OTTIENI RISARCIMENTO !! MALASANITA’ !! RISARCIMENTO MALASANITA’ !!! BOLOGNA IMOLA RAVENNA FORLI CHIAMA AVVOCATO BOLOGNA
Vuoi ottenere un risarcimento per i danni che hai subito a causa di un errore medico, Se vuoi ottenere un risarcimento per i danni che hai subito per colpa medica Se vuoi ottenere un risarcimento per i danni che hai subito per malasanita’OTTIENI RISARCIMENTO !! MALASANITA’ !! RISARCIMENTO MALASANITA’ !!! CHIAMA AVVOCATO BOLOGNA
Avvocato esperto danni malasanità Bologna, offre su tutto il territorio nazionale asssitenza legale per danni da malasanità, materia assai complessa perché richiede un attento lavoro da parte del medico legale che redige la perizia e l’avvocato che assiste il cliente!
RISARCIMENTO DANNI DA MALASANITÀ
Ha diritto ad essere risarcito colui che, a seguito di un fatto illecito o di un inadempimento contrattuale, ha patito un danno.
In materia di responsabilità medica e/o sanitaria, il danno da risarcire riguarda ovviamente il bene “salute” oppure, in caso di decesso, il bene “vita”.
E’ difficile ottenere un risarcimento per danno medico?
Non lo nego si, a meno che non sia chiara ed evidente la responsabilità medica o della strattura sanitaria
In quanto tempo si riesce ad ottenerlo?
Da pochi mesi ad anni, in primo luogo occorre che il danno venga accertato da medici competenti che scrivano sulla responsabilità di loro colleghi e non è facile
Maggiori tipi di danno
- Avvocato esperto risarcimento interventi eseguiti in modo errato;
- Avvocato esperto risarcimento mancata o ritardata diagnosi;
- Avvocato esperto risarcimento mancato esame o esame eseguito in modo improprio;
- Avvocato esperto risarcimento dosaggio di farmaci non corretto;
- Avvocato esperto risarcimento interventi non tempestivi / non corretti con conseguente perdita di chance di guarigione o sopravvivenza per il paziente
- Avvocato esperto risarcimento manovre e pratiche errate in sala parto con danni gravi o danni gravissimi neurologici al neonato
- Avvocato esperto risarcimento mancanza di consenso informato sui rischi dell’intervento o della terapia
Quanto costa l’assistenza per portare avanti una richiesta di risarcimento per malasanità?
Occorre il costo della perizia medica e invece con l’avvocato ci si puo’ accordar e su un pagamento al momento dell’avvenuto risarcimento
Se tu o un tuo familiare siete stati vittima di un errore medico potreste aver diritto a un risarcimento chiama subito l’avvocato Sergio Armaroli l’esperto !!importante.
Se tu o un tuo familiare siete stati vittima di un errore medico potreste aver diritto a un risarcimento chiama subito l’avvocato Sergio Armaroli l’esperto !!importante.
Risarcimento del danno: l’accertamento tecnico preventivo
In alternativa, si potrebbe esperire il tentativo di conciliazione tra le parti tramite l’accertamento tecnico preventivo, effettuato da parte di un consulente tecnico d’ufficio, c.d Ctu, nominato dal tribunale competente.
Cosa deve fare il CTU?
Il Ctu dovrà accertare l’an e il quantum dell’eventuale responsabilità medica, e su tali valutazioni si baserà la decisione dell’avvocato del paziente, rispetto all’opportunità di intraprendere il giudizio.
Chi deve partecipare al procedimento ?
Al procedimento di consulenza tecnica preventiva devono partecipare obbligatoriamente tutte le parti, compresa l’assicurazione, le quali hanno l’obbligo di presentare al danneggiato un’offerta di risarcimento del danno o di comunicare i motivi per cui si ritenga non dovuta l’offerta. La Giurisprudenza Italiana contempla la possibilità prima della causa di promuovere un accertamento tecnico preventivo, qualora ricorrano condizioni di urgenza, quali ad esempio il pericolo di deperimento o alterazione delle prove, la possibilità di modifica dei luoghi e delle circostanze, la necessità di provvedere al ricondizionamento dello stato di salute, ovvero la necessità di effettuare interventi di qualsiasi tipo, che consentano il ripristino con urgenza dello status quo ante o comunque l’eliminazione della situazione di pericolo o di pregiudizio che si è venuta a creare in seguito all’evento contestato.
Risarcimento del danno: l’accertamento tecnico preventivo
In alternativa, si potrebbe esperire il tentativo di conciliazione tra le parti tramite l’accertamento tecnico preventivo, effettuato da parte di un consulente tecnico d’ufficio, nominato dal giudice
Il Ctu dovrà accertare l’an e il quantum dell’eventuale responsabilità medica, e su tali valutazioni si baserà la decisione dell’avvocato del paziente, rispetto all’opportunità di intraprendere il giudizio.
