iure proprio in quanto nasce direttamente nella loro sfera giuridica soggettiva tutelando un diritto proprio dei congiunti che è quello al corretto godimento della loro sfera familiare.

In caso di morte del creditore a seguito di incidente stradale il danneggiante deve risarcire il debitore?

In un primo momento dottrina e giurisprudenza riferivano la responsabilità extracontrattuale esclusivamente alla lesione dei diritti assoluti e non anche in ipotesi di danno ai diritti relativi come quelli di credito. In tale ottica se il debitore decedeva a seguito di incidente stradale alcuna tutela spettava al creditore né iure proprio né iure hereditatis. Emblematico, in tal senso, la decisione in merito alla sciagura di Superga con a bordo l’intera squadra del Grande Torino. La limitazione della responsabilità da fatto illecito era giustificata con l’esigenza di circoscrivere le pretese risarcitorie. Solo il debitore, infatti, poteva violare il diritto di credito. Il danneggiamento da parti di terzi non era considerato antigiuridico perché privo di tutela esterna in assenza di un obbligo di non ledere gravante sui terzi. Ancora ad essere negata era la sussistenza del nesso causale. Si riteneva che il diritto leso direttamente era quello primario alla vita e all’integrità fisica. Il diritto del creditore era danneggiato solo indirettamente. Dal noto caso Meroni la giurisprudenza muta il suo orientamento ritenendo risarcibile anche il creditore in caso di morte del debitore cagionata da fatto illecito del terzo come nel caso di incidente mortale. In tal senso si è osservato che i terzi non sono liberi di turbare il rapporto obbligatorio altrui né sono consentite violazioni indebite di situazioni soggettive protette dal diritto. Ad essere valorizzato il lato esterno del rapporto per cui è vero che i terzi non sono tenuti a cooperare, ma comunque devono rispettare le obbligazioni altrui. Il principio di relatività degli effetti del contratto, infatti, significa che il negozio non può produrre effetti a favore/ sfavore di terzi e non che gli stessi possono agire senza conseguenze interferendo illecitamente nel rapporto altrui. Né l’art. 2043 c.c. distingue tra rapporti assoluti e relativi relativamente ai quali è comunque configurabile un danno ingiusto. Anche al creditore, dunque, spetta il risarcimento per uccisione del debitore.

Conclusioni.

In caso di incidente stradale mortale diversi sono i danni che possono maturare nella sfera dei congiunti. Si distingue tra quelli patrimoniali che hanno ad oggetto la sfera reddituale del soggetto e quello non patrimoniali riguardanti la lesione di diritti fondamentali e garantiti dalla costituzione. Successivamente la differenza è tra danni iure proprio che nascono e maturano nella sfera giuridica soggettiva, tra cui, ad esempio, il danno da lesione del rapporto parentale o quello biologico iure proprio, e danni iure hereditatis che sorgono in capo al defunto e successivamente si trasmettono per successione.

Corte d’Appello Roma, 02/06/1994

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In caso di morte dell’infortunato conseguente alle lesioni riportate in un incidente stradale, il diritto al risarcimento del danno biologico è trasmissibile “iure hereditatis” ai superstiti. Ciò in quanto il danno biologico, nell’ipotesi di fatto lesivo mortale si configura come diminuzione dell’aspettativa di durata della vita del soggetto leso sicchè, per effetto dell’evento morte, la lesione del suddetto diritto si monetizza convertendosi in pretesa pecuniaria facente parte del patrimonio della vittima e suscettibile di trasmissione agli eredi a prescindere, quindi, dalla circostanza che la morte sia conseguita istantaneamente all’azione illecita ovvero integri un effetto ritardato di essa.

Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 22/11/2017) 31/01/2018, n. 2351

Intestazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. AMBROSI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29166/2014 proposto da:

P.M., P.H. entrambi in proprio quali uniche successori del congiunto P.J. marito di M. e padre di H. e della defunta PL.ME. deceduta, elettivamente domiciliati in ROMA, V.F. DE SANCTIS 15, presso lo studio dell’avvocato PIER PAOLO POLESE, rappresentati e difesi dall’avvocato CARLO ZAULI giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, in persona del suo procuratore speciale Dott. G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. BISSOLATI 76, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO SPINELLI GIORDANO, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 1672/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 11/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/11/2017 dal Consigliere Dott. IRENE AMBROSI.

Svolgimento del processo

P.M. e P.J. e P.H., in proprio e quali eredi di Pl.Me. (rispettivamente, madre, padre e sorella) convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ravenna, F.E., M.S. e la compagnia assicuratrice SAI, chiedendo il risarcimento dei danni patiti per la morte della loro congiunta in conseguenza di un incidente stradale cagionato dalla F. la quale, alla guida della autovettura di proprietà di M., aveva investito la giovane mentre ella camminava in senso opposto all’auto tenendosi sul lato destro della carreggiata.

Il giudice di primo grado respinse la domanda con sentenza n. 1084 del 2003.

La corte di appello di Bologna con sentenza n. 1586 del 2008, in accoglimento del gravame proposto da P.M. ed H. anche nella qualità di eredi di P.J., ritenne provata nell’an la responsabilità esclusiva di F.E., conducente dell’autovettura, limitando nel quantum il risarcimento.

Questa corte con sentenza n. 12273 del 2011 cassò con rinvio quest’ultima sentenza.

