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PRATO RISARCITI FAMIGLIARI MORTE PER MALASANITA’ TUMORE

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PRATO RISARCITI FAMIGLIARI MORTE PER MALASANITA’ TUMORE

VENIVANO CONVENUTE  IN GIUDIZIO

Tanto premesso, conveniva la Gestione Liquidatoria della ex U. 9 A.P. e la Regione TOSCANA, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., per sentirle condannare in solido al risarcimento del danno non patrimoniale subiti a favore degli attori, nella misura di Euro 1.030.000,00 , in qualità di eredi, e di Euro 325,000, 00 ciascuno, in proprio, ovvero a quella diversa ritenuta di giustizia oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, con vittoria di spese processuali. In subordine, al risarcimento dei danni per la perdita di chances di sopravvivenza, nella diversa misia diEuro 500.000, iure hereditatis, e di Euro 100.000, 00 ciascuno, iure proprio.

 

Le risultanze della consulenza anatomo-patologica del Dott. L.R. ha permesso di evidenziare come già gli accertamenti bioptici eseguiti nel 1983 e nel 1988 fossero indicativi di melanoma, a fronte, invece, di una diagnosi istopatologica di nevo composito prevalentemente intradermico pigmentato peduncolato nel 1983 e di nevo intradermico a cellule chiare recidivo nel 1988. In realtà, nel 1983, come conferma la re visione istoanatomopatologica del Dott. R., si trattava di una neoplasia melanocitaria ipercellulata, lievemente pigmentata, di aspetto verrucoso, con nodularità superficiali e periferiche e crescita compressiva sull’epidermide con un interessamento del derma per lo spessore di 3 mm ed occasionali figure mitotiche prevalentemente in superficie, con elementi di certezza diagnostica confermati dalla proliferazione melanocitaria che interessa la giunzione dermo-epidermica, riproducendo il tipico aspetto di consunzione dello strato epidermico. Il Dott. R. sottolinea peraltro, pur a fronte di elementi indicativi di neoplasia melanocitaria, in rapporto alla variabile attività mitotica riscontrata, un elevato coefficiente di difficoltà diagnostica. Nel 1988 si trattava di una neoplasia melanocitaria amelanotica ed anche in questo caso il Dott. R. sottolinea trattarsi di un raro istotipo di melanoma in fase di crescita verticale, riscontrabile principalmente nelle forme ricorrenti. Nel 1993 fu formulata la diagnosi corretta di melanoma nodulare con aspetti balloniformi. Si tratta, pertanto, di un ritardo diagnostico rispettivamente di 10 e di 5 anni: dal 16/5/1983 al 10/6/1993 e dall’1/6/1988 al 10/6/1993.

  1. a) condanna

solidalmente le convenute – per le causali e con i limiti specificati in parte motiva-al pagamento delle seguenti somme:

in favore degli attori, nella misura corrispondente alle quote ereditarie di G.A.,

Euro 377.753,00 a titolo di danno biologico riportato da G.A. , in valori attuali, con interessi legali sulla somma devalutata alla data del decesso (14.9.2009) e rivalutata annualmente secondo gli indici ISTAT indicati in motivazione sino alla data di pubblicazione della presente sentenza nonché degli interessi legali sull’importo complessivo dal giorno della pubblicazione della presente sentenza sino all’effettivo pagamento;

  1. b) condanna

solidalmente le convenute – per le causali e con i limiti specificati in parte motiva-al pagamento delle seguenti somme a titolo di danno morale da perdita parentale:

– in favore dei figli, C.F. e C.R.,

della somma di Euro 176.600, per ognuno;

– in favore del coniuge, C.P.,

della somma di Euro 274.587,60;

– in favore del genitore, I.F.B.,

di Euro 169.165,57,

nonché su tutti gli importi , liquidati in valori attuali, degli interessi legali sulla somma devalutata alla data del decesso ( 14.9.2009) e rivalutata annualmente secondo gli indici ISTAT indicati in motivazione sino alla data di pubblicazione della presente sentenza nonché degli interessi legali sull’importo complessivo dal giorno della pubblicazione della presente sentenza sino all’effettivo pagamento;

  1. c) condanna

solidalmente le convenute al pagamento della somma di Euro 12.200,00, a titolo di danno patrimoniale per spese sostenute, con rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat per le famiglie di impiegati operai ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata dalla data del decesso sino alla data di pubblicazione della presente sentenza nonché degli interessi legali sull’importo complessivo dal giorno della pubblicazione della presente sentenza sino all’effettivo pagamento;

  1. d) accoglie,

    bologna avvocati malasanita’

la domanda di garanzia proposta nei confronti della U.S.A. S.p.A., e, per l’effetto, dichiara tale compagnia obbligata a garantire la GESTIONE LIQUIDATORIA ex U. 9- A.P. per le somme sopra indicate, entro i limiti della quota di coassicurazione (49%) e del massimale di polizza e quindi nei limiti della quota del 49% del danno risarcibile e comunque entro l’importo massimo di Euro 75.919,16, pari alla quota del 49% del massimale di Euro 154.937,07 e; dedotta la franchigia di cui alle condizioni di polizza;

  1. e) condanna,

solidalmente le convenute al pagamento, in favore degli attori, delle spese processuali, liquidate in Euro 27.252,00, per compenso professionale (compreso aumento per la difesa di più parti nella misura del 60% ai sensi dell’art. 4, comma 2, D.M. n. 55 del 2014) ed Euro 1729,80 per esborsi e spese di CTP, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali nella misura di legge e di CTU separatamente liquidata.

  1. f) condanna,

la terza chiamata a rimborsare le spese processuali sostenute dalle convenute, , liquidate in complessivi Euro 16.900,00, per compenso professionale, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali nella misura di legge nonché di CTU separatamente liquidata, compensandole per metà

 

Tanto precisato, nel procedere alla concreta quantificazione , ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità delle ricadute della condotta (cfr. Cass., sez. III, n. 11212 del 24/04/2019), spetta al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale sussistenza di uno solo, o di articolare distintamente i profili di danno non patrimoniale in precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto e percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita). In tale quadro è stato comunque sottolineato dalla S.C. il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravita o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di pia lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale. Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (in tema di rapporto tra nonno e nipote: Cass, , n. 21230 del 20/10/2016Cass., Sez.3, Sentenza n. 12146 del 14/06/2016), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita (come, ad es., l’età delle parti del rapporto parentale) che va valutata con prudente apprezzamento (Cass Sez. 3 , Sentenza del 11/11/2019, n 28989). In mancanza di sicuri riferimenti questa valutazione non può che essere equitativa, come prevede l’art. 1226 c.c., e deve adeguatamente differenziare, facendosi applicazione dei criteri elaborati dal Tribunale di ROMA, tenendo conto dell’età della paziente, dello status dei familiari, assumendo come dato di partenza il valore punto base all’attualità pari ad Euro 9806,70,00.Tenuto conto di tutte queste considerazioni, della situazione incontestata di convivenza del coniuge, di non convivenza di entrambi i figli e del genitore, della presenza di altri familiari conviventi, ritiene il Tribunale di riconoscere a titolo di danno morale le seguenti somme:

Per ciascuno dei figli partendo dalla somma di Euro 235.360,80 ( punto base Euro 9806,70 all’attualità, punti 18 per grado di parentela, 2 per età della vittima, 4 per età dei figli), all’attualità, applicando la riduzione per la situazione di non convivenza del 25 %( in considerazione , comunque, della vicinanza e della incontestata intensità di frequentazioni) si perviene all’importo di Euro 176.600, per ognuno

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI PRATO

in persona del giudice istruttore, dott. Michele Sirgiovanni, in funzione di giudice unico, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta a ruolo in data 17/4/2015 con il n. 1364/2015 del Ruolo Generale ed avente per oggetto: risarcimento danni.

promossa da

C.P., C.R., C.F. , I.F.B.,

elettivamente domiciliati presso l’avv. Filippo CALAMANI, che li rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avv. Vito CARPITELLA;

FAX : (…); pec: filippocalamai@pec.avvocati.prato.it

FAX (…); pec: vito.carpitella@firenze.pecavvocati.it

Attori

contro:

GESTIONE LIQUIDATORIA ex U. 9- A.P., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Paolo FEDERIGI e dall’avv. Laura BROGI come da procura in atti.

E

REGIONE TOSCANA, in persona del legale rappresentante p.t.,

elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Andrea QUADRINI, in Prato, via Santa Trinita n 25/A, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio FAZZI e dall’avv Enrico BALDI.

FAX (…);

pec: antonio.fazzi@postcert.toscana.it

Convenute

U.A. S.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Mario PARDUCCI ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, sito in Firenze, Viale Alessandro Volta, 72, giusta mandato in calce alla comparsa di costituzione.