Se tu o un tuo familiare siete stati vittima di un errore medico potreste aver diritto a un risarcimento chiama subito l’avvocato Sergio Armaroli l’esperto !!importante.
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Vuoi ottenere un risarcimento per i danni che hai subito
a causa di un errore medico, Se vuoi ottenere un risarcimento per i danni che hai subito per colpa medica Se vuoi ottenere un risarcimento per i danni che hai subito per malasanita’
Nel caso in cui il medico, cui la gestante si sia rivolta per ottenere una diagnosi sulle condizioni del feto, ometta di riscontrarne una malformazione, così impe- dendo alla donna di esercitare in modo consapevole il suo diritto di autodeter- minarsi in ordine alla scelta di interrompere o meno la gravidanza, a chi spetta il risarcimento del danno? È possibile, in particolare, riconoscere al nato un auto- nomo diritto al risarcimento del danno?
A maggior ragione può presumersi la sofferenza dei genitori, che peraltro non è nemmeno messa in discussione dai convenuti, i quali hanno anzi già provveduto a corrispondere a questi ultimi un importo a titolo di risarcimento del danno.
Certamente maggiore sarà stata la sofferenza della madre M. B. la quale, oltre al dolore per la perdita del figlio, ha vissuto in prima persona e “sulla propria pelle” i momenti drammatici che hanno preceduto il decesso del nascituro, sino alla cessazione del battito fetale. E’poi evidente che durante tutto il periodo della gestazione la madre avverte fisicamente la presenza e l’evolversi di una vita nel suo grembo e, quindi, si determina con il nascituro una particolare relazione che, se interrotta, non può che determinare una sofferenza particolarmente intensa, certamente maggiore di quella che viene generalmente patita dal padre
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MANTOVA
SEZIONE DISTACCATA DI CASTIGLIONE DELLE STIVIERE
in persona del Dottor Luigi Pagliuca in funzione di giudice unico
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 6018 del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 2003
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata in data 25.1.03 e 27.1.03 P. S., M. B., M. S., S. M. R., G. B. ed A. B. convenivano in giudizio i medici A. T. e S. D. G. nonché l’Azienda Ospedaliera X Y per sentirli condannare al risarcimento di tutti i danni – patrimoniali e non patrimoniali – patiti a causa della mancata nascita di N. S., imputabile a condotta imperita dei medici convenuti, i quali durante il parto non si erano avveduti della sofferenza fetale in corso e, invece di procedere a taglio cesareo, avevano insistito nel tentativo di indurre il parto per via fisiologica, determinando il decesso del feto a causa di una sindrome asfittica.
Affermavano inoltre gli attori:
- a) di essere i genitori (P. S. e M. B.), i nonni paterni (M. S. e S. M. R.) ed i nonni materni (G. B. ed A. B.) del nascituro;
- b) che la responsabilità dei medici convenuti era già stata accertata in sede penale con sentenza n. 62/02 in data 1/03/02 del GIP presso il Tribunale di Mantova, pronunciata a seguito di istanza di patteggiamento degli imputati ex art. 444 cpp;
- c) che tutti i convenuti erano tenuti sia contrattualmente che extracontrattualmente al risarcimento di tutti i danni derivati in capo agli attori a causa del reato;
- d) che, quanto ai genitori del nascituro, si era determinato un pregiudizio sia patrimoniale – per la mancata percezione dei contributi economici che il figlio avrebbe loro presumibilmente in futuro apportato -, sia non patrimoniale – a titolo di danno morale soggettivo per l’enorme sofferenza patita a causa della mancata nascita ed a titolo di danno esistenziale per la mancata instaurazione di un rapporto familiare ed affettivo con il nascituro, con conseguente peggioramento della qualità della loro vita;
- e) che anche i nonni avevano patito grande sofferenza per la mancata nascita del nipote ed avevano perciò anche loro diritto a vedersi risarcito il danno morale patito;
- f) che prima dell’instaurazione del giudizio i convenuti avevano corrisposto ai soli genitori l’importo di euro 170.430,00, non esaustivo della pretesa creditoria azionata e quindi accettato solo a titolo di acconto sul maggior risarcimento dovuto
Tutto ciò premesso gli attori concludevano chiedendo la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno che quantificavano nella misura di euro 350.000,00 per ciascuno dei genitori e di euro 75.000,00 per ciascuno dei nonni.
I convenuti, costituitisi in giudizio, non contestavano l’esclusiva responsabilità dei medici convenuti in ordine alla mancata nascita del piccolo N., né contestavano il diritto dei due genitori al risarcimento del danno non patrimoniale patito.
Affermavano tuttavia che l’importo di euro 170.430,00 già versato era ampiamente satisfattivo di ogni pretesa dei genitori, i quali non avevano diritto al risarcimento di alcun tipo di danno patrimoniale. Quanto ai nonni contestavano in radice la loro legittimazione a pretendere importi a titolo di risarcimento del danno morale.
Su queste premesse i convenuti concludevano chiedendo il rigetto di ogni ulteriore richiesta risarcitoria avanzata dagli attori.