La corte di appello di Bologna, con sentenza n. 1672 del 2014, pronunciando nel giudizio di rinvio promosso in riassunzione da P.M. e P.H., in proprio e quali eredi di P.J., ferme restando le statuizioni di cui alla precedente sentenza e per quanto ancora rileva, ritenne la sussistenza del danno patrimoniale, derivante a P.M. e P.H., dal decesso di Pl.Me. (rispettivamente figlia e sorella delle ricorrenti) occorso a seguito dell’investimento de quo, osservando che “a seguito della sentenza della Suprema Corte non è più in discussione che in vita la vittima del sinistro, svolgesse attività lavorativa lecita e destinasse alla famiglia una parte dei propri guadagni” e condannò nel seguente ordine:

– F.E., M.S. e la società Fondiaria-Sai s.p.a., in solido tra loro, al pagamento, a favore delle odierne ricorrenti delle somme ulteriori, rispettivamente, di Euro 23.637,26 e di Euro 4.467,35; a favore di entrambe, quali eredi di P.J., della somma ulteriore di Euro 21.123,08, oltre rivalutazione monetaria dal 24 gennaio 1998 alla data di pubblicazione della sentenza e interessi con la medesima decorrenza sull’importo annualmente rivalutato;

F.E., M.S. e la Fondiaria-Sai s.p.a., solidalmente, al rimborso, a favore di P.M. e di P.H., delle spese del giudizio di primo grado liquidate in Euro 13.163,00 (di cui Euro 1.098,00 per esborsi, Euro 3.665,00 per diritti di procuratore, Euro 8.400,00 per onorari di avvocato), in Euro 10.040,48 (di cui Euro 986,48 per esborsi, Euro 2.054,00 per diritti ed Euro 7.000,00 per onorari di avvocato) del giudizio di appello, in Euro 5.400,00 (di cui Euro 348,00 per esborsi ed Euro 5.400,00 per onorari di avvocato) oltre rimborso spese generali, IVA e CPA del giudizio di Cassazione;

F.E., M.S. e la Fondiaria-Sai s.p.a., in via tra loro solidale, al rimborso, a favore delle odierne ricorrenti delle spese del giudizio di rinvio, che ha liquidato in Euro 1.150,00 per esborsi e in Euro 10.000 per compensi professionali, oltre IVA e CPA. Avverso quest’ultima pronuncia P.M. e P.H. in proprio e quali eredi del congiunto P.J., hanno proposto ricorso per cassazione articolato in quarantacinque motivi. Ha resistito con controricorso la Unipol-Sai Assicurazioni S.p.a. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. I primi dieci motivi volti a criticare la sentenza impugnata sotto molteplici profili in punto di erronea quantificazione del dannopatrimoniale, possono essere congiuntamente esaminati per la reciproca e oggettiva connessione tra di essi sussistente.

1.1. Con il primo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 122312262056 c.c., nonchè art. 116 c.p.c., per l’erronea quantificazione dei danni patrimoniali da lucro cessante per la perdita della congiunta quindi e quindi vulnerazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3″) le ricorrenti lamentano la mancata liquidazione da parte della corte di appello delle somme richieste a titolo di danno patrimoniale in violazione delle risultanze istruttorie (la corte di appello avrebbe errato nella quantificazione del quantum dell’apporto economico fornito dalla deceduta ai genitori e alla sorella in quanto: – non avrebbe considerato che la somma dichiarata in Lire dalla madre avrebbe dovuto essere raddoppiata “sono infatti raddoppiati tutti i costi dall’introduzione dell’Euro ad oggi” e determinata in Euro 250,00 mensili e che sarebbe potuta essere inviata per lungo tempo ancora così da giustificare la richiesta complessiva di Euro 60.000,00 in favore della madre, di Euro 30.000,00 in favore del padre e quella di Euro 15.000,00 per la sorella minorenne; – avrebbe, quanto a quest’ultima, erroneamente affermato che “una volta raggiunta la maggiore età avrebbe trovato una propria occupazione lavorativa così da essere in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita” invece di tenere conto del corretto diverso parametro dell’età media per il conseguimento dell’indipendenza economica individuabile verosimilmente nell’età di ventisei anni; – quanto al prematuro decesso del padre della vittima – deceduto dopo solo nove mesi dopo il sinistro mortale della figlia -, erroneamente la corte territoriale avrebbe ritenuto il venir meno dell’esigenza della figlia di contribuire al mantenimento del padre, tento conto che la famiglia di origine dopo il decesso di questi sarebbe stata ancor più bisognosa).

1.2. Con il secondo motivo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione al mancato rilievo della circostanza che la maggiore età non è di per sè parametro dell’indipendenza economica e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento alla posizione della sorella della defunta e cioè P.H.”) le ricorrenti lamentano l’omesso l’esame di un fatto, discusso e decisivo, costituito dalla circostanza che il raggiungimento della maggiore età non è di per se parametro di valutazione dell’indipendenza economica.

1.3. Con il terzo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma di legge in riferimento all’art. 2729 c.c.. in relazione all’erronea presunzione che la maggiore età potesse comportare il raggiungimento dell’indipendenza economica e, quindi, ex art. 360 c.p.c., n. 3″) le ricorrenti contestano l’asserzione “semplicistica” e non conforme al regime probatorio presuntivo utilizzata dalla Corte di appello secondo la quale la P.H., raggiunta la maggiore età, avrebbe trovato lavoro al pari della sorella.

1.4. Con il quarto motivo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione alla circostanza che la morte del padre e la dedotta scarsa redditività della madre non avrebbero fatto che acuire le difficoltà della famiglia e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 5″) le ricorrenti si dolgono, sotto altro profilo, dell’omessa considerazione della circostanza secondo cui, essendo esse rimaste da sole, dopo la prematura scomparsa di P.J. (coniuge di P.M. e padre di P.H.), avrebbero avuto bisogno ancora di più dell’aiuto della loro congiunta. In proposito, osservano che la morte del padre, malato, non avrebbe comportato una diminuzione della contribuzione versata dalla vittima alla famiglia di origine, ma piuttosto un aggravamento dello stato di bisogno della famiglia tenuto conto “delle instabili entrate di un’ infermiera dell’est (madre della vittima n.d.r.) dove gli stipendi sono notoriamente bassi”.

1.5. Con il quinto motivo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione alla circostanza che con la morte del padre il contributo della figlia sarebbe stato comunque versato alla madre e alla sorella per l’intensificazione dei bisogni della famiglia e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 5″) le ricorrenti rilevano l’omesso esame della circostanza che la differenza tra l’importo relativo al solo mantenimento del padre sarebbe stato comunque corrisposto dalla congiunta in favore della famiglia superstite in ragione dell’intensificazione dei bisogni della famiglia a seguito della morte del padre.

1.6. Con il sesto motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma di legge in riferimento all’art. 2729 c.c.. in relazione all’erronea presunzione che la morte del padre comportasse la diminuzione dell’importo del contributo versato da Pl.Me. e, quindi, ex art. 360 c.p.c., n. 3″) le ricorrenti contestano altresì come del tutto erronea e priva di logica l’affermazione della corte di merito secondo la quale dalla data del decesso del padre l’importo del contributo versato dalla congiunta deceduta in favore della famiglia sarebbe diminuito.