Fax: (…)

Pec: mario.parducci@firenze.pecavvocati.it

Terza Chiamata

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 21 aprile 2015, C.P., C.R., C.F. e I.F.B. esponevano:

– che nel maggio 1983 G.A., figlia di I.F.B., moglie di C.P. e madre di C.R. e F., aveva fatto asportare un piccolo nevo presente sulla gamba sinistra, dietro consiglio del proprio dermatologo, con intervento ambulatoriale eseguito presso l’Ospedale di Pisa;

– che, nell’occasione, il materiale asportato era stato immediatamente consegnato alla Unità operativa di anatomia ed I.P. della U.S.L. – ASSOCIAZIONE I. n 9 -A.P. per eseguire l’esame bioptico, il cui esito diagnostico era stato di “Nevo”;

– che dopo cinque anni circa, nel 1988, nel medesimo punto della coscia sinistra si era formato altro nevo, anche questo asportato presso la medesima U. e sottoposto ad esame bioptico, con identica diagnosi;

– che dopo ulteriori cinque anni, nel giugno 1993, si era riformato altro nevo nel medesimo punto della coscia sinistra e sottoposto al medesimo trattamento ma, questa volta, era stato diagnosticato un “Melanoma”;

– che i reperti istologici vennero quindi inviati prima all’Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori – Divisione di anatomia patologica e citologica di Milano e, poi, al Poliambulatorio S.Pio X, servizio di I. e Citologia Patologica di Milano;

– che i responsi del prof. F.R. e del Dott. C. C. avevano evidenziato trattarsi di melanoma maligno sino dal 1983, qualificando come recidive tutte le successive neoplasie;

– che il 9 luglio 1993 la G.A. era stata sopposta ad intervento di allargamento della sede di exeresi della neoplasia, nell’ambito del quale era stata asportata cute, tessuto sottocutaneo e fascia muscolare;

– che nel periodo successivo la G. era stata costretta a sottoporsi periodicamente ad esami di controllo, come previsto dal protocollo clinico all’epoca vigente;

– che nel luglio del 1999 aveva riscontrato la presenza, sempre nella gamba sinistra, di un linfonodo inguinale ingrossato che le era stato immediatamente asportato tramite intervento chirurgico presso il presidio ospedaliero di Prato, e dagli esami era risultato trattarsi di “metastasi Linfo e Perilinfonodale in 1/16 linfonodi inguinali”;

– che nel luglio del 2009 , accusando dolori in svariate parti del corpo, aveva eseguito una serie di esami strumentali, dai quali era rilevata la presenza di aree di iperattività, compatibili con fenomeni metastatici, nella teca cranica, nelle costole, nella spalla destra, nel femore sinistro, nella tibia sinistra, nel fegato e nella milza;

– che dopo essersi rivolta al Dipartimento di Oncologia Unità Operativa Immunoterapia Oncologica presso l’Azienda O.U.S. ed avere iniziato un trattamento di terapia sistemica, era deceduta il 14 settembre 2009 per melanoma maligno plurimetastatico;

– che vane erano state le richieste dagli attori di risarcimento del danno, mentre il procedimento di mediazione aveva avuto esito negativo per la mancata presentazione delle controparti.

Tanto premesso, conveniva la Gestione Liquidatoria della ex U. 9 A.P. e la Regione TOSCANA, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., per sentirle condannare in solido al risarcimento del danno non patrimoniale subiti a favore degli attori, nella misura di Euro 1.030.000,00 , in qualità di eredi, e di Euro 325,000, 00 ciascuno, in proprio, ovvero a quella diversa ritenuta di giustizia oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, con vittoria di spese processuali. In subordine, al risarcimento dei danni per la perdita di chances di sopravvivenza, nella diversa misia diEuro 500.000, iure hereditatis, e di Euro 100.000, 00 ciascuno, iure proprio.

Instauratosi il contraddittorio, si costituiva la REGIONE TOSCANA, la quale eccepiva il difetto di legittimazione passiva e l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno invocato dagli attori. Si costituiva, altresì, la GESTIONE LIQUIDATORIA convenuta la quale eccepiva la prescrizione e contestava nel merito la configurabilità di un errore diagnostico da parte degli operatori della Unità Operativa di anatomia e I.P. dell’Ospedale di Prato e concludeva per la infondatezza delle domande, anche in ordine alla quantificazione operata. Chiedeva in ogni caso il differimento della prima udienza onde consentire la chiamata in giudizio della U.A. Spa.

Disposto il differimento dell’udienza ed evocata in giudizio , la compagnia assicuratrice si costituiva , contestando a sua volta le deduzioni degli attori , aderendo alla eccezione di prescrizione sollevata dalle convenute e concludendo, in via subordinata, per il difetto delle domande proposte perché infondate e non provate in fatto ed in diritto.

Completata l’istruttoria con espletamento di CTU la causa era posta in decisione sulle conclusioni in epigrafe trascritte all’udienza del 26 ottobre 2017.

Con sentenza depositata il 16 maggio 2018, venivano rigettate le eccezioni pregiudiziali relative al difetto di legittimazione passiva e di prescrizione sollevate dalle parti convenute e disposta , con contestuale ordinanza, la remissione in istruttoria per integrare le CTU, anche in considerazione delle disposizioni normative entrate in vigore.

Completata l’istruttoria, la causa era nuovamente trattenuta in decisione all’udienza del 4 giugno 2020, sulle conclusioni n epigrafe trascritte.

Motivi della decisione

Definite le questioni pregiudiziali e preliminari , nel merito la domanda degli attori è risultata fondata e deve essere conseguentemente accolta per le motivazioni che seguono.

Invero, come si è già avuto modo di precisare nella sentenza del 16 maggio 2018 in punto di fatto non sono state contestate le circostanze allegate dagli attori concernenti gli esami eseguiti presso l’Unità operativa di anatomia e I.P. dell’U. Associazione I. n 9- A.P. nel 1983 e nel 1988, a seguito degli interventi eseguiti rispettivamente presso l’Ospedale di Pisa e presso il presidio ospedaliero di Prato, che avrebbero determinato le diagnosi non corrette e che sono state poste come fondamento della domanda.

Di conseguenza, la controversia si incentra sulla sussistenza di un nesso causale, giuridicamente rilevante, tra le omesse diagnosi di melanoma nelle distinte date specificate e l’evoluzione della patologia, nonché sulla valutazione degli estremi della colpa professionale in capo ai sanitari dipendenti ed ai servizi predisposti dalla U., alla quale la gestione liquidatoria convenuta è subentrata.

E’ stato infatti puntualizzato che la responsabilità dell’ente sanitario, e del suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medico- professionale, ha natura contrattuale di tipo professionale in quanto si inserisce nell’ambito del rapporto giuridico tra l’ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio. Ciò in quanto l’accettazione del paziente nella struttura, ai fini del ricovero, di una visita ambulatoriale , di un ‘intervento chirurgico o, come nel caso di specie, anche dello svolgimento di analisi, comporta la conclusione di un contratto d’opera professionale tra il paziente e l’ente , il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l’obbligazione di svolgere l’attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura. Ne consegue che la responsabilità diretta dell’ente e, eventualmente, quella del medico e del personale, inserito organicamente nella organizzazione del servizio, hanno natura contrattuale e sono disciplinate in via analogica dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d’opera professionale (Cass., 11.11.2019, n 28991Cass., 23.10.2018, n 26700Cass., 26.7.2017, n 18392Cass., 20.10.2015, n 21177Cass., 9.10.2012, 17143; Cass., sez. un. 11.1.2008, nn 576-577; Cass., 1.3.88, 844, Foro it. 1988, I, 2296). L’inadempimento, quindi, va valutato alla stregua del generale dovere di diligenza che prescinde dal criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia e si adegua alla natura dell’attività esercitata, rapportando la condotta effettivamente tenuta alla natura ed alla specie dell’incarico ed alle circostanze concrete in cui la prestazione si è svolta (Cass., 9.11.82, n. 5885) senza che possa eventualmente trovare applicazione nei confronti del medico la normativa prevista dagli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 con riguardo alla responsabilità degli impiegati civili dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini (Cass., 1.3.88, Gerani44, in Foro it. 1988, I, 2296).

Da tale ricostruzione discendono non soltanto le già precisate conseguenze in tema di termine prescrizionale, ma anche in punto di valutazione del merito della domanda e di applicazione del relativo onere probatorio.

I- LE CONDOTTE OMISSIVE

Nel merito, il cliente, che assume di essere stato danneggiato dalla prestazione professionale del sanitario, infatti, ha l’onere di provare che e che per effetto della condotta omissiva o commissiva ha subito un peggioramento delle condizioni originarie, dovendosi in tal caso presumere l’inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale. Spetterà, poi, all’ente ospedaliero o alla struttura sanitaria fornire la prova contraria, cioè che la prestazione professionale era stata eseguita idoneamente (in modo adeguato e diligente) e l’esito peggiorativo era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile oppure dall’esistenza di una particolare condizione fisica del cliente non accertabile con il criterio della ordinaria diligenza professionale.

  1. Ora, nel caso di specie, ai fini della valutazione dei profili di responsabilità deve essere richiamata la prima relazione tecnica depositata in data 27 febbraio 2017 dal C.T.U., prof Antonio DEL GAUDIO, professore di Chirurgia, con il supporto di ausiliario specialista medico legale, prof. B.V., e di ulteriore specialista in Anatomia Patologica, con peculiare esperienza nel campo delle neoplasie melanocitarie, dott. L.R..

Tutti gli esperti anatomo-patologici hanno confermato di avere desunto la diagnosi di neoplasia melanocitaria dalla visione dei vetrini relativi ai reperti istologici riferibili agli esami eseguiti nel 1983 e nel 1988, a seguito degli interventi eseguiti rispettivamente presso l’Ospedale di Pisa e presso il presidio ospedaliero di Prato, nonché quelli di epoca posteriore, rispettivamente del giugno 1993 e del luglio 1999.