La causa, istruita solo documentalmente, veniva trattenuta in decisione all’udienza del 13.7.05, sulla base delle conclusioni delle parti come riportate in epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 – Non è contestato che il decesso del nascituro N. S., quando ancora si trovava nel ventre materno ed era in atto l’espulsione del feto, sia stato causato dalla condotta imperita dei medici convenuti i quali non si erano avveduti tempestivamente della grave sofferenza fetale in corso e non avevano perciò provveduto urgentemente a parto chirurgico (taglio cesareo) insistendo invece in pratiche volte ad indurre il parto per via fisiologica e, così facendo, determinando la sindrome asfittica da cui è purtroppo derivato l’evento letale.
I convenuti dott. T. e dott. D. G., quindi, sono senz’altro tenuti a risarcire i danni conseguenti al decesso del feto e, quindi, alla mancata nascita di N. S.. Ai sensi dell’art. 2049 c.c. il medesimo obbligo grava anche sull’Azienda ospedaliera X Y di cui i predetti medici erano pacificamente dipendenti.
2 – Dalle sommarie informazioni testimoniali e dagli interrogatori resi dai convenuti nel corso del procedimento penale emerge chiaramente che il decesso del piccolo N. era avvenuto quando il feto si trovava ancora nel grembo materno (cfr atti del procedimento penale prodotti da parte attrice sub doc. 1). Della circostanza si dà atto anche nella perizia redatta dal prof. Silingardi e dal prof. Volpe in sede di incidente probatorio, laddove si afferma testualmente che “alle ore 11.40 veniva estratto, con taglio cesareo, il feto già morto” (doc. 2 di parte attrice).
Pertanto, poiché il decesso era avvenuto prima della nascita (ossia prima del completamento del parto con l’estrazione del feto dal grembo materno e la recisione del cordone ombelicale) il fatto come sopra descritto integra chiaramente l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 17, c. 1 della legge 194/78 (interruzione colposa della gravidanza).
Pertanto, giusto il disposto dell’art. 185, c. 2 cpc, i convenuti sono tenuti al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali che il reato abbia cagionato a terzi.
3 – La norma non indica criteri per l’individuazione dei soggetti legittimati a richiedere il risarcimento, ossia delle persone che possono considerarsi danneggiate dal reato.
Ritiene in proposito questo giudice che, stante l’assenza di limitazioni espresse, astrattamente legittimato a richiedere il risarcimento possa essere chiunque provi di aver effettivamente subito un pregiudizio patrimoniale e/o non patrimoniale quale conseguenza del reato.
Non appare quindi operazione corretta e conforme al dettato legislativo quella volta all’individuazione ex ante di categorie di soggetti astrattamente legittimati a richiedere il risarcimento in contrapposizione ad altri a cui non debba essere riconosciuto analogo diritto, dovendosi piuttosto verificare in concreto, e quindi con accertamento di fatto che tenga conto delle specificità di ogni singolo caso, l’effettiva esistenza del pregiudizio lamentato quale conseguenza del reato.
Per evitare la proliferazione di richieste pretestuose e, quindi, per operare un’adeguata selezione delle pretese meritevoli di accoglimento il giudice dovrà pretendere e la parte istante dovrà fornire la prova rigorosa dell’effettiva esistenza del danno. Prova che sarà tanto più gravosa, quanto più sia flebile e sfumata la relazione esistente tra la vittima del reato ed il richiedente.
Il che, per converso, non preclude certo al giudice la possibilità di avvalersi di presunzioni nel caso in cui tra la vittima ed il danneggiato sussista invece una particolare e qualificata relazione affettiva o familiare, tale da far ritenere notoriamente sussistente, secondo l’id quod plerumque accidit e sempre che non siano emersi elementi di segno contrario, l’effettiva esistenza del pregiudizio di cui si chiede il risarcimento.
Presunzione a cui il giudice potrà fare ricorso specie laddove si verta in ipotesi di danni di natura non patrimoniale (come nel caso emblematico della transeunte sofferenza conseguente al reato che integra il c.d. danno morale soggettivo), ossia di pregiudizi spesso privi di evidenti sintomi rilevatori esterni e quindi difficilmente accertabili in modo oggettivo.
4 – Ciò premesso, avendo specifico riguardo all’ipotesi per cui è causa, non vi è dubbio che la sofferenza per la mancata nascita del figlio sia senz’altro e massimamente avvertita proprio dai genitori che quella nascita avevano desiderato, programmato, voluto e ormai ritenuto imminente e certa.
La mancata nascita del figlio tanto atteso determina senz’altro dolore e delusione per la frustrazione dei progetti e delle aspettative che l’attesa del nuovo nato aveva determinato durante il periodo di gestazione.
D’altra parte non vi è ragione di escludere che analoga sofferenza, seppur evidentemente di intensità di gran lunga inferiore, venga patita anche dai nonni, specie laddove, come nella fattispecie, il nascituro sia il primo nipote.