1.7. Con i motivi settimo, ottavo, nono (“Nullità della sentenza per violazione di norme processuali ex artt. 113 e 116 c.p.c., in relazione all’erronea valutazione delle prove ín merito al danno patrimoniale risarcibile” a ciascuno dei prossimi congiunti di Pl.Me. “(…) quindi ex art. 360 c.p.c., n. 4″) le ricorrenti contestano che la quantificazione del danno patrimoniale sia stata operata in violazione delle risultanze istruttorie.

1.8. Con il decimo motivo (“Nullità della sentenza per violazione di norme processuali ex artt. 113 e 116 c.p.c., in relazione all’erronea valutazione delle prove in merito alla somma spettante a titolo di danno patrimoniale a seguito e come conseguenza della morte del padre da P.H. e P.M. e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 4″) le ricorrenti contestano la mancata considerazione della circostanza che l’importo mensilmente e complessivamente inviato dalla vittima alla famiglia sarebbe sempre stato il medesimo anche dopo la morte del padre ed il raggiungimento della maggiore età della sorella.

  1. I motivi, per quanto sopra è sembrato potersi in sintesi riassumere, sono tutti inammissibili.

2.1. Le diverse censure mosse con riferimento alle paventate plurime violazioni di legge possono essere subito dichiarate inammissibili, in quanto contenenti una serie di conteggi e di considerazioni in fatto attraverso le quali si pretende che la Corte di legittimità desuma determinate circostanze attinenti al merito della causa ed, in definitiva, pervenga ad una diversa liquidazione del danno patrimoniale. I temi posti sono stati già affrontati dal giudice dell’appello che ha in proposito fornito una logica ed esauriente motivazione sia con riferimento all’apporto monetario inviato in vita dalla vittima alla famiglia in patria così come emerso dalla esperita istruttoria sia con riguardo al raggiungimento della maggiore età della sorella e al decesso del padre.

2.2. Sono altresì inammissibili le censure con le quali si lamentano svariati profili di omesso esame.

In via generale, giova rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – applicabile alle sentenze pubblicate dopo 1’11 settembre 2012 e dunque pacificamente anche alla pronuncia impugnata con il ricorso in esame, depositata l’11 luglio 2014 – il controllo sulla motivazione è dunque possibile, per un verso, solo con riferimento al parametro dell’esistenza e della coerenza e, per l’altro, solo con riferimento all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione e sia decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

Le ricorrenti, sebbene denuncino formalmente l’omesso esame di diversi fatti che avevano costituito oggetto di discussione, tuttavia nella sostanza lamentano l’omesso esame di elementi istruttori da parte del giudice di appello dolendosi, in particolare, della mancata considerazione delle seguenti circostanze: – raggiungimento della maggiore età quale non parametro di valutazione dell’indipendenza economica quanto alla sorella della vittima, – difficoltà della famiglia acuite dalla morte del padre e dalla scarsa redditività della madre della vittima, – continuazione, dopo la morte del padre, del contributo della figlia in considerazione dell’intensificarsi dei bisogni del nucleo familiare, per giungere ad un accertamento del fatto diverso da quello a cui è motivatamente pervenuto il giudice del merito. Una simile rivalutazione di fatti e circostanze, già inammissibile nella vigenza del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, lo è a più forte ragione alla luce della vigente formulazione della norma, specie se si consideri che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. In altri termini, l’omesso esame di elementi istruttori non è di per sè sindacabile in sede di legittimità in quanto non integra, per ciò stesso, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass, Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054,; v. anche Cass., Sez. 6-3, 8/10/2014 n. 21257).

Nel caso in esame, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, la Corte territoriale ha mostrato di aver debitamente esaminato le risultanze probatorie emergenti dall’istruttoria esperita, non incorrendo in alcuna omissione riguardante un fatto che, se analizzato, avrebbe potuto comportare una decisione diversa. In particolare, la Corte di merito ha esaminato la questione relativa al danno patrimoniale subito dai congiunti della vittima motivando del tutto adeguatamente: – quanto alla sorella minorenne (all’epoca quattordicenne), che una volta raggiunta la maggiore età, avrebbe trovato una propria occupazione lavorativa così da essere in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita; – quanto al padre, deceduto nell'(OMISSIS), che da quella data sarebbe venuta meno l’esigenza di contribuire al suo mantenimento; – quanto alla madre, all’epoca impiegata, in Patria, stabilmente come infermiera, che ragionevolmente al raggiungimento della maggiore età della figlia minore avrebbe potuto fare a meno del contributo economico della primogenita. Le ricorrenti, nel dedurre la diversità del giudizio di fatto posto a fondamento della sentenza di merito, continuano piuttosto a dolersi dell’omessa considerazione di elementi istruttori decisivi ad una diversa ricostruzione del fatto secondo la loro prospettazione.

2.3. Manifestamente inammissibili sono le censure con le quali è dedotta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c.. Come sopra meglio illustrato, le ricorrenti insistono nel ritenere erronea la liquidazione del danno patrimoniale in favore di ciascuno dei familiari della vittima ed in relazione alla mancata considerazione che “le somme versate a favore del padre sarebbero state corrisposte a vantaggio della madre e della sorella e, poi, quando questa fosse divenuta autonoma, a favore della sola madre per il resto della vita”. In proposito è sufficiente evidenziare che in realtà non si denuncia alcuna violazione dell’ambito applicativo delle norme invocate, bensì si continua ad esprimere dissenso dalla valutazione delle emergenze istruttorie (dalle quali risultava l’invio da parte della figlia di somme di denaro alla madre e ai parenti) al fine di sollecitare una riliquidazione della voce di danno patrimoniale, ma in tal modo si sollecita sostanzialmente questa Corte ad una rivisitazione delle dette emergenze, del tutto inammissibile. Questa Corte ha già affermato che la violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è possibile soltanto: “a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi)”. Al di fuori da tali casi, la circostanza che il giudice, invece, abbia male esercitato il prudente apprezzamento della prova è censurabile solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Sez. 3, 10 giugno 2016, n. 11892; Sez. L., 19 giugno 2014 n. 13960; Sez. 3, 20 dicembre 2007 n. 26965).