La diagnosi emergente dai reperti analizzati viene di seguito riportata:

“…Trattasi di neoplasia melanocitaria ipercellulata, lievemente pigmentata, di aspetto verrucoso con nodularità superficiali periferiche e crescita compressiva sull’epidermide, che appare assottigliato. La neoplasia interessa il derma per uno spessore di 3 mm (sec. Breslow), presenta focale regressione ed è costituita da cellule dismetriche con nucleolo prominente, incisure ed occasionali pseudoinclusi nucleari. Si riscontrano lieve infiltrato linfocitario intra-lesionale (non-brisk), occasionali figure mitotiche prevalentemente in superficie, dove raggiungono il numero di 4 × mm2 nell’area a maggiore rappresentatività, riducendosi a circa 2-3 × mm2 in profondità nelle aree più rappresentative (reazione immunoistochimica per antigene citoproliferativo ki67 assente in quanto non ancora introdotta nella pratica diagnostica del tempo). Non vi è evidenza di invasione neoplastica perineurale, né di angioinvasione, né di ulcerazione. La neoplasia non è presente sui margini bioptici, distando 1.6 mm da quello laterale più vicino e 6 mm dal margine profondo. Nel derma papillare della cute indenne si osservano inoltre occasionali melanofagi. Il complesso dei reperti depone per melanoma nevoide, variante verrucosa; il melanoma nevoide è un raro istotipo di melanoma in fase di crescita verticale (sec. Elder), descritto per la prima volta nel 1985 S. C, Castro CE, Braun-Falco O. Nevoid malignant melanoma. Arch D.R., (…), il quale molto spesso è confuso con un nevo melanocitico Bastian BC, Lazar A. Nevoid melanoma. In: Calonje E, Brenn T, Lazar A, McKee PH, Eds. McKee’s pathology of the skin withclinical correfations, vol II, IV ed. E.S., 2012; ch. 26; pg. 1240 ( pag. 17-18). …”

Sul punto, l’esperto ausiliario anatomopatologo, dott. L.R., nella relazione di consulenza anatomo-patologica del 30.11.2016, integralmente riportata, ha infatti puntualizzato:

“Nel presente caso, la variabile attività mitotica riscontrata, bassa nella maggioranza della lesione (“minimal deviation melanoma”), ha ulteriormente innalzato il già elevato coefficiente di difficoltà diagnostica, tale da richiedere alte competenze diagnostiche. …Trattasi di neoplasia melanocitaria amelanotica costituita in prevalenza da cellule chiare atipiche con nucleo indentato (cosiddette ‘physalipherous’ nella letteratura inglese) ed in minor misura da cellule balloniformi con nucleo perifierico (ad anello con sigillo) prive di granuli intra-citoplasmatici PAS-positivi. ….. Ed ancora: “…Il complesso dei reperti depone per signet-ring melanoma; il signet ring melanoma è un raro istotipo di melanoma in fase di crescita verticale, descritto per la prima volta nel 1988 Sheibani K, Battifora H. Signet-ring cell melanoma. A rare morphologic variant of malignant melanoma. Am J Surg Pathol. 1988;12:28-34, riscontrabile principalmente nelle forme ricorrenti o metastatiche della malattia Magro CM, Crowson AN, Mihm MC. Unusual variants of malignant melanoma. Modern Pathofogy 2006;19:41-70. Nel presente caso il comportamento camaleontico della neoplasia nella sua ricorrenza ha ulteriormente innalzato il coefficiente di difficoltà diagnostica. Quattro (4) vetrini, tre (3) colorati con ematossilina ed eosina (EE) ed uno (1) colorato con impregnazione argentica Masson-Fontana (MR. tutti recanti l’etichettatura “Ist. Anat. Istol. Pat. U.S.L. N. 9 – PRATO” ed il codice numerico “122129” in progressione dal numero 1 al numero 3 (22129-1; 122129-2; 122129-3 EE; 122129-3 MF), risalenti all’anno 1993. Trattasi di melanoma maligno in fase di crescita verticale (sec. Elder) tumorigena.(pag. 19 -20).”

Già nella prima relazione si era segnalato un diverso coefficiente di difficoltà diagnostica e, soprattutto, riconoscendo la natura di recidiva neoplastica nei vetrini riferiti agli anni 1988 e 1993, corroborata dalla insorgenza nella medesima sede anatomica della lesione primaria.

Nella relazione valutativa medico-legale del 31.1.2017 il prof. B.V., ha poi ricostruito la vicenda sanitaria che ha portato all’esito infausto:

“L’iter clinico documentato decorre complessivamente dal 16/5/1983 (data del primo intervento di escissione di nevo alla coscia sx) al 14/9/2009 (data del decesso), per complessivi 26 anni. I passaggi salienti dalla storia clinica emergenti dalla documentazione agli atti sono rappresentati dall’intervento ambulatoriale di escissione di piccolo nevo sulla coscia sx presso l’Ospedale di Pisa in data 16/5/1983, dalla refertazione dell’esame bioptico in pari data, attestante la presenza di un nevo composito prevalentemente intradermico pigmentato peduncolato, dal reperto dell’esame bioptico dell’1/6/1988, conseguente a escissione di vecchia cicatrice in pregressa escissione di nevo cutaneo, con presenza di tumefazione pigmentata recidiva, in cui veniva diagnosticato un nevo intradermico a cellule chiare recidivo. È presente poi il referto dell’U.O. di Chirurgia del Prof. M. del 10/6/1993 con ricovero per nevo alla coscia, con diagnosi di nevo recidivo alla coscia sx, asportazione; il referto dell’esame bioptico del 10/6/1993 relativamente al materiale inviato, rappresentato da tumefazione alla coscia e, sotto il profilo macroscopico, da una losanga cutanea di 4,5×2 cm, con neoformazione ovalare del diametro massimo di 2 cm; rilevato sotto il profilo diagnostico un melanoma nodulare con isolati aspetti balloniformi, con spessore massimo sec. Breslow di 2,3 mm, III livello di Clark. La documentazione agli atti attesta poi l’effettuazione di una TAC dell’addome il 21/6/1993 e di una ecotomografia pelvica il 26/6/1993, risultanti nei limiti di norma. È presente il referto dell’Istituto di Anatomia Patologia e Citologia di Milano dell’1/7/1993, con diagnosi istopatologica di melanoma in tutti i reperti bioptici rivalutati. Il 9/7/1993 ricovero presso l’U.O. di Chirurgia con asportazione di cicatrice ed un tratto di fascia lata; il referto istologico rilevava melanoma. Risultano poi ripetuti controlli ecografici dal 1994 al 1998, invariati e senza riscontri patologici; in data 17/7/1999 veniva rilevata una formazione nodulare a livello inguinale sx sottoposta ad asportazione per biopsia, con ricovero in data 23/7/1999 ed esecuzione di intervento di linfoadenectomia radicale inguino-crurale sx e riscontro istologico attestante metastasi linfo e perilinfonodale, isotipo compatibile con melanoma. Emergono ulteriori refertazioni anche dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano ed ulteriori riscontri ecografici delle regioni inguinali, risultati sostanzialmente invariati fino al 6/2/2009. In seguito alla comparsa di dolori ossei diffusi nel giugno 2009 in data 21/7/2009 la Sig.ra G. si sottoponeva ad un esame RM lombosacrale, che rilevava lesioni osteolitiche di tipo sostitutivo diffuse a livello vertebrale; inoltre, il 24/7/2009 effettuava anche una scintigrafia ossea, che confermava le lesioni osteolitiche della colonna per melanoma, rilevando aree di iperattività anche a livello della teca cranica, della 7 emiarcata costale posteriore dx, diafisi omerale dx, femore sx e tibia sx; il 30/7/2009 si sottoponeva ad una TAC cranio, torace ed addome, che rilevava plurime aree nodulari di ipodensità a livello epatico, a livello del parenchima splenico, con lesioni sostitutive anche a livello del piccolo bacino sx e l’1/8/2009, agli Rx di controllo, venivano rilevate anche lesioni litiche a livello della teca cranica e pluridistrettuali. La visita effettuata all’Istituto Toscano dei Tumori di Siena del 10/9/2009 rilevava il melanoma cutaneo metastatico, riportando l’iter clinico e la revisione dei preparati istologici delle lesioni asportate nel 1983 e nel 1988, che portava ad evidenziare un melanoma nodulare polipoide IV livello di Clark 3,1 mm sec. Breslow nel 1983 e una localizzazione dermo-epidermica di melanoma nel 1988. In data 21/8/2009, presso l’Istituto Toscano Tumori di Siena, veniva intrapresa terapia con acido Zoledronico ed il 24/8/2009 con Dacarbazina, rilevandosi poi in data 13/9/2009, come diagnosi principale, un melanoma cutaneo con metastasi diffuse ossee, epatiche, spleniche ed a livello del bacino, con un progressivo aggravamento delle condizioni fino al decesso della paziente, avvenuto a Prato in data 14/9/2009…”.