Può infatti ritenersi comunemente noto e, quindi, di comune esperienza che nella generalità dei casi proprio i nonni (oltre che i genitori) attendano con particolare apprensione e desiderio la nascita del nipote, col quale dopo la nascita viene ad instaurarsi relazione privilegiata. Infatti, specie al giorno d’oggi in cui anche la madre svolge attività lavorativa, i nipoti vengono spesso affidati ai nonni, con cui trascorrono molto del loro tempo. Tra nonno e nipote viene quindi generalmente a determinarsi una particolare relazione affettiva, fonte di vicendevole felicità e gratificazione.
Il che implica che i nonni quasi sempre vivano il periodo della gestione con fremente attesa della nascita del nipote, riponendo in essa grandi aspettative di futura ed imminente gratificazione affettiva ed esistenziale.
Pertanto, in assenza di elementi che facciano ritenere il contrario, può senz’altro presumersi che l’improvvisa ed inaspettata mancata nascita del nipote tanto atteso determini anche nel nonno un dolore di intensità tale da poter essere risarcito a titolo di danno morale soggettivo.
Nella fattispecie, non sono stati allegati né sono emersi elementi idonei a far ritenere che gli attori M. S., S. M. R. (nonni paterni del piccolo N.), G. B. e A. B. (nonni materni) non avessero atteso la nascita del nipote con l’apprensione e le aspettative che comunemente si determinano in capo a detta categoria di parenti, di talchè, considerato anche che trattatasi del primo nipote, può senz’altro presumersi che a causa della mancata nascita del piccolo N. sofferenza vi sia stata, con conseguente diritto al risarcimento del danno morale soggettivo.
A maggior ragione può presumersi la sofferenza dei genitori, che peraltro non è nemmeno messa in discussione dai convenuti, i quali hanno anzi già provveduto a corrispondere a questi ultimi un importo a titolo di risarcimento del danno.
Certamente maggiore sarà stata la sofferenza della madre M. B. la quale, oltre al dolore per la perdita del figlio, ha vissuto in prima persona e “sulla propria pelle” i momenti drammatici che hanno preceduto il decesso del nascituro, sino alla cessazione del battito fetale. E’poi evidente che durante tutto il periodo della gestazione la madre avverte fisicamente la presenza e l’evolversi di una vita nel suo grembo e, quindi, si determina con il nascituro una particolare relazione che, se interrotta, non può che determinare una sofferenza particolarmente intensa, certamente maggiore di quella che viene generalmente patita dal padre.
Tutti gli attori, quindi, hanno diritto al risarcimento per il danno morale soggettivo patito, nella misura di cui si dirà oltre.
5 – Quale ulteriore voce di danno non patrimoniale gli attori P. S. e M. B. hanno chiesto il risarcimento del pregiudizio conseguente alla lesione del rapporto parentale con il figlio nascituro.
Come è noto l’interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di prossimo congiunto non è quello alla mera conservazione del semplice rapporto di parentela con la persona deceduta, bensì quello all’intangibilità degli affetti e della reciproca solidarietà che con detto soggetto si vengono ad instaurare nell’ambito della famiglia, quindi alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Detto altrimenti, perché sussista l’interesse di cui si afferma la lesione non è sufficiente che esista rapporto di parentela tra deceduto e richiedente il risarcimento, essendo invece necessario anche che tra i medesimi soggetti intercorressero i rapporti di affetto, reciproco affidamento e frequentazione che, secondo il comune sentire, costituiscono il proprium del suddetto rapporto parentale.
Il che presuppone che il parente venuto a mancare, non solo sia nato, ma che con lo stesso si siano venuti ad istaurare nel tempo rapporti di vita quotidiana e frequentazione dalla cui interruzione derivi la lesione dell’interesse in considerazione e, quindi, il pregiudizio in capo al soggetto che invoca il risarcimento.
Pertanto laddove, come nella fattispecie, il soggetto non sia neppure nato non può ritenersi sussistente alcun rapporto parentale nell’accezione sopra evidenziata, di talchè deve in radice escludersi la ricorrenza della voce di danno richiesta dagli attori.
6 – E’invece inammissibile la pretesa risarcitoria avanzata dall’attrice M. B. per l’asserita lesione dell’interesse costituzionalmente tutelato all’autodeterminazione consapevole relativamente agli interventi medici (inerenti alla modalità del parto) a cui sottoporsi, tra quelli in concreto possibili.
La relativa pretesa risarcitoria è stata infatti avanzata per la prima volta in comparsa conclusionale ed è quindi del tutto tardiva.
7 – Gli attori P. S. e M. B. hanno infine lamentato un danno patrimoniale per la perdita delle future contribuzioni economiche che il figlio N. avrebbe loro apportato.