Nel caso in esame, tenuto conto anche della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il lamentato cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove da parte del giudice di merito non è prospettato in conformità nè del n. 4 (per come sopra meglio esposto), nè dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (per come meglio esposto nel punto 2.2 a proposito della riformulazione della disposizione) atteso che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora, come nel caso in esame, il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice.

  1. I motivi dal numero undici al numero ventisette, anch’essi da esaminare congiuntamente per ragioni di connessione, sono volti a criticare la sentenza impugnata sotto molteplici profili in punto di quantificazione del dannonon patrimoniale da lesionedel rapporto parentale.

3.1. In particolare, con l’undicesimo motivo (“Nullità della sentenza per falsa applicazione delle norme di diritto processuali degli artt. 113 e 116 c.p.c. e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 4, in riferimento alla valutazione del più probabile che non della morte del padre a causa del decesso della figlia”) le ricorrenti contestano l’affermazione della corte territoriale secondo la quale il successivo decesso del padre della vittima era da ritenersi avvenuto “per una causa che, in mancanza di riscontri in senso contrario, non può che ritenersi estranea al sinistro” e insistono nel ritenere violato il principio del nesso di causalità materiale ed in particolare il criterio del “più probabile che non” per non aver ritenuto come plausibile che l’aggravarsi delle condizioni di salute e il decesso del padre fossero dovute alla morte della figlia primogenita andata all’estero per aiutare la famiglia.

3.2. Con il dodicesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma di legge in relazione agli artt. 12262043 e 2059 c.c., in riferimento all’erronea diminuzione dell’importo da liquidare all’erronea presunzione che la morte del padre comportasse la diminuzione dell’importo da liquidare a titolo di danno non patrimoniale da perdita definitiva del rapporto parentale in conseguenza della mancata convivenza di Pl.Me., quindi, ex art. 360 c.p.c., n. 3 “) le ricorrenti contestano come del tutto ingiusta la diminuzione dell’importo da liquidare a titolo di danno da perdita definitiva e irreversibile del rapporto parentale (richieste nel giudizio in riassunzione negli importi di Euro: 350.000,00 in favore della madre, 400.000,00 in favore del padre e 130.000,00 in favore della sorella) sia in quanto non avrebbe considerato “la realtà dei fatti per come si svolsero” sia perchè, con motivazione poco comprensibile, da un lato, avrebbe richiamato la forza del rapporto parentale per il fatto che la vittima fosse andata all’estero per aiutare la famiglia e, dall’altro, del tutto contraddittoriamente affermato che proprio per la mancata convivenza il legame parentale si sarebbe affievolito.

3.3. Con il tredicesimo motivo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione alla circostanza che la mancata convivenza era dovuta al fatto che Pl.Me. si era trasferita in Italia per poter lavorare ed inviare così un aiuto alla famiglia e quindi il vincolo particolare, lungi dall’essere affievolito era semmai rafforzato e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 5″) le ricorrenti insistono nel riproporre la censura di cui al precedente motivo sotto il diverso profilo dell’omesso esame. Contestano in particolare che sebbene la Corte Territoriale avesse ammesso espressamente che la vittima fosse legata da un forte vincolo affettivo alla famiglia di origine dalla quale si era allontanata per trovare un lavoro che le consentisse di aiutarla economicamente, anche in considerazione del fatto che il padre era malato, ne avesse tuttavia tratto conseguenze in ordine alla riduzione della liquidazione.

3.4. Con il quattordicesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma di legge in relazione all’art. 2729, per quanto concerne l’erronea presunzione che dalla mancata convivenza derivasse un affievolimento del vincolo parentale e, quindi, ex art. 360 c.p.c., n. 3, a fronte di un quadro probatorio del tutto distinto”) le ricorrenti insistono nel riproporre la censura di cui al precedente motivo sotto il diverso profilo della violazione di legge nell’uso di una presunzione del tutto infondata che renderebbe la motivazione, sul punto, del tutto contraddittoria.

3.5. Con il quindicesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma di legge in relazione agli artt. 12262043 e 2056 e 2059 c.c., per quanto riguarda il danno non patrimoniale da risarcire nei confronti dei familiari e, quindi, ex art. 360 c.p.c., n. 3″) le ricorrenti lamentano che il quantum del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale sia stato equitativamente liquidato in un quarto dell’importo già riconosciuto dalla stessa corte per il ristoro del danno morale c.d. soggettivo, atteso che non sussisterebbero ragioni per tale contenimento tenuto conto che già in sede di rinvio avevano – al fine di assicurare l’integrale risarcimento del danno – rivendicato importi superiori rispetto alle incongrue somme già liquidate dalla corte di appello a titolo di danno morale (Euro 84.633,10 per P.M., 12.911,42 per P.H. ed Euro 82.633,00 per P.J.). Richiamano la giurisprudenza di legittimità in ordine ai criteri di uniformità delle liquidazione del danno alla persona sulla base del parametro tabellare e sottolineano la mancata contestazione da parte della controparte in ordine alla sussistenza del danno esistenziale come lesione del rapporto parentale.

3.6. Con il sedicesimo, diciassettesimo e diciottesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma di legge in relazione agli artt. 12262043 e 2056 e 2059 c.c.”) le ricorrenti lamentano la violazione di legge in ordine al quantum del danno liquidato nei confronti, rispettivamente, della sorella P.H. (Euro 3.227,85), della madre P.M. (Euro 21.158,27) e del padre P.J. (Euro 20.658,27, quest’ultimo importo rivendicato dalle ricorrenti jure hereditatis). In particolare contestano l’erroneità della quantificazione operata dal giudice di merito che non avrebbe operato un integrale e personalizzato risarcimento, mancando di applicare il parametro di ristoro massimo previsto dalle tabelle.