Dall’iter clinico, così ricostruito, sono stati desunti alcuni elementi significanti nella valutazione della responsabilità dei sanitari sotto il profilo medico legale, partendo dalle indicazioni di carattere cronologico:

“…Le risultanze della consulenza anatomo-patologica del Dott. L.R. ha permesso di evidenziare come già gli accertamenti bioptici eseguiti nel 1983 e nel 1988 fossero indicativi di melanoma, a fronte, invece, di una diagnosi istopatologica di nevo composito prevalentemente intradermico pigmentato peduncolato nel 1983 e di nevo intradermico a cellule chiare recidivo nel 1988. In realtà, nel 1983, come conferma la re visione istoanatomopatologica del Dott. R., si trattava di una neoplasia melanocitaria ipercellulata, lievemente pigmentata, di aspetto verrucoso, con nodularità superficiali e periferiche e crescita compressiva sull’epidermide con un interessamento del derma per lo spessore di 3 mm ed occasionali figure mitotiche prevalentemente in superficie, con elementi di certezza diagnostica confermati dalla proliferazione melanocitaria che interessa la giunzione dermo-epidermica, riproducendo il tipico aspetto di consunzione dello strato epidermico. Il Dott. R. sottolinea peraltro, pur a fronte di elementi indicativi di neoplasia melanocitaria, in rapporto alla variabile attività mitotica riscontrata, un elevato coefficiente di difficoltà diagnostica. Nel 1988 si trattava di una neoplasia melanocitaria amelanotica ed anche in questo caso il Dott. R. sottolinea trattarsi di un raro istotipo di melanoma in fase di crescita verticale, riscontrabile principalmente nelle forme ricorrenti. Nel 1993 fu formulata la diagnosi corretta di melanoma nodulare con aspetti balloniformi. Si tratta, pertanto, di un ritardo diagnostico rispettivamente di 10 e di 5 anni: dal 16/5/1983 al 10/6/1993 e dall’1/6/1988 al 10/6/1993.

Il fatto che fossero elementi di elevata difficoltà diagnostica per le motivazioni ampiamente espresse e specificate dal Dott. R.; non può peraltro esimere dal considerare comunque non adeguata la diagnosi formulata e la mancata diagnosi di melanoma, sia nel 1983 che nel 1988, in quanto nel 1983, pur a fronte dell’oggettiva elevata difficoltà di formulare una diagnosi specifica e raffinata in una forma peraltro non ancora codificata, si imponevano approfondimenti diagnostici presso un superiore diretto o nella stessa struttura oppure la richiesta presso un centro di più elevata qualificazione per i melanomi, stanti comunque gli elementi indicativi quantomeno di un fondato dubbio suscettibile di tali approfondimenti. Nel 1988, trattandosi di recidiva, l’adeguata condotta è ancora più evidente, in quanto il misconoscimento del melanoma attiene una formazione con l’aggravamento dell’indice di sospettabilità clinica, trattandosi di recidiva locale; anche in questo caso, pur non pretendendo raffinatezze sottotipologiche non ancora codificate all’epoca, avrebbero dovuto essere effettuati ulteriori doverosi approfondimenti…. la diagnosi istopatologica di melanoma poteva e doveva essere già formulata sia nel 1983 che nel 1988, verificandosi dunque un duplice ritardo diagnostico di una patologia tumorale che ha poi avuto un’evoluzione progressiva, anche se in modo lento nel corso degli anni, fino al decesso della paziente, avvenuto il 14/9/2009……(pag 27)”.

  1. Con ordinanza del 17 dicembre 2018 si è chiesta una approfondita rivisitazione di tali valutazioni, anche in riferimento alle modifiche legislative intervenute in epoca posteriore ai disposti accertamenti ove ritenute immediatamente applicabili alla fattispecie in esame, sia sotto l’aspetto della valutazione della condotta dei sanitari che della quantificazione del danno.

In particolare, per quanto riguarda la valutazione dei sanitari, la L. 8 marzo 2017, n. 24 ( c.d. legge Gelli -Bianco), si è osservato che l’art. 7 comma 1 corrobora la ricostruzione della responsabilità della struttura , richiamando espressamente gli artt. 1219 e 1228 c.c., mentre gli artt. 3 e 4 , puntualizzano che ai fini del risarcimento del danno si tiene conto della condotta dell’esercente della professione sanitaria ai sensi dell’art. 5 e 6.

In relazione alla quantificazione, il danno dovrebbe essere risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, e quindi dell’art. 17 della L. 4 agosto 2017, modifica ( per quanto riguarda i sinistri, ma potenzialmente estensibile in forza del richiamo recettizio dell’art. 7 cit. ) l’art. 138 del codice delle assicurazioni, introducendo la tabella unica nazionale per la quantificazione del danno.

A riguardo, tuttavia, alla luce degli approdi ermeneutici della S.C. in tema di responsabilità sanitaria , si deve pervenire a risposte differenti per quanto concerne la valutazione degli elementi costitutivi della fattispecie sostanziale dell’illecito dalle conseguenze risarcitorie.

Invero, quanto al primo aspetto si è ritenuto che i criteri di accertamento della colpa e di valutazione della diligenza previsti dagli artt. 3, comma 1, del D.L. n. 158 del 2012, convertito dalla L. n. 189 del 2012, e 7, comma 3, della L. n. 24 del 2017, non hanno efficacia retroattiva e non sono applicabili ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore (Cass Sez. 3, 11/11/2019, n 28994; Cass, sez. 3 – del 08/11/2019, n 28811).

Per quanto riguarda invece l’incidenza sulle conseguenze di carattere risarcitorio, In tema di risarcimento del danno alla salute conseguente ad attività sanitaria, la norma contenuta nell’art. 3, comma 3, del D.L. n. 158 del 2012 (convertito dalla L. n. 189 del 2012) e sostanzialmente riprodotta nell’art. 7, comma 4, della L. n. 24 del 2017 – la quale prevede il criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209 del 2005 (Codice delle assicurazioni private) – trova applicazione anche nelle controversie relative ad illeciti commessi e a danni prodotti anteriormente alla sua entrata in vigore, nonché ai giudizi pendenti a tale data (con il solo limite del giudicato interno sul “quantum”), in quanto la disposizione, non incidendo retroattivamente sugli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite al patrimonio del soggetto leso, ma si rivolge direttamente al giudice, delimitandone l’ambito di discrezionalità e indicando il criterio tabellare quale parametro equitativo nella liquidazione del danno( Cass., 11/11/2019, n 28990).

In ogni caso, la risposta dei consulenti appare inequivoca in ordine alle valutazione delle condotte dei sanitari.

Rilevano infatti a riguardo:

” ….. In tema di approfondimento delle responsabilità dei sanitari dipendenti è opportuno differenziare la responsabilità dell’estensore del primo referto (1983), trattandosi di prima comparsa della lesione e di specialista anatomo-patologo più giovane, dalla responsabilità del secondo specialista (1988), in cui si trattava di recidiva nella sede del primo intervento chirurgico, potendosi escludere la insufficiente o incompleta escissione sulla base dello stesso esame istologico che dimostrava un contorno regolare e completo della lesione.

In questa evenienza si disponeva, inoltre, delle descrizioni in letteratura di entrambe le varianti tipologiche del melanoma (orientativamente 1/3 vs 2/3).

Si può escludere, inoltre, la evenienza di una nuova neoplasia di tessuto, in senso multifocale, per la sua insorgenza sul sito della escissione precedente.

In conclusione, si conferma che per effetto della condotta omissiva di entrambi i dipendenti e, per estensione, della struttura sanitaria, come sopra segnalato, sia stato provocato un peggioramento delle condizioni originarie della Sig.ra G., per inadeguatezza o non diligente esecuzione della prestazione professionale che, anche in mancanza di linee guida e raccomandazioni, per normale diligenza professionale i dipendenti della struttura avrebbero almeno dovuto attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali adeguate alla specificità del caso concreto.

Con riferimento alla risarcibilità del danno il Sig. G.I. osserva che con le categorie morfologiche valide all’epoca degli esami, secondo la scienza ed esperienza dell’epoca, la lesione avrebbe potuto essere legittimamente diagnosticata come benigna in relazione ai preparati analizzati nel 1983, in quanto la descrizione è avvenuta per la prima volta nel 1985.

Si precisa peraltro che questa non avrebbe potuto essere, comunque, una diagnosi di certezza, per la presenza di elementi anomali (mitosi), per cui sussiste comunque una inadeguata condotta tecnica, in quanto anche nell’ipotesi di una eventuale “benignità incerta”, il caso andava approfondito oppure prudentemente trattato alla stregua di un melanoma con l’intervento chirurgico di allargamento.

Nell’esame del reperto del 1993 venne fatta correttamente la diagnosi di melanoma ma come lesione primaria, meno grave sotto l’aspetto prognostico rispetto alla realtà clinica che deponeva per una neoplasia già sede di duplice trasformazione evolutiva e, pertanto, in fase di maggiore aggressività. Comunque la lesione venne trattata in modo corretto, per quanto tardivamente…”.

In base alle complessive argomentazioni ed indicazioni fornite dai consulenti, non può revocarsi in dubbio che le omissioni in ordine alla richiesta di ulteriori accertamenti diagnostici, nel 1983, e- vieppiù- in ordine alla diagnosi di melanoma, nel 1988, deve essere valutata negativamente rispetto al parametro della diligenza e perizia esigibile dai sanitari , e quindi dalla struttura medica.