Detto danno, in astratto senz’altro risarcibile (Cass. 3929/69, Cass. 2063/75, Cass. 4137/81, Cass. 11453/95, Cass. 1085/98, Cass. 15103/02), presuppone comunque che sia raggiunta la prova, quantomeno in termini di probabilità, che i genitori avrebbero avuto in futuro la necessità di avvalersi della contribuzione economica del figlio – da una parte – e che quest’ultimo sarebbe stato in grado di farvi fronte – dall’altra.
Nella fattispecie, tenuto conto dell’attività lavorativa svolta dagli istanti (avvocato lo S., insegnante la B.) non vi è ragione di dubitare che gli stessi abbiano ed avrebbero conservato mezzi ampiamente sufficienti per provvedere autonomamente al loro sostentamento e non è quindi possibile presumere la necessità per gli stessi di ricorrere in futuro all’aiuto economico del figlio.
In difetto di prova del danno, la pretesa risarcitoria avanzata sul punto non può quindi essere accolta.
8 – In conclusione a tutti gli attori spetta unicamente il risarcimento del danno morale soggettivo patito in conseguenza della mancata nascita del piccolo N..
Quanto ai criteri di liquidazione di detto danno, vertendosi in ipotesi di danno non patrimoniale, in quanto tale privo di contenuto economico, non potrà che procedersi con valutazione equitativa (artt. 1226 e 2056 c.c.), tenendo conto del momento in cui è avvenuta la cessazione della gravidanza, dell’intensità del vincolo familiare che si sarebbe venuto a creare con il nascituro, della consistenza più o meno ampia del nucleo familiare residuo, dell’età dei genitori.
9 – Quanto ai genitori può aversi riguardo, quale criterio orientativo, alle tabelle di quantificazione del danno non patrimoniale elaborate dall’osservatorio presso il Tribunale di Milano e recepite da questo ufficio giudiziario, anche se relative alla diversa ipotesi del pregiudizio non patrimoniale patito dal genitore per la morte del figlio che sia già nato.
Dette tabelle, per il caso di morte del figlio, prevedono una forbice risarcitoria da un minimo di euro 100.000,00 ad un massimo di euro 200.000,00 per ciascun genitore.
Tendenzialmente, nell’individuare l’importo del risarcimento adeguato al caso concreto all’interno della suddetta fornice risarcitoria, il giudice terrà conto della durata della relazione affettiva tra la vittima ed il parente superstite, riconoscendo un risarcimento minore nell’ipotesi in cui il decesso sia avvenuto in tenera età e maggiore nel caso in cui l’uccisione del figlio sia avvenuta in età più avanzata. (e specie se esso sia ancora convivente con i genitori). E’infatti noto che la sofferenza patita dal congiunto è tanto maggiore quanto più si è avuta la possibilità di instaurare ed approfondire con il tempo stabili rapporti affettivi con il deceduto, il quale diviene un punto di riferimento la cui perdita ha inevitabili riflessi negativi.
Pertanto, nell’ipotesi di decesso del figlio appena nato dovrà tendenzialmente optarsi per una quantificazione del danno corrispondente o comunque vicina al minimo della suddetta forbice risarcitoria.
Di conseguenza, poiché l’ipotesi del feto deceduto solo al termine della gravidanza (come avvenuto nella fattispecie) è del tutto equiparabile a quella del figlio morto nei giorni o nel periodo successivo al parto, appare corretto orientare la valutazione equitativa del danno avendo quale riferimento l’importo minimo della suddetta forbice risarcitoria.
Ovviamente, per le ragioni sopra indicate, alla madre M. B. dovrà essere corrisposto un importo superiore rispetto a quello dovuto al marito, potendosi senz’altro ritenere che la sofferenza da lei patita sia stata di maggiore intensità.
Ciò premesso, tenuto conto ed applicati i criteri ora individuati, appare equo quantificare il risarcimento dovuto a M. B. e M. S. – liquidato all’attualità e già comprensivo degli interessi maturati sino alla data di sottoscrizione della presente sentenza – nell’importo, rispettivamente di euro115.000.000 ed euro 105.000.000.
I convenuti hanno già corrisposto ai predetti attori in data 16.5.02 (doc. 1 di parte convenuta) l’importo di euro 170.430,00 (euro 85.215,00 per ciascun genitore) che, per operare con termini omogenei, va rivalutato anch’esso all’attualità ed ammonta oggi ad euro 182.883,00 (euro 91.441,50 per ciascun genitore).
Di conseguenza, tenuto conto dell’acconto versato, i convenuti vanno condannati, in solido, al pagamento a favore di M. B. del residuo importo di euro 23.558,50 (115.000,00 – 91.441,50), ed a favore di M. S. della residua somma di euro 13.558,50 (105.000,00 – 91.441,50).
10 – Quanto invece ai nonni M. S., S. M. R., G. B. ed A. B. appare equo quantificare il pregiudizio da ciascuno di essi patito nella misura di euro 10.000,00 a testa, già rivalutata all’attualità e comprensiva di interessi sino alla sottoscrizione della presente sentenza.