3.7. Con il diciannovesimo motivo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione alla circostanza che il decesso del padre nove mesi dopo quello della figlia renda incontestabile che l’ultimo periodo della sua vita lo ha inevitabilmente trascorso nella sofferenza per la perdita e, quindi, per tale ragione se anche non ritenesse di collegare le tristi vicende per l’accadimento spazio temporale si giustifica la liquidazione nel massimo per la perdita del rapporto parentale e quindi con vulnerazione ex art. 360 c.p.c., n. 5″) le ricorrenti insistono nel ritenere mancato l’uso del criterio “del più probabile del non” già illustrato nel motivo undici sotto il profilo della nullità della sentenza.

3.8. Con il ventesimo motivo (“Nullità della sentenza per violazione di norme di procedura ex artt. 113 e 116 c.p.c., in relazione alla valutazione imprudente delle prove in merito al danno non patrimoniale e da perdita parentale subito da P.J. e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 4″) le ricorrenti contestano altresì la quantificazione del danno non patrimoniale liquidato in favore del padre della vittima perchè operata in violazione delle risultanze istruttorie e perchè secondo le ricorrenti la corte territoriale si sarebbe limitata ad una liquidazione apparente, solo perchè obbligata dalla pronuncia della cassazione.

3.9. Con il ventunesimo motivo (“Violazione e/o falsa interpretazione di norma di legge e cioè dell’art. 3 Cost., dell’art. 185 c.p., degli artt. 12262043 e 2056 e 2059 c.c.”) le ricorrenti lamentano che la quantificazione del danno non patrimoniale sia avvenuta senza indicazione dei parametri tabellari utilizzati, con valutazione non più equitativa, ma effettuata ad libitum, senza possibilità che la decisione fosse prevedibile e controllabile.

3.10. Con il ventiduesimo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti”) con il ventitresimo motivo (“Nullità della sentenza per omessa pronuncia e violazione dell’art. 112 c.p.c., che è norma inerente allo svolgimento del giusto processo ex art. 111 Cost., in merito all’applicazione delle tabelle di Milano richieste in sede di rinvio e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 4″) e con il ventiquattresimo motivo (“Violazione e/o falsa interpretazione di norma di legge in riferimento all’art. 1223 c.c., nonchè all’art. 2059 c.c.”) le ricorrenti insistono nel censurare la motivazione sul quantum debeatur sotto il profilo dell’omessa pronuncia sulla richiesta di applicazione delle tabelle di Milano, non avendo indicato il giudice del merito i criteri, tabellari o meno, utilizzati nella quantificazione del danno e, sotto altro profilo, per aver liquidato una somma inferiore ai minimi tabellari e non riconoscendo l’integralità del danno.

3.11. Con il venticinquesimo motivo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti”) e con il ventiseiesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma in ordine agli artt. 122311262056 c.c.”) sotto un duplice profilo le ricorrenti si dolgono della mancata valutazione dell’autonomia della voce del danno morale rispetto a quella del danno esistenziale “all’interno del danno non patrimoniale”.

3.12. Con il ventisettesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione di norma in ordine agli artt. 122311262056 c.c.”) le ricorrenti contestano il mancato riconoscimento del danno non patrimoniale nella sua integralità effettiva.

  1. I motivi in sintesi riassunti, sono anch’essi tutti inammissibili.

4.1. Le paventate plurime violazioni di legge sulla quantificazione del danno non patrimoniale vanno dichiarate inammissibili in quanto, pur movendo formalmente violazioni di norme di diritto, le ricorrenti continuano a censurare il mancato accertamento dei fatti che avrebbe consentito secondo la loro prospettazione – una liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale più favorevole. In altri termini, pur denunciando formalmente vizi di violazione di legge, propongono nella sostanza un’inammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie al fine di ritenere dovute le somme richieste in riassunzione a titolo di danno subito da perdita del rapporto parentale. Essa attiene dunque a profili di fatto e tende inammissibilmente ad invocare, dinanzi alla Corte di legittimità, una rivalutazione del merito della causa in contrapposizione a quella formulata dalla Corte territoriale, la quale, con valutazione insindacabile perchè riservata al giudice di merito, ha motivatamente ed in modo adeguato provveduto alla determinazione dell’importo da liquidare. I temi posti (e sovrapposti) dalle ricorrenti sono stati già affrontati dal giudice dell’appello che ha in proposito fornito una logica ed esauriente motivazione in ordine al quantum debeatur sia in relazione alla circostanza del decesso del padre della vittima, sia in relazione alla circostanza che la mancata convivenza lungi da determinare un affievolimento dello strettissimo vincolo parentale avesse però incidenza nella quantificazione del danno, da stabilirsi in via equitativa nella misura di un quarto dell’importo già riconosciuto dalla precedente statuizione della Corte territoriale e liquidato per il danno morale, importo non toccato in alcun modo dalla pronuncia cassatoria da cui ha avuto origine il giudizio di rinvio oggi in esame (Cass. Sez. 3 n. 12273/2011). Pure inammissibili, proprio in ragione di quest’ultimo profilo, sono le doglianze formulate in relazione alla asserita mancata indicazione dei parametri tabellari utilizzati, motivo già ritenuto “palesemente infondato” da questa Corte con la citata pronuncia.

4.2. Manifestamente inammissibili sono le censure con le quali è dedotta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c., in riferimento alla mancata valutazione del criterio del “più probabile che non” sulla valutazione del nesso tra la morte del padre ed il decesso della figlia nonchè alla imprudente valutazione delle prove in merito alla quantificazione del danno subito dallo stesso padre. Come già rammentato al punto 2.3, questa Corte ha già delineato l’ambito entro il quale può farsi valere il vizio connesso al mancato esercizio del potere di apprezzamento del giudice e, nel caso in esame, per le stesse ragioni sopra evidenziate, le doglianze formulate non si inquadrano nè nel paradigma del n. 5, nè in quello del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., comma 1.

4.3. Sono altresì inammissibili le censure con le quali si lamentano svariati profili di omesso esame. Come già sopra meglio rilevato, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Le stesse Sezioni Unite hanno soggiunto che tale riformulazione va interpretata alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione e sia decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054,; v. anche Cass., Sez. 6-3, 8/10/2014 n. 21257).