In definitiva, anche in assenza di linee guida certe in occasione delle prime omissioni, le omissioni riscontrate – già nel 1983, ma soprattutto nel 1988- non sono risultate certamente adeguate alle specificità del caso concreto e conformi al parametro delle “leges artis” nella cura dell’interesse del paziente, e inducono a ravvisare gli estremi della colpa professionale a carico di entrambi i sanitari che non hanno formulato le diagnosi corretta o, nel primo caso, richiesto ulteriori approfondimenti diagnostici.

II-IL NESSO DI CAUSALITA’

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, si è soliti affermare il principio che incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia e l’azione o l’omissione dei sanitari e che solo ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. Il rapporto tra inadempimento e danno è stato ancor più chiaramente delineato indicando la sussistenza di un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante.

Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta (attiva o omissiva) del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (Cass, Sez. 3 – Cass., Sentenza 11/11/2019, n 28991Cass., 23.10.2018, n 26700Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392). Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell attore relativamente all evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile” (Cass., 23.10.2018, n 26700, così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit., nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315,).

Fissati tali principi di carattere generale, nel caso di specie, deve essere valutata la situazione prospettata alla luce degli accertamenti tecnici di cui alla relazione sopra richiamata, che si presenta congruamente motivata e, conseguentemente, ampiamente condivisibile. Al riguardo, infatti, è necessario richiamare al principio secondo cui, in materia di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma “consulenza percipiente” a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale (Cass, 23.10.2018, n 26700Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225).

In punto di nesso etiologico, infatti, rileva il CTU:

” ….Sulla base della Consulenza Anatomo-patologica espletata dal Dott. L.R., Ausiliare del CTU, dell’esame collegiale dei vetrini e della relativa discussione e sulla base delle memorie pervenute è possibile tracciare la storia evolutiva della neoplasia della Sig.ra A.G..

  1. A) La Sig.ra G. all’età di 37 anni venne sottoposta ad asportazione di piccolo nevo della coscia sx, con modalità ambulatoriale nell’Ospedale di Pisa, il 16/05/83. Il pezzo chirurgico venne consegnato ai familiari perché lo facessero esaminare nell’Ospedale di Prato dove risiedevano.

Il referto della U.O. di Anatomia e I.P. del 20/05/83 (Dott. A.A.) riportava “Nevo composito, prevalentemente intradermico, pigmentato, peduncolato”.

Si trattava in verità di una “Neoplasia melanocitaria, ipercellulata, lievemente pigmentata, di aspetto verrucoso con nodularità superficiali periferiche e crescita compressiva sull’epidermide che appare assottigliato. … la certezza diagnostica è oggettivamente dimostrata dalla proliferazione melanocitaria che interessa la giunzione dermo-epidermica riproducendo il tipico aspetto di consunzione dello strato epidermico (caratteristica tarlatura ed erosione del piano epidermico).

… dall’esame collegiale sono emersi elementi indicativi di neoplasia melanocitaria che non richiedevano una diagnosi raffinata fino a quella di “melanoma nevoide, variante verrucosa”, del resto non ancora codificata, ma imponevano un approfondimento diagnostico presso un superiore diretto nella stessa struttura o almeno la richiesta di una “second opinion” in altri Centri ad elevata qualificazione per i melanomi.

Tale precisazione è ancora più importante se si considera che la neoplasia asportata in questa prima fase, dotata di una buona prognosi con bassa probabilità di recidive locali e bassissima, se non eccezionale, di metastasi, correttamente diagnosticata e sottoposta al trattamento di allargamento exeretico appropriato, avrebbe potuto comportare la guarigione clinica definitiva con alta probabilità. …

  1. B) Dopo cinque anni si ripresentò una identica lesione cutanea sulla cicatrice del precedente intervento, nello stesso punto della lesione precedente.

Il 01/06/88 tale lesione venne sottoposta ad exeresi chirurgica comprendente una losanga cicatriziale, nella U.O. di Chirurgia della U. Associazione I. N. 9 – A.P. e l’esame istologico venne condotto nell’U.O. di Anatomia e I.P. della stessa U..

La diagnosi formulata dall’ Anatomia Patologica di Prato e firmata dal Prof. A.G., in data 17/06/88, fu di “Nevo intradermico a cellule chiare (recidivo)”. Di interesse risulta la descrizione nella richiesta dell’esame, alla voce “materiale inviato”: “Escissione di vecchia cicatrice (pregressa escissione di nevo cutaneo) con presenza di tumefazione pigmentata recidiva”. Anche in questo caso le dimensioni della lesione melanocitaria misurata sul preparato istologico, risultava di 0,5 cm di diametro massimo. Si trattava, in realtà, di “Neoplasia melanocitaria amelanotica costituita in prevalenza da cellule chiare atipiche con nucleo indentato ed in minor misura da cellule balloniformi con nucleo periferico (ad anello con sigillo) prive di granuli intra-citoplasmatici PAS-positivi. …

In tale evenienza, pur essendo più marcate le caratteristiche della neoformazione melanotica, la lesione venne misconosciuta con l’ aggravante di un basso indice di sospettabilità clinica, trattandosi di una “recidiva locale”.

Anche in questo caso la diagnosi di melanoma, pur priva di raffinatezze sotto-tipologiche non ancora codificate all’epoca, doveva essere avanzata, sia per l’epidermo-tropismo degli elementi giunzionali che mostravano atipie citologiche di grado moderato, sia per la relativa asimmetria della proliferazione melanocitaria, sia per gli aspetti regressivi in questo contesto ed, infine, perché la cute della coscia rappresenta la sede elettiva di insorgenza di melanoma maligno nella donna. …

  1. C) Dopo ulteriori cinque anni, nel giugno del 1993, una ulteriore neoformazione si ripresentò nella stessa sede della coscia sx.

Anche questa lesione venne asportata, il 10/06/93, nella medesima U.O. di Chirurgia di Prato ed esaminata nella medesima struttura di Anatomia Patologica con il seguente referto, a firma del Prof. A.G.: “Melanoma nodulare con isolati aspetti balloniformi. Spessore massimo sec. Breslow 2,3 mm, III livello di Clark”.

Secondo il Dott. R. si trattava di un “Melanoma maligno in fase di crescita verticale (sec. Elder) tumorigena. … La diagnosi, questa volta corretta, viene formulata con almeno 10 anni di ritardo rispetto a quanto sarebbe stata esigibile. In questa terza indagine istopatologica, finalmente corretta, si rileva, tuttavia, una formulazione diagnostica più attinente al tipo tumorale primitivo, prognosticamente più favorevole, piuttosto che ad una reiterata recidiva, come si evince anche dal fatto che nessuna revisione retrospettiva del materiale dei precedenti interventi risulta esperita…. Il trattamento chirurgico a seguito di quest’ultima diagnosi finalmente corretta, può ritenersi adeguato. …. A tale proposito viene da chiedersi se l’intervento chirurgico di allargamento eseguito nel 1998 fosse rispondente alle esigenze di radicalità, in riferimento alle linfoghiandole tributarie nella sede inguinale omolaterale (sx). Si rileva che all’epoca non risultavano descritti ingrossamenti linfoghiandolari nella sede inguinale e che ancora non era in uso la pratica dell’asportazione del “linfonodo sentinella”. Vigeva, invece, la prospettiva di associare all’exeresi allargata la rimozione dell’intero pacchetto linfonodale tributario, nell’illusoria convinzione di conseguire una bonifica efficace sia della sede di insorgenza del melanoma e sia della prima via di diffusione linfoghiandolare, incrementando in maniera decisiva le “chances” di sopravvivenza della paziente nel lungo periodo….”.

Operata tale ricostruzione, si perviene alle seguenti conclusioni.

“..La neoplasia che ha colpito la Sig.ra A.G., riconoscibile sin dalla prima analisi istopatologica per quanto caratterizzata da “minimal deviation melanoma”, come definita dal Dott. R. e confermata dal Prof. R. “melanoma a deviazione minima”, ha dimostrato un andamento insolitamente “lento” sotto il profilo biologico.

La prima manifestazione del melanoma, in fase non avanzata, per insufficiente escissione ha prodotto una recidiva locale solo dopo 5 anni ed un’ulteriore recidiva dopo altri 5 anni e, dopo l’allargamento tissutale nella sede tumorale, si realizzò una metastasi unica nel pacchetto linfoghiandolare inguinale.

Dopo l’intervento di bonifica della stazione linfoghiandolare inguinale la paziente è sopravvissuta per altri 10 anni, fino al decesso per melanoma maligno plurimetastatico. Se la diagnosi corretta fosse stata formulata “ab initio”, in occasione dell’intervento del 1983, e si fosse proceduto all’allargamento dell’exeresi chirurgica, le probabilità di sopravvivenza sarebbero state più elevate……

Il considerevole ritardo di circa 10 anni per la corretta diagnosi, ha comportato, pertanto, un peggioramento della prognosi sia “quoad valetudinem” sia “quoad vitam”, trattandosi di una neoplasia ad andamento biologico non aggressivo, per cui può ammettersi che un trattamento chirurgico corretto alla prima manifestazione avrebbe potuto persino conseguire una eradicazione completa e definitiva. Il ritardo diagnostico ha concretamente realizzato un rilevante peggioramento della qualità di vita della Sig.ra G. anche per la consapevolezza di aver vissuto per 10 anni con una neoplasia maligna per diagnosi non corrette, gravata dalla frustrazione per l’inattività terapeutica che avrebbe potuto persino evitare l’esito letale.