11- Le spese seguono la soccombenza e, pertanto, i convenuti vanno condannati in solido al rimborso delle spese di lite sostenute dagli attori, che si liquidano (avuto riguardo unicamente all’importo riconosciuto agli attori in aggiunta all’acconto ricevuto prima del giudizio) nell’importo complessivo di euro 10.200,00, di cui euro 2.000,00 per spese (comprensive di quelle forfetarie 12,5%), euro 2.200,00 per diritti ed euro 6.000,00 per onorario, oltre iva e cpa.
Cassazione Civile, Sent. n.8023 del 21/05/2012: l’assistente ospedaliero è responsabile, parimenti al primario, di qualsiasi danno sofferto dal paziente nel corso della degenza in ospedale, posto che fin dal momento in cui entra in contatto col paziente ne diviene responsabile per effetto del rapporto contrattuale che lo lega alla struttura sanitaria: la struttura risponde a titolo di responsabilità oggettiva del fatto dei propri ausiliari (siano essi primari o assistenti ospedalieri, art.1228 c.c.) mentre l’operatore sanitario risponde sempre personalmente per colpa ovvero per dolo.
[responsabilità sanitaria – responsabilità della struttura sanitaria per il malfunzionamento delle apparecchiature mediche – responsabilità dell’operatore sanitario per omessa vigilanza]
Cassazione Civile, Sent. n.10616 del 26/06/2012: la struttura sanitaria risponde in solido con gli operatori sanitari dei danni cagionati ai pazienti dal malfunzionamento degli strumenti; infatti, l’operatore sanitario è tenuto a vigilare sul corretto funzionamento di qualsiasi macchinario / strumentazione che utilizza per curare il paziente.
LE SEZIONI UNITE E LA COMPARAZIONE GIURIDICA
Corte di Cassazione, SS. UU, 22 dicembre 2015, n. 25767
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 15 maggio 1997 i sigg. E.F. e M.B. convenivano dinanzi al Tribunale di Lucca il prof. A.V., primario di ginecologia presso l’ospedale San F.D.P., nonché la direzione generale dell’Azienda Usi n. 2 ed il dott. A.S., primario del laboratorio delle analisi chimiche microbiologiche del predetto ospedale, esponendo
– che la signora B. aveva partorito in data 2 dicembre 1995 la figlia C., risultata affetta da sindrome di Down;
– che in precedenza, in data 5 luglio 1995, aveva eseguito esami ematochimici a scopo di indagine diagnostica prenatale, proprio al fine di identificare tale eventuale patologia;
– che il primario, prof. V. inviava la paziente al parto, omettendo, colposamente, ulteriori approfondimenti, resi necessari dai valori non corretti risultanti dagli esami.
Costituitosi ritualmente, il prof. V. negava la propria responsabilità, assumendo che i risultati degli esami non erano tali da indurre al sospetto della sindrome di Down nel feto e chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa la compagnia Assitalia s.p.a., presso la quale era assicurato nell’esercizio della professione.
Dopo il conforme provvedimento dei giudice istruttore si costituivano l’Azienda Usi n.2, il dr. A.S., nonché le Assicurazioni d’Italia s.p.a., che contestavano [a domanda sia nell’an che nel quantum debeatur.
Dopo lo scambio di memorie ex artt. 183- 1.84 cod. proc. civile, la causa, senza ulteriore istruttoria, veniva decisa con sentenza 13 ottobre 2003, di rigetto della domanda, con compensazione delle spese.
Il successivo gravame era respinto dalla Corte d’appello di Firenze con sentenza 15 maggio 2008.
La corte territoriale motivava C
– che il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, bensì era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della
gravidanza) per ricorrere all’interruzione della gravidanza;
— che questa, nello spirito della legge, era consentita per evitare un pericolo per la salute della gestante e subordinata a requisiti specifici, in assenza dei quali l’aborto costituiva reato;
– che in particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, occorreva che la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinasse un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, su cui incombeva il relativo onere della prova (art.6 1.194/1978);
– che, sul punto, gli attori non avevano fornito neppure delle specifiche allegazioni, limitandosi ad affermare che corrispondeva a regolarità causale il rifiuto della gestante, se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza; né era ammissibile supplire al difetto di prova mediante la richiesta consulenza tecnica d’uffici;
che si doveva pure negare la legittimazione attiva della figlia minore, sulla base della prospettazione di un diritto a non nascere privo di ricoonoscimento nell’ordinamento giuridico; come pure l’ammissibilità dei cd. aborto eugenetico, in assenza di alcun pericolo per la salute della madre, una volta esclusa ogni responsabilità del medico nella causazione della malformazione del feto.
Avverso la sentenza, notificata il 6 ottobre 2008, i sigg. F. e B., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore C., proponevano ricorso per cassazione, articolato in due motivi, notificato il 5 dicembre 2008.