Le ricorrenti, insistono nel lamentare formalmente l’omesso esame di diversi fatti che avevano costituito oggetto di discussione, mentre nella sostanza lamentano l’omesso esame di elementi istruttori da parte del giudice di appello dolendosi, in particolare, della mancata considerazione delle seguenti circostanze: – la mancata convivenza della vittima fosse dovuta al trasferimento della stessa in Italia per poter lavorare e inviare un aiuto alla famiglia; – liquidazione del danno parentale in rapporto a quello morale; – mancato riconoscimento del danno non patrimoniale nella sua integralità effettiva, per giungere ad un accertamento del fatto diverso da quello a cui è motivatamente pervenuto il giudice del merito. Una simile rivalutazione di fatti e circostanze, è del tutto inammissibile, specie se si consideri che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito, a maggior ragione se il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Nella specie, la Corte di merito ha esaminato adeguatamente le risultanze probatorie emergenti dall’istruttoria esperita, non incorrendo in alcuna omissione riguardante un fatto che, se analizzato, avrebbe potuto comportare una decisione diversa. In particolare, la Corte di merito ha mostrato di fare applicazione del principio già più volte affermato da questa Corte per cui il danno da perdita del rapporto parentale deve essere risarcito mediante il ricorso a criteri di valutazione equitativa, rimessi alla prudente discrezionalità del giudice di merito, esplicitando le regole di equità applicate (artt. 1226 e 2056 c.c.) e, nello specifico, tenendo conto dell’irreparabilità della perdita della comunione di vita e di affetti e della integrità della famiglia subita dai prossimi congiunti della vittima, ed operando un’attenta considerazione di tutte le circostanze idonee a lumeggiare la pregnanza, in concreto, dell’entità della lesione subita dai superstiti (cfr. tra tante: Sez. 3, 09/05/2011 n. 10107). Ciò è avvenuto nel caso in esame nel rispetto dell’orientamento richiamato. In particolare, il giudice di rinvio nell’esercizio del proprio potere discrezionale ha individuato un ragionevole criterio al fine di pervenire ad un equo ristoro, ancorando la liquidazione “in un quarto” del quantum già liquidato dalla stessa Corte territoriale per il danno morale subiettivo, mostrando di aver compiuto un’adeguata personalizzazione in considerazione dell’età della vittima, dell’attività da essa svolta e delle sue condizioni personali e familiari.

  1. I motivi dal ventottesimo al quarantunesimo, da esaminare congiuntamente per ragioni di reciproca connessione, sono volti a criticare la sentenza impugnata sotto molteplici profili in punto di liquidazione delle spese e con essi le ricorrenti censurano lo stesso capo di motivazione della sentenza impugnata – riportandolo integralmente – per quattordici volte di seguito, reiterando ed incrociando le censure così come di seguito si riassume sommariamente.

5.1. Nello specifico, con i motivi ventottesimo, ventinovesimo e trentesimo (“Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti”) le ricorrenti contestano, la mancata valutazione – ai fini della liquidazione delle spese legali – della posizione differenziata dalle stesse spiegata nel giudizio jure proprio e jure hereditario sia come coeredi della Pl.Me. (figlia e sorella vittima del sinistro de quo) sia come coeredi di P.J. (coniuge e padre deceduto nelle more del giudizio).

5.2. Con i motivi dal trentunesimo al trentaquattresimo e con quelli trentasettesimo, trentanovesimo e quarantunesimo (“Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione al D.M. Giustizia n. 127 del 2004art. 5“) le ricorrenti lamentano (con riferimento alla loro posizione di ricorrenti sia in proprio sia quali coeredi di Pl.Me. e di P.J.): l’erronea liquidazione delle spese legali nei quattro gradi di giudizio, nonchè la difformità degli importi rispetto a quelli richiesti e contenuti nelle note depositate nel corso del giudizio, pur in assenza di contestazione dei medesimi importi riferiti ai tre gradi di giudizio, – la mancata considerazione della complessità della causa “visto che per alcune poste quali i danni patrimoniali, per avere una pronuncia di accoglimento si è dovuto pervenire alla cassazione della decisione” ed infine, – l’erronea individuazione dello scaglione di riferimento e l’erronea quantificazione delle spese in relazione alla opportunità di consentire la doppia nota, data “l’esistenza di due parti con tre posizioni differenti”.

5.3. Con il trentacinquesimo motivo le ricorrenti insistono, sotto il profilo dell’omesso esame, in relazione alla stessa circostanza già denunciata nel punto che precede secondo la quale le note depositate nei tre gradi non erano state tempestivamente contestate da controparte.

5.4. Con il trentaseiesimo motivo (“Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.”) le ricorrenti reiterano le doglianze già formulate in relazione alla mancata contestazione delle note spese, alla mancata duplicazione delle posizioni a seconda delle differenti posizioni e alla erronea individuazione dello scaglione.

5.5. Con il trentottesimo motivo le ricorrenti insistono in relazione alla stessa circostanza indicata nel motivo trentasettesimo (“mancata valutazione della complessità della causa”) sotto il diverso profilo dell’omesso esame.

5.6. Con il quarantesimo motivo le ricorrenti lamentano che il giudice di merito abbia omesso l’esame del fatto secondo cui il valore liquidato della causa fosse superiore a quello individuato per la liquidazione delle spese legali.

  1. I motivi sopra sinteticamente riassunti sono inammissibili con riferimento ai profili di omesso esame e infondati con riferimento alle violazioni di legge.

6.1. Questa Corte ha già più volte affermato che la determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, se contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità se non quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate (Sez. 2, 03/04/1999 n. 3267; Sez. 2, 22 giugno 2004, n. 11583, Sez. 3, 24 ottobre 2007, n. 22347, Sez. 1 2015 20289).

Nel caso in esame, le ricorrenti non denunciano la violazione dei minimi tariffari, ma lamentano l’omesso esame delle loro posizioni processuali che non sarebbero state adeguatamente e autonomamente valutate nei quattro gradi di giudizio; censurano in particolare la mancata differenziazione delle loro posizioni (quali attrici in proprio e in qualità di eredi) ai fini di una liquidazione delle spese ben diversa in relazione alla complessità della causa. Sennonchè la Corte territoriale ha esplicitamente precisato che gli onorari sono stati determinati in Euro 8.400,00 (quanto al primo grado) cioè in misura superiore al valore medio tariffario (pari a Euro 6.000,00) con la maggiorazione del 40 per cento richiesta dalle medesime parti D.M. n. 127 del 2004, ex art. 5, appunto in considerazione dell’entità delle questioni trattate, dell’attività svolta e del risultato conseguito. Sicchè, con i motivi sopra meglio riassunti, le ricorrenti lamentano in definitiva una liquidazione insufficiente ed inferiore a quella richiesta, deducendo quindi una censura incompatibile con il giudizio di legittimità e come tale inammissibile.