Nel caso in esame ad un primo errore diagnostico del 1983, ha fatto seguito un errore ancora più grave, cinque anni dopo, in quanto la presenza di una recidiva della lesione nella stessa sede del precedente intervento non fece sorgere neppure il sospetto che si potesse trattare di una patologia ben più grave di un semplice “nevo intradermico a cellule chiare recidivante”, provocando un ulteriore peggioramento prognostico.

È noto, infatti, che la recidiva della malattia comporta sempre un rischio maggiore rispetto a quello che affronta un paziente operato correttamente sin dall’inizio.

Viene considerato trattamento chirurgico adeguato l’asportazione della lesione con margini di tessuto sano di almeno 1 cm, con ampia exeresi fino alla fascia muscolare.

L’asportazione del “nodulo sentinella” non era ancora praticata all’epoca in cui si svolgevano i fatti riportati.

Nel caso in esame, si può escludere che la prima recidiva fosse da “incompleta escissione precedente” per il contorno regolare e completo della lesione.

Le diagnosi attuali del Dott. R. sono state elaborate sulla base delle proposte classificative perfezionate negli anni successivi, ma nel caso in esame era richiesto il semplice riconoscimento della natura neoplastica maligna (melanoma) e non un raffinato dettaglio classificativo.

In definitiva: “.. i medici dell’Unità Operativa di Anatomia e I.P. dell’Ospedale di Prato, in occasione degli interventi chirurgici effettuati sulla Sig.ra A.G. di 37 e 42 anni rispettivamente, e delle relative diagnosi effettuate il 20.05.1983 (Dott. A.A.) ed il 17.06.1988 (Prof. A.G.), non hanno rispettato i principi della corretta scienza medica, per non aver individuato la natura neoplastica della lesione esaminata, e per non aver agito nell’osservanza della diligenza professionale dagli stessi esigibile, che imponeva, in entrambi i casi, di richiedere una “second opinion” di un Centro particolarmente qualificato nella diagnostica dei tumori melanocitari, considerando che anche i “non cultori della materia” di un grande Ospedale, hanno il dovere di consultare un esperto, trattandosi del destino di un essere umano Sussiste, pertanto, il nesso causale tra le condotte poste in essere dai suddetti medici e il decesso della Sig.ra A.G.;

….nel caso la Sig.ra A.G. avesse ricevuto sin dal 1983 la diagnosi corretta, e di conseguenza fosse stata sottoposta ad un corretto intervento chirurgico di allargamento, anche in assenza di linfoadenectomia, oppure sin dal 1988, le probabilità di sopravvivenza o di più lunga sopravvivenza sarebbero state rispettivamente dall’80% al 90% riferibili al 1983 e dal 70% all’80% riferibili al 1988.

In tale quadro, particolarmente delicato appare investigare sul nesso di causalità da attribuire a al duplice ritardo facendo riferimento ad una serie di elementi oggettivi rappresentati dalla tipologia del melanoma, dall’epoca di comparsa, dall’epoca e dal tempo intercorso fra l’iniziale comparsa nel 1983 e la recidiva del 1988 e poi quella del 1993, dovendo considerare ancora la tempistica dei 6 anni dal momento della diagnosi al riscontro di una metastasi linfo e perilinfodonale inguinale sx ed, ancora, il lasso di tempo di ulteriori 10 anni (dal 1999 al 2009) – come già sopra evidenziato – fino al momento della drastica peggiorativa evoluzione per il riscontro di metastasi pluridistretturali che, dal momento della loro diagnosi nel luglio 2009 fino al 14/9/2009, hanno portato nell’arco di circa 2 mesi al decesso della paziente. …

Pur prendendo atto di una neoplasia che, sia nel 1983 che nel 1988, non risulta aver sconfinato rispetto ai margini bioptici in rapporto alle exeresi del nevo eseguite e, pertanto, da ritenere complete, tuttavia in caso di diagnosi di melanoma in entrambi i casi sarebbe stato effettuato un opportuno ed ampio allargamento ed estensione del trattamento, in un quadro – è bene sottolinearlo – che sotto il profilo clinico era rappresentato da una lesione nevica alla coscia sx con recidiva locale, in assenza di riscontro di metastasi, anche a fronte di una tardiva diagnosi, fino al 1999 a livello inguinale sx e, poi, diffuse a distanza di 10 anni, ovvero nel 2009. Pertanto, sussiste una quota differenziale che non può non essere considerata fra il 1983 e il 1988, che va espressa nei termini seguenti. Si ritiene, con criterio di probabilità ed in proiezioni civilistica, sempre con inevitabile approssimazione trattandosi di fattore prognostico in ambito oncologico, come il ritardo diagnostico di melanoma del 1983 abbia comportato una perdita delle probabilità di sopravvivenza valutabile dall’80 al 90%, mentre tale perdita nel 1988 è stimabile orientativamente nella misura e in un range dal 70 all’80%…”.

Anche qui, secondo l’insegnamento della S.C. , occorre considerare “in materia di perdita di “chance”, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del ” Cass., sez. un. 11.1.2008, nn 576-577; “, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di “chance” postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una “chance” perduta, ma di un altro e diverso danno; ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente” (Cass., Sez. 3 26/06/2020, n 12906Cass., Sez. 3, Sentenza n. 5641 del 09/03/2018Cass, sez. 3, Sentenza n. 16919 del 27/06/2018,; Cass, Sez. 3, Sentenza n. 29829 del 20/11/2018Cass. sez. 3, Sentenza n. 28993 del 11/11/2019; Cass., sez. un. 11.1.2008, nn 576-577;).

In tale prospettiva devono essere tenuti distinti piani dell’accertamento del nesso causale tra la condotta colposa omissiva del medico e l’evento dannoso (cd. “danno evento”, nella specie coincidente con la morte del paziente) e dell’accertamento e valutazione del danno in concreto subito dagli attori (cd. “danno conseguenza”, nella specie consistente – oltre che nel pregiudizio patrimoniale – nella perdita del rapporto parentale con la vittima, danno concretamente verificatosi).

Il primo accertamento , invero, deve essere effettuato sulla base del principio civilistico del “più probabile che non”, quindi verificando se la diligente condotta colposamente omessa dai sanitari nella prima e nella seconda occasione in esame avrebbe, con ragionevole probabilità – superiore alla probabilità dell’evento contrario – determinato la sopravvivenza della paziente e quindi evitato il decesso. Con riferimento ad entrambe le situazioni, le probabilità che una differente condotta dei sanitari avrebbe impedito il decorso infausto della patologia sono nettamente superiori alla ipotesi contraria, stimate addirittura nell’ordine del 80-90 % in riferimento alla prima visita e del 70-80%, in relazione alla seconda.

Atteso il quadro strettamente medico trasmesso, sotto il profilo giuridico deve ulteriormente essere considerato:

  1. a) che l’inesigibilità della prestazione professionalmente corretta da parte del primo sanitario, se correlata allo stato delle conoscenze dell’epoca sulla tipologia tumorale in questione, potrebbe configurare – sotto il profilo causale, oltre che come elemento di valutazione della colpa – un fatto impeditivo in termini di inesigibilità della condotta, ma sotto tale aspetto ogni eventuale incertezza sarebbe comunque a carico della struttura, secondo i principi in materia dell’onere della prova sopra richiamati;

  2. b) che, ancora, l’efficienza causale della condotta omissiva del 1988, sicuramente più grave e difforme dal parametro della perizia professionale, ha mantenuto una incidenza causale autonoma e nettamente prevalente sull’evoluzione della malattia e sull’evento letale a cui la stessa ha portato.

In definitiva, riconosciuta l’efficienza causale di entrambe le condotte omissive rispetto all’evoluzione ed all’aggravamento della patologia, non può chee essere affermata la responsabilità solidale delle strutture, riconoscendo per intero agli attori il pregiudizio sofferto.

III -LA QUANTIFICAZIONE del DANNO

L’esame del Tribunale va quindi portato all’ ammontare del pregiudizio richiesto dagli attori, in ordine ai quali occorre procedere differenziando le varie componenti di danno.

1.Danno biologico dei parenti

Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, condiviso da questo Tribunale, certamente non vi è spazio per riconoscere agli eredi il risarcimento a titolo di danno biologico con riferimento alla propria capacità psicofisica, né in verità alcuna richiesta è stata avanzata in tal senso. Invero, l’art. 2043 c.c., imponendo il risarcimento del danno ingiusto senza alcuna altra qualificazione, ha riguardato un genus caratterizzato dalla sua ingiustizia e del quale – accanto alle tradizionali categorie del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale – costituisce una specie il danno biologico, inteso come menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica. Consegue che tale danno, concernente la riparazione delle lesioni apportate ad un diritto personalissimo del danneggiato, non può essere riconosciuto a soggetti estranei all’ambito di riferibilità di una tale lesione e, in particolare, agli eredi della vittima, che non hanno subito alcun danno nella loro integrità psico-fisica, quando agiscono in proprio.