6.2. La stessa doglianza dedotta quale violazione dell’art. 91 c.p.c. e delle relative disposizioni tariffarie (in ordine alla asserita mancata valutazione – ai fini della liquidazione delle spese legali – della posizione differenziata dalle ricorrenti rispetto alle domande spiegate nel giudizio sia in proprio sia in qualità di eredi) risulta del tutto destituita di fondamento. La Corte territoriale, contrariamente a quanto lamentato dalle odierne ricorrenti e come sopra visto, ha tenuto conto adeguatamente della distinta posizione assunta dalle stesse, oltre che di quella del loro congiunto deceduto nelle more del giudizio, tanto da aver operato l’aumento del 40 per cento dell’importo liquidato a titolo di spese, considerando un valore medio di riferimento tenuto conto della natura della causa di risarcimento dei danni da sinistro stradale (investimento di un pedone, risarcimento dei diritti risarcitori degli stretti congiunti) come “non particolarmente complessa”.

6.3. Parimenti infondata è la complessa censura reiterata sotto vari profili in merito alla difformità degli importi delle spese liquidate rispetto a quelli richiesti con le note depositate nel corso del giudizio, pur in assenza di contestazione dei medesimi importi riferiti ai tre gradi di giudizio, nonchè in merito alla mancata considerazione della complessità della causa, alla erronea individuazione dello scaglione di riferimento e alla erronea quantificazione delle spese in relazione alla opportunità di consentire la doppia nota data l’esistenza di due parti con tre posizioni differenti.

Al riguardo, va, in primo luogo, rilevato che la Corte di merito ha espressamente tenuto conto delle note depositate dalle ricorrenti in atti e ha adeguatamente ed esplicitamente indicato lo scaglione di riferimento e l’importo degli esborsi liquidati per ciascuno dei gradi di giudizio; quindi, per un verso, del tutto irrilevante, è la questione della mancata contestazione delle note da parte della odierna controricorrente e, per l’altro – per quanto già sopra detto, inammissibile è la richiesta di mutamento dello scaglione di riferimento, nonchè quella svolta in via subordinata volta ad ottenere la liquidazione del “le anticipazioni, le spese generali, le competenze e gli onorari” secondo le notule allegate dalle ricorrenti per ciascun grado di giudizio, intendendo ancora una volta le ricorrenti sostituire il loro apprezzamento sul valore della controversia a quello adeguatamente esercitato dalla Corte di merito in proposito.

Va, in secondo luogo, evidenziato, come puntualmente dedotto anche da controparte, che non conferente si appalesa il rinvio all’art. 6, comma 1, Tariffa forense ed al principio di diritto indicato dalla pronuncia di questa Corte n. 14999/2010 atteso che esso attiene alla regolamentazione dei rapporti tra il difensore e il proprio cliente ad al valore probatorio attribuito alla parcella del professionista ossia in un ambito affatto diverso da quello in esame. Va, peraltro, rilevato che il giudice di appello ha tenuto conto della natura della controversia per escluderne la rilevanza in termini di particolare importanza, valutazione con la quale ha esercitato il proprio potere discrezionale in tema di liquidazione delle spese, senza “banalizzare” la controversia in oggetto, ma anzi incrementando la liquidazione così come richiesta dalla difesa.

Infine, quanto alla invocata maggiorazione della liquidazione la quale, ad avviso delle ricorrenti avrebbe dovuto essere addirittura superiore al 60 per cento trattandosi di due soggetti che agiscono “con tre posizioni distinte e differenti tra loro”, va sottolineato che la Corte territoriale ha incrementato l’onorario del 20 per cento secondo previsioni tariffarie ravvisando nella fattispecie in esame un caso di assistenza e difesa di più parti aventi “la stessa posizione processuale”, in conformità ai principi più volti espressi da questa Corte in materia (Sez. 3, 14/05/1997 n. 4235).

  1. I motivi dal quarantaduesimo al quarantacinquesimo, in ragione della intima reciproca connessione meritano un esame congiunto, sono volti a criticare la sentenza impugnata sotto molteplici profili in relazione alla voce di dannobiologico e morale da morte spettante alla vittima e rivendicabile juresuccessionis dalle ricorrenti.

7.1. In particolare, con il quarantaduesimo motivo (“Nullità della sentenza per violazione di norme di legge di cui all’art. 112 c.p.c., sulla corrispondenza tra il chiesto e pronunciato in relazione alla pronuncia art. 185 c.p., per quanto concerne il danno biologico e morale da morte spettante a Pl.Me. e rivendicabile jure ereditatis da P.H. e M. e quindi ex art. 360 c.p.c., n. 4″) nonchè con i successivi dal quarantatreesimo al quarantacinquesimo (“Violazione e falsa applicazione degli artt. 23232432101 e 111 Cost., artt. 61 e 61 Costituzione europea e/o artt. 101113116 c.p.c., in riferimento all’interpretazione degli artt. 204320562059 c.c., art. 13 CEDU e dunque dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’interpretazione della norma e nella qualificazione del giudicato esterno”) le ricorrenti lamentano la violazione di legge in ordine ad un punto specificatamente prospettato volto a riconoscere in capo a Pl.Me. il danno da morte indipendentemente dallo stato di coscienza, segnalando in proposito che, nelle more del presente processo, era mutato l’orientamento della S.C. in ordine alla trasmissibilità jure successionis di siffatto danno. Denunciano, in particolare, la violazione di diritti umani o, in subordine, la falsa applicazione di diritti assoluti e costituzionali, enumerando, nell’ordine, le seguenti omissioni di pronuncia: – sulla quantificazione e qualificazione del risarcimento del danno non patrimoniale biologico e morale da morte catastrofale e da agonia trasmesso jure successionis; – sulla mancata quantificazione di un danno non patrimoniale da perdita parentale non simbolico; – sulla violazione conseguente delle norme del giusto processo e quelle poste a salvaguardia del principio di effettività del ricorso “per avere costituito quello di rinvio un giudizio ingiusto e quasi vendicativo della riforma di cui alla sentenza di cassazione con liquidazioni a prezzo vile della sofferenza delle parti”; – sulle questioni prospettate, già accolte dalla giurisprudenza italiana e europea, esponendo i danneggiati ad una ulteriore frustrazione meritevole di essere risarcita in altre sedi, nonchè lo Stato ad un ingiusto danno erariale ed a censure per non aver applicato i principi fondamentali posti dai Trattati internazionali (“processo di Norimberga” e “Trattato di Parigi”).

  1. Le censure così come sopra riassunte sono tutte inammissibili.

8.1. In via preliminare va richiamato l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui il giudizio di rinvio è un giudizio “aperto” quanto all’attività del giudice di merito e “chiuso” quanto all’attività delle parti (Cass. Sez. 3, 10/11/2015 n. 22885); difatti, la Suprema Corte ha affermato, da un lato, che “qualora la sentenza sia stata annullata per difetto di attività del giudice di merito (…) questi è pienamente libero nel riesame della controversia” (Cass. Sez. 3, 19/03/2007 n. 6470) e, dall’altro, che “nel giudizio di rinvio è inibito alle parti prendere conclusioni diverse dalle precedenti o che non siano conseguenti alla cassazione, così come non sono modificabili i termini oggettivi della controversia espressi o impliciti nella sentenza di annullamento, e tale preclusione investe non solo le questioni espressamente dedotte o che avrebbero potuto essere dedotte dalle parti, ma anche le questioni di diritto rilevabili d’ufficio, ove esse tendano a porre nel nulla od a limitare gli effetti intangibili della sentenza di cassazione e l’operatività del principio di diritto, che in essa viene enunciato non in via astratta, ma agli effetti della decisione finale della causa” (tra tante, Cass., Sez. 2, 12 gennaio 2010, n. 327).

Alla luce dei richiamati principi, sono inammissibili sia la doglianza volta a sollecitare una pronuncia in ordine al danno biologico e morale subito dalla vittima per perdita della vita richiesto jure successionis sia quella volta ad ottenere il risarcimento del danno cd. tanatologico; invero, la prima si pone fuori dal chiuso ambito del giudizio di rinvio così come sopra delineato e la seconda costituisce domanda nuova anch’essa del tutto extravagante rispetto allo stesso ambito.

Neppure condivisibile è l’assunto con cui – richiamando una pronuncia di questa Corte in tema di danno da perdita della vita (Cass. Sez. 3 23/01/2014, n. 1361), le ricorrenti insistono nel voler giustificare la proposizione di domande (inammissibili) quale conseguenza del mutamento degli orientamenti di legittimità in materia.

La citata sentenza n. 12273/2011 di questa Corte, nell’accogliere i primi cinque motivi del ricorso proposto dalle odierne ricorrenti avverso la sentenza del 2008 della Corte di appello felsinea, osservò infatti che essa aveva errato nell’escludere la sussistenza del danno “(definito esistenziale in guisa di categoria descrittiva, si come insegnato dalle sezioni unite) nel suo aspetto relazionale, nel suo aspetto cioè della modificazione e dello sconvolgimento delle abitudini di vita dei congiunti della vittima”, nel rigettare i restanti motivi di doglianza, aggiunse, tra l’altro, che “sul danno morale da morte” le ricorrenti riproponevano una questione di diritto quella della risarcibilità del danno da morte – già risolta dalle sezioni unite con la sentenza n. 26972/2008, “dal cui insegnamento, la necessità, cioè, che il paziente sia lucido e non in stato di incoscienza perchè possa realizzarsi il presupposto naturalistico per la configurabilità di un danno morale inteso nella sua nuova ampia accezione – non vi è ragione, allo stato, di discostarsi”.

Ai principi di diritto così enunciati – si è attenuta la decisione ora impugnata, e la pretesa dei ricorrenti, basata su un diverso e successivo orientamento giurisprudenziale, è, come già accennato, inammissibile, giacchè, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 1, l’enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi anche se nel frattempo siano intervenuti mutamenti in seno alla giurisprudenza di legittimità. Ugualmente la Corte di cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunciata dal giudice di merito, deve giudicare muovendo dal medesimo principio di diritto precedentemente enunciato e applicato dal giudice di rinvio, senza possibilità di modificarlo neppure sulla base di un nuovo orientamento della stessa Corte (in tal senso: Cass., Sez. 3 16/11/1999 n. 12701Cass. Sez. 3, 31/07/2006, n. 17442; Cass. Sez. 6-1, 15/11/2017 n. 27155), salvo che – ma tale profilo non viene nella specie in considerazione – la norma da applicare in relazione al già enunciato principio di diritto risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di jus superveniens, comprensivo sia dell’emanazione di una norma di interpretazione autentica sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale (Cass. Sez. 1, 27/09/2002 n. 14022; vedasi anche, da ultimo, Cass. Sez. 1 – 29/09/2017, n. 22934).

Va chiarito infine, per completezza, che l’orientamento di questa Corte non è mutato in tema di risarcibilità del danno da perdita della vita; difatti le sezioni unite hanno ritenuto che in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. Sez. U, 22/07/2015 n. 15350).

8.2. Parimenti inammissibili sono le pretese violazioni dei principi del giusto processo e di quello di effettività del ricorso paventate in ambito sia costituzionale sia eurounitario atteso che -contrariamente a quanto ex adverso formalmente sostenuto – esse, per un verso, si risolvono in doglianze ancora una volta formulate sul quantum liquidato dal giudice di rinvio e come tali inammissibili e, per l’altro, si limitano a reiterare genericamente censure già sollevate sotto altre vesti, non scalfendo in alcun modo l’adeguata e conforme motivazione resa dal giudice del rinvio in proposito.

  1. In conclusione il ricorso va integralmente rigettato.
  2. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

Non si deve provvedere sulle spese del giudizio di cassazione in relazione agli altri intimati, atteso che gli stessi non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna le ricorrenti al rimborso delle spese processuali del giudizio di legittimità in favore della controricorrente che si liquidano in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 22 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2018