2.Danno patrimoniale da lucro cessante

Quanto al riconoscimento del danno patrimoniale da lucro cessante subito dai familiari per il decesso di un congiunto, questo è subordinato alla ragionevole previsione che il familiare deceduto nel futuro, per un periodo di tempo apprezzabile, avrebbe destinato una parte dei propri redditi al soddisfacimento delle loro necessità e che la sua prematura scomparsa ha fatto venir meno questo prevedibile contributo economico , tenendo conto dell’eventuale reddito della vittima al momento del sinistro (Cass., 4.2.93, n. 1384). Tuttavia, gli attori non hanno dimostrato che la vittima fosse di sostegno economico ai propri familiari né che la stessa avesse un impiego sufficientemente stabile, e soltanto in presenza di concreti elementi di valutazione, certi, precisi e tutti concordanti nel senso sopra indicato, si può presumere la perdita di contributi come duraturo vantaggio economico proveniente da entrate reddituali. Nel caso in esame gli istanti non hanno fornito elementi per consentire al Tribunale di valutare, se la vittima avrebbe destinato per un periodo duraturo parte del proprio reddito non soltanto al soddisfacimento delle sue esigenze personali ed al risparmio ma anche al sostegno finanziario dei figli. Questa prova è in concreto del tutto mancata e, pertanto, non può essere riconosciuta agli attori alcuna somma a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, anche sotto il profilo del mancato guadagno, peraltro non espressamente richiesto.

3.Danno biologico e danno morale iure hereditatis

Diversamente appare riconoscibile iure hereditatis il danno biologico sofferto dalla paziente. Tale danno , infatti, deve essere escluso solo nell’ipotesi di morte immediata o vicina al sinistro o alla condotta colposa, poiché tale evento annulla la stessa esistenza ed esclude che l’infortunato possa continuare ad esistere in condizioni di ridotta potenzialità vitale ( cfr Cassazione civile, sez. III, sentenza 23/10/2018 n. 26727, nel senso di escludere il cd danno tanatologico nell’ipotesi di decesso immediato Cass, sez. un. 22 luglio 2015, n 15350) . Costituisce invece componente del danno ingiusto da riconoscere ex art. 2043 c.c. quel pregiudizio che abbia comportato un peggioramento quantitativo e qualitativo della sfera giuridica della vittima rispetto a quelle condizioni che sarebbero state rilevabili in capo alla stessa in mancanza della condotta illecita altrui, configurandosi in tal caso come danno-conseguenza e non come danno-evento che soddisfi i requisiti ex artt. 1223 e 2046 c.c conseguenza diretta ed immediata della condotta illecita sulla base di del criterio di regolarità dell’id quod plerumque accidit.

Infatti, va considerato che il danno morale terminale e quello biologico terminale: il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo, come appunto nel caso in esame.

Dai pregiudizi risarcibili “iure hereditatis” si differenzia poi radicalmente il danno da perdita del rapporto parentale che spetta “iure proprio” ai congiunti per la lesione della relazione parentale che li legava al defunto e che è risarcibile se sia provata l’effettività e la consistenza di tale relazione, ma non anche il rapporto di convivenza, non assurgendo quest’ultimo a connotato minimo di relativa esistenza (Cass., 30.8.2019, n 21837 , v anche Cass., 17.9.2019, n .23153Cass., 5/7/2019, n 18056Cass, 20.6.2019, n 16592Cass., 28.6.2019, n 17577Cass., 23.10.2018, n 26727).

Quindi, In ordine a tale posta di danno, occorre fare riferimento alle indicazioni fornite in sede di integrazione della relazione di CTU secondo le quali occorre:

“… tenere conto che il ritardo diagnostico ha concretamente realizzato un rilevante peggioramento della qualità di vita della G. anche per la consapevolezza di aver vissuto per 10 anni con una neoplasia maligna per diagnosi non corretta, gravata dalla frustrazione per l’attività terapeutica che avrebbe potuto persino evitare l’esito letale, ed atteso il lungo periodo di sopravvivenza della G., valutando tutte le circostanze concrete, le sofferenze, i sintomi manifestati negli anni, nonché la situazione di lento aggravamento della malattia e considerando altresì le effettive limitazioni derivate all’integrità psicofisica della paziente ed alla stessa qualità di vita, si tenta di quantificare la misura della inabilità nel corso del tempo fino alla misura massima nella parte terminale in linea con i criteri di cui all’art. 138 del D.Lgs. n. 209 del 2005.”.

Richiamata, ancora una volta, la storia clinica documentata il CTU procede a differenziare i differenti periodi di evoluzione della malattia valutando che il danno biologico non può che scaturire dal 1993, momento della diagnosi di melanoma e, quindi, del duplice ritardo diagnostico di 5 e 10 anni con innesco delle conseguenti terapie e trattamenti già ampiamente evidenziati e descritti. Tale condivisibile valutazione trae fondamento dalla inabilità conseguente non tanto o non solo dal tipo di cure affrontate nel corso degli anni, ma anche dalle sofferenze e ripercussioni che ha avuto sulla integrità psicofisica e sulla qualità di vita della paziente la consapevolezza di affrontarle con un ritardo diagnostico di diversi anni influente sul buon esito delle stesse.

Le tre fasi, dunque, vengono differenziate individuando :

1) un primo periodo, decorrente dal 18 giugno 1993, epoca dell’intervento chirurgico ambulatoriale e conseguente diagnosi di melanoma al 17 luglio 1999 ( in cui è stato effettuato ulteriore intervento chirurgico di linfoadenectomia radicale inguino-crurale sx) , per complessivi 6 anni (totale 2190 giorni) in cui si è stimata l’ intensità del danno biologico intorno al 50% (cinquanta);

2) un secondo periodo, dal 18 luglio 1999 al 23 giugno 2009 ( per quasi 10 anni, pari a gg 3625 giorni), in cui l’intensità è stata stimata intorno al 70%;

3) un terzo periodo conclusivo, di circa 3 mesi, decorrente dal 24 giugno 2009, con comparsa di dolori ossei diffusi, esecuzione di accertamenti strumentali sino decesso il 14/9/2009 ( 80 giorni), con un’intensità prossima al 100%, tenendo conto dell’evoluzione della patologia, delle terapie effettuate e della componente prognostica evolutiva.

Trattandosi di inabilità temporanea, facendosi applicazione dei criteri di legge sopra richiamati ( art. 138 t.u delle assicurazioni) si deve riconoscere l’importo di Euro 98,00 per ogni giorno di inabilità, aumentato del massimo limitatamente all’ultimo periodo in cui l’inabilità è stata assoluta, con ulteriori Euro 10.000, a titolo di danno morale terminale.

Facendo applicazione di tali criteri, si perviene ai seguenti importi:

I periodo: inabilità temporanea al 50%, il danno viene stimato in Euro 107.310 (2190 x98= Euro 214620- 50% = 107310);

II periodo: inabilità temporanea al 70% Euro 248.675 ( 3625 x98= Euro 355250- 30% = 248.675);

III periodo: inabilità temporanea al 100% Euro 11.768 ( 80 x98= Euro 355250 = 7848+50%=11.768).

Per un totale di Euro 377.753,00 (107.310+248.675+ 11.768+10.000 ) a titolo di danno biologico e morale riportato dalla G..

4.Danno da perdita del rapporto parentale ( o morale) diretto

Ciascuno dei familiari ha inoltre diritto alla liquidazione del danno non patrimoniale, inteso come la somma delle sofferenze fisiche inerenti al grave perturbamento dell’animo conseguente al trauma affettivo patito per la prematura scomparsa della persona congiunta, con tutte le conseguenze derivatene. Si tratta della domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti “iure proprio” che si distingue dalle altre poste di danno sopra elencate e che, in ogni caso, trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale sancite dalla fattispecie di cui agli art. 2043 c.c. e ss.( Cass., 2 gennaio 2020, n 2). A tale riguardo, è stato ancora chiarito, trattarsi di una posta di danno autonoma rispetto a quelle sopra considerate e che partecipa della medesima natura del c.d danno morale, di cui occorre tenere unitariamente conto nella liquidazione omnicomprensiva del danno non patrimoniale dei congiunti (Cass. 3 luglio 2019, n 28989) e che, certo nella sua valutazione unitaria, non ha ancora trovato alcuna forma di ristoro. In definitiva, è il danno non patrimoniale da riconoscere in proprio ai parenti per la perdita del loro stretto congiunto, valutando le componenti del concetto unitario di danno tenendo conto che la sofferenza patita nel momento in cui la perdita percepita e quella che accompagna l’ esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che parti di un unico composti pregiudizio cha va integralmente ed unitariamente riparato (Cass, 17 dicembre 2015, n 25351Cass. 8 luglio 2014, n 15491Cass, 23 settembre 2013, n 21716).

Tale danno non può essere confuso con l’eventuale danno biologico, inteso come ripercussione di tale perdita sullo stato di salute psicofisica del familiare. E neanche è suscettibile di sovrapposizione rispetto al danno riportato dalla stessa persona danneggiata suscettibili al danno riportato dalla stessa persona danneggiata, suscettibile, come detto, di trasmissione iure hereditatis (Cass. 9 giugno 2015, n. 11851Cass. 8 maggio 2015, n. 9320).

Per altro verso, riconosciuto il danno da perdita da rapporto parentale, deve essere esclusa la possibilità di attribuzione congiunta di un ulteriore danno morale ( non altrimenti specificato), il quale costituirebbe indebita duplicazione di risarcimento, atteso che la sofferenza patita è percepita ( sul piano morale soggettivo) e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico-relazionale, configurano elementi essenziali costitutivi del medesimo complesso e articolato pregiudizio destinato ad essere risarcito integralmente, ma anche unitariamente. Ancora, nella medesima prospettiva ermeneutica, va esclusa la liquidazione del c.d danno esistenziale, in quanto il danno da perdita parentale già comprende lo svolgimento dell’esistenza che ne costituisce componente intrinseca ( Cass., 30.11.2018, n 30997).

Tanto precisato, nel procedere alla concreta quantificazione , ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità delle ricadute della condotta (cfr. Cass., sez. III, n. 11212 del 24/04/2019), spetta al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale sussistenza di uno solo, o di articolare distintamente i profili di danno non patrimoniale in precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto e percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita). In tale quadro è stato comunque sottolineato dalla S.C. il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravita o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di pia lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale. Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (in tema di rapporto tra nonno e nipote: Cass, , n. 21230 del 20/10/2016Cass., Sez.3, Sentenza n. 12146 del 14/06/2016), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita (come, ad es., l’età delle parti del rapporto parentale) che va valutata con prudente apprezzamento (Cass Sez. 3 , Sentenza del 11/11/2019, n 28989). In mancanza di sicuri riferimenti questa valutazione non può che essere equitativa, come prevede l’art. 1226 c.c., e deve adeguatamente differenziare, facendosi applicazione dei criteri elaborati dal Tribunale di ROMA, tenendo conto dell’età della paziente, dello status dei familiari, assumendo come dato di partenza il valore punto base all’attualità pari ad Euro 9806,70,00.Tenuto conto di tutte queste considerazioni, della situazione incontestata di convivenza del coniuge, di non convivenza di entrambi i figli e del genitore, della presenza di altri familiari conviventi, ritiene il Tribunale di riconoscere a titolo di danno morale le seguenti somme:

Per ciascuno dei figli partendo dalla somma di Euro 235.360,80 ( punto base Euro 9806,70 all’attualità, punti 18 per grado di parentela, 2 per età della vittima, 4 per età dei figli), all’attualità, applicando la riduzione per la situazione di non convivenza del 25 %( in considerazione , comunque, della vicinanza e della incontestata intensità di frequentazioni) si perviene all’importo di Euro 176.600, per ognuno.

Per il coniuge partendo dalla somma di Euro 274.587,60 ( punto base Euro 9806,70 all’attualità, punti 20 per grado di parentela, 2 per età della vittima, 2 per età del coniuge , 4 convivenza), all’attualità.

Per il genitore partendo dalla somma di Euro 225.554,10 ( punto base Euro 9806,70 all’attualità, punti 20 per grado di parentela, 2 per età della vittima, 1 per età dei figli), all’attualità, applicando la riduzione per la situazione di non convivenza del 25 %( in considerazione , comunque, della vicinanza e della incontestata intensità di frequentazioni) si perviene all’importo di Euro 169.165,57.

A tali importi si sommano le spese sostenute, anche per CTP, adeguatamente documentate per l’importo complessivo di Euro 12.200,00

Inoltre, con riferimento alle poste di danno accertate, l’equivalente pecuniario già valutato ai valori attuali- trattandosi di debito di valore -soddisfa il credito per il bene perduto, ma non anche il mancato godimento delle utilità che il bene medesimo avrebbe potuto offrire, se fosse stato immediatamente risarcito con una somma di denaro equivalente, lasciando pertanto residuare un ulteriore danno da ritardo. Detto danno deve essere comunque allegato e può essere provato anche con mezzi presuntivi ovvero equitativamente, ed a tal fine la giurisprudenza ha spesso ritenuto di far ricorso al criterio degli interessi legali, c.d. compensativi, sulla somma rivalutata. Tale criterio, tuttavia, comporta l’attribuzione al creditore danneggiato di un valore aggiuntivo produttivo di un ingiustificato arricchimento. Ritiene pertanto il Tribunale- con ciò conformandosi al più recente ed autorevole orientamento della S.C. (sin da Cass., sez. un., 22.4.1994- 17.2.1995, n. 1712) – che tale posta di danno (lucro cessante) possa più adeguatamente avere ristoro attraverso il criterio equitativo del calcolo degli interessi sulle somme rapportate (devalutate, secondo gli indici ISTAT relativi all’andamento dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai) all’epoca del decesso e rivalutate annualmente sino alla data di pubblicazione della presente sentenza. Da tale ultima data, invece, convertendosi il credito complessivo in valuta, sono dovuti gli interessi legali sino al saldo.

IV- DOMANDA DI GARANZIA

Ricorrono le condizioni per accogliere la domanda di manleva o garanzia proposta dalla società assicurativa, in presenza di un indiscusso rapporto assicurativo e non oggetto di contestazione.

La garanzia della compagnia assicuratrice, U.A. S.p.A., va comunque contenuta entro i limiti della quota di coassicurazione (49%) e del massimale di polizza e quindi nei limiti della quota del 49% del danno risarcibile e comunque entro l’importo massimo di Euro 75.919,16, pari alla quota del 49% del massimale di Euro 154.937,07; con compensazione di spese e di compensi nei confronti di tutte le altre parti del giudizio.

Infine, le spese di lite seguono la soccombenza e vanno poste a carico dei convenuti in solido per come liquidate in dispositivo, tenuto conto del valore della causa e dell’attività svolta., compensando per metà quelle della terza chiamata, in ragione del limite riconosciuto.

P.Q.M.

Il Tribunale di Prato, sulle antescritte conclusioni dei procuratori delle parti, non definitivamente pronunciando sulle domande spiegate da C.P., C.R., C.F. e I.F.B. nei confronti della GESTIONE LIQUIDATORIA ex U. 9- A.P., e della REGIONE TOSCANA, in persona, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., con atto di citazione notificato in data 21 aprile 2015, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:

  1. a) condanna

solidalmente le convenute – per le causali e con i limiti specificati in parte motiva-al pagamento delle seguenti somme:

in favore degli attori, nella misura corrispondente alle quote ereditarie di G.A.,

Euro 377.753,00 a titolo di danno biologico riportato da G.A. , in valori attuali, con interessi legali sulla somma devalutata alla data del decesso (14.9.2009) e rivalutata annualmente secondo gli indici ISTAT indicati in motivazione sino alla data di pubblicazione della presente sentenza nonché degli interessi legali sull’importo complessivo dal giorno della pubblicazione della presente sentenza sino all’effettivo pagamento;

  1. b) condanna

solidalmente le convenute – per le causali e con i limiti specificati in parte motiva-al pagamento delle seguenti somme a titolo di danno morale da perdita parentale:

– in favore dei figli, C.F. e C.R.,

della somma di Euro 176.600, per ognuno;

– in favore del coniuge, C.P.,

della somma di Euro 274.587,60;

– in favore del genitore, I.F.B.,

di Euro 169.165,57,

nonché su tutti gli importi , liquidati in valori attuali, degli interessi legali sulla somma devalutata alla data del decesso ( 14.9.2009) e rivalutata annualmente secondo gli indici ISTAT indicati in motivazione sino alla data di pubblicazione della presente sentenza nonché degli interessi legali sull’importo complessivo dal giorno della pubblicazione della presente sentenza sino all’effettivo pagamento;

  1. c) condanna

solidalmente le convenute al pagamento della somma di Euro 12.200,00, a titolo di danno patrimoniale per spese sostenute, con rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat per le famiglie di impiegati operai ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata dalla data del decesso sino alla data di pubblicazione della presente sentenza nonché degli interessi legali sull’importo complessivo dal giorno della pubblicazione della presente sentenza sino all’effettivo pagamento;

  1. d) accoglie,

la domanda di garanzia proposta nei confronti della U.S.A. S.p.A., e, per l’effetto, dichiara tale compagnia obbligata a garantire la GESTIONE LIQUIDATORIA ex U. 9- A.P. per le somme sopra indicate, entro i limiti della quota di coassicurazione (49%) e del massimale di polizza e quindi nei limiti della quota del 49% del danno risarcibile e comunque entro l’importo massimo di Euro 75.919,16, pari alla quota del 49% del massimale di Euro 154.937,07 e; dedotta la franchigia di cui alle condizioni di polizza;

  1. e) condanna,

solidalmente le convenute al pagamento, in favore degli attori, delle spese processuali, liquidate in Euro 27.252,00, per compenso professionale (compreso aumento per la difesa di più parti nella misura del 60% ai sensi dell’art. 4, comma 2, D.M. n. 55 del 2014) ed Euro 1729,80 per esborsi e spese di CTP, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali nella misura di legge e di CTU separatamente liquidata.

  1. f) condanna,

la terza chiamata a rimborsare le spese processuali sostenute dalle convenute, , liquidate in complessivi Euro 16.900,00, per compenso professionale, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali nella misura di legge nonché di CTU separatamente liquidata, compensandole per metà

Conclusione

Così deciso in Prato, il 21 gennaio 2021.

Depositata in Cancelleria il 22 gennaio 2021.

 

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