Deducevano C
1) la violazione degli articoli 1176 e 2236 cod. civ. e dell’art.6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, nel riversare sulla gestante l’onere della prova de[ grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dipendente dalle malformazioni del nascituro: laddove l’impedimento all’esercizio dei diritto di interrompere la gravidanza era di per sé sufficiente a integrare la responsabilità dei medico con il conseguente suo obbligo al risarcimento;
2) la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405 nella negazione, alla figlia minore, del diritto ad un’esistenza sana e dignitosa: nella specie, compromessa dai pregiudizi correlati alla presenza di malformazioni genetiche.
Resistevano congiuntamente l’Azienda Usi 2 di Lucca, il dr. A.S., nonché, con distinto controricorso, il prof. A.V..
I ricorrenti ed il prof. V. depositavano memoria illustrativa ex art.378 cod. proc. civ.
La terza sezione civile, cui era stato assegnato ii ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimità, rimetteva la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite.
In particolare, il collegio poneva in evidenza che la tematica della cd. nascita indesiderata aveva dato luogo, in ordine alla questione dell’onere probatorio ad un primo e più risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarità causale che [a gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni dei feto (Cass. numero 6735/2002; Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., sez.3, 4 gennaio 2010 n.13; Cass., sez.3, 10 novembre 2010 n.22.837; Cass., sez.3, 13 luglio 201.1 n.15.386; cui si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzione semplice, ponendo a carico della parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni dei concepito, avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n.16754; Cass., sez.3, 22 marzo 2013 n.7269; Cass., sez.3, 10 dicembre 2013 n. 27.528; Cass., sez.3, 30 maggio 2014 n.12.264).
In ordine al secondo motivo di ricorso, rilevava un contrasto ancora più marcato sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico dei medico e della struttura sanitaria: alla tesi negativa sostenuta da Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., se.3, 14 luglio 2006 n. 16.123, Cass., sez.3, 11 maggio 2009 n.10.741 faceva riscontro la contraria opinione che escludeva il requisito della soggettività giuridica dei concepito e la sua legittimazione, dopo la nascita, a far valere la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, causa dei proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se egli non fosse nato (Cass., sez.3, 3 maggio 2011 n.9700; Cass.,sez.3 2 ottobre 2012 n.16.754).
Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all’udienza del 22 settembre 2015 sulle conclusioni del Procuratore generale e dei difensori in epigrafe riportate.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell’onere della prova dei grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro.
Punto di partenza della relativa disamina è l’interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.
Il diniego, in linea di principio, dell’interruzione di gravidanza come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite, e “a fortiori” in funzione eugenica, emerge, infatti, inequívoco già dall’art.1, contenente l’enunciazione solenne della gerarchia dei valori presupposta dal legislatore, rivelatrice della natura eccezionale delle ipotesi permissive; fuori delle quali l’aborto resta un delitto (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite’). G
In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza (art.6: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”).
Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell’embrione, che persona deve ancora diventare (Corte cost. 18 febbraio 1975 n.20).
In questa cornice normativa, la censura dei ricorrente qui in scrutinio ripropone l’annoso problema del riparto dell’onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit. Con l’espressione wrongful life si indica, invece, la causa petendi dell’azione esercitata in proprio dal figlio: sintagmi, inaugurati sembra – dalla Appellate Cort dell’Illinois nella sentenza 3 Aprile 1963, Zepeda v. Zepeda, in un caso in cui l’attore aveva convenuto, per danni, il padre, responsabile di averlo condannato ad una vita infelice, quale figlio illegittimo).
L’impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all’art.6, imputabile a negligente carenza informativa da parte dei medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l’intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto.
Occorre però che l’interruzione sia legalmente consentita – e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna – giacché, senza il concorso di tali presupposti, l’aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge.
Oltre a ciò, dev’essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti.
Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un
fatto complesso; e cioè, da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia dei nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per [a salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest’ultima.
In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova alcuni elementi che si ritengano rappresentativi dell’insieme e dai quali sia perciò possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell’intero fatto complesso.
Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato – ove il convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della fattispecie — è costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un’intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.
L’ovvio problema che ne scaturisce è che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione immediata e diretta; sicché non si vpuò dire che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l’onere probatorio – senza dubbio gravoso, vertendo su un’ipotesi, e non su un fatto storico – può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare.
Il passo successivo consiste nell’applicare la concezione quantitativa o statistica della probabilità, intesa come frequenza di un evento in una serie di possibilità date: espressa dall’ormai consolidato parametro del “più probabile, che no”.
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Firenze, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che l’onere della prova di tutti presupposti della fattispecie di cui all’art.6 ricadesse sulla gestante; inclusa quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la scelta abortiva: ciò che implica un impervio accertamento induttivo anche delle convinzioni di ordine umano, etico ed eventualmente religioso, oltre che delle condizioni di salute psico-fisica esistenti all’epoca, che avrebbero concorso a determinare l’incoercibile decisione di interrompere, o no, la gravidanza.
Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova positiva, neppure la consulenza tecnica d’ufficio fosse ammissibile; e la domanda dovesse essere quindi respinta in limine.
Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex art.2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit) – con un riparto che appare dei resto rispettoso dei canone della vicinanza della prova – si palesa manchevole, invece, l’ omessa valutazione – che sembra adombrare un’esclusione aprioristica – della possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva.
E bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia pure juris tantum: la cui consacrazione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si risolve in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte dall’onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto alla premessa fattuale (non diversamente che in caso di non
contestazione dei fatto, che pure comporta la relevatio ab onere probandi; pur se di quest’ultima sia dubbia l’irreversibilità: art.345,
secondo comma, cod. proc. civ.). Nulla del genere ë infatti riscontrabile nella presente fattispecie, in cui il legislatore non esime in alcun modo la madre dall’onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’interruzione della gravidanza, nonché della sua conforme volontà di ricorrervi.
Ci si riferisce, invece, alla praesumptio hominis, rispondente ai
requisiti di cui all’art. 2729 cod. civile, che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit – che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera dei notorio (art.115, secondo comma, cod. proc. civ.) – ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche – emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione dei feto, ecc..
In questa direzione il tema d’indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale. G
E’ da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto, mai dissimulerebbe l’inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum.
In conclusione, la statuizione della Corte d’appello di Firenze si e arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del riparto dell’onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.
La sentenza dev’essere quindi cassata sul punto; restando impregiudicato l’accertamento susseguente dell’effettivo evento di danno conseguito al mancato esercizio dei diritto di scelta, per eventuale negligenza dei medico curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno ín re ípsa – quale espressamente prospettato dai ricorrenti – occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna , ex art.6 lett. b) 1. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio.
Esula, altresì, dal thema decidendum di questa fase di legittimità il problema dell’identificazione dell’eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al fatto colposo dei sanitari (artt.1223 , 2056 cod. civ.): se limitato allo stesso danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell’interruzione di gravidanza — restando cioè interno alla fattispecie di cui all’art.6, in considerazione della natura eccezionale della norma – o se sia esteso a tutti danniconseguenza riconducibili, in tesi generale, all’ordinaria responsabilità aquiliana.
Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, al risarcimento del danno per l’impossibilità di un’esistenza sana e dignitosa.
E’ questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due indirizzi di pensiero, di ispirazione anche metagiuridica, contesta di .riflessioni financo filosofiche ed etico-religiose, di irriducibile antinomia: segnati spesso da accese intonazioni polemiche in una pubblicistica ideologicamente schierata, in favore o contro la presunzione jurís et de jure di preferibilità della vita, per quanto malata (problematica, che investe anche temi diversi, come quello della morte pietosa).
Anche se debba escludersi un approccio di carattere eminentemente giuspolitico – che appartiene al legislatore: spettando, per contro, al giudice l’interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel più completo approfondimento delle potenzialità evolutive in essa insite – non e seriamente contestabile che sulla giurisprudenza pregressa, anche straniera, abbiano influito, ben oltre l’ordinario, considerazioni antropologiche e soprattutto di equità, intesa come ragionevole attenuazione e modificazione apportata alla legge in virtù di speciali circostanze.
Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all’art.1 cod. civ. (“La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”), conforme ad un pensiero giuridico plurisecolare. C
Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che riconoscono diritti in favore del nascituro, concepito o non concepito, subordinati all’evento della nascita (ibidem, secondo comma): quale deroga al principio generale secondo cui non può reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora esistente (artt.254, 320, 462, 784), o non era più (arg. ex art.4 cod. civ.).
Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione riuscirebbe, “prima facie” in contrasto con il principio generale sopra richiamato.
L’argomento, apparentemente preclusivo in limine, non si
palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto è stato superato da quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita dei soggetto.
E’ vero, in tesi generale, che l’attribuzione di soggettività giuridica è appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa, talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all’interno dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge, espressive di valori dell’ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.): eventualmente riesumando la dicotomia storica tra giurisprudenza degli interessi
(Interessenjurisprudenz), di ispirazione evolutiva, e giurisprudenza dei concetti (Begriffsjurisprudenz), di natura statica: entrambe, peraltro, storicamente ancorate ad una concezione positivistica del d i ritto.
Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica – contro il chiaro dettato dell’art.l cod. civ. – per confermare l’astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di tale ricostruzione dogmatica vi è, infatti, il convincimento tradizionale, da tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entità occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto.
Questa Corte ha già da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto durante il parto, che l’esclusione de[ diritto al risarcimento possa affermarsi su[ solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita: definendo erronea la concezione che, a tal fine, ritiene necessaria la sussistenza di un rapporto intersoggettivo ab origine tra danneggiante e danneggiato. Ed ha concluso che, una volta accertata l’esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev’essere riconosciuto in capo a quest’ultimo il diritto al risarcimento ( Cass., sez.3, 22 novembre 1993, n. 11503). ,
Tenuto conto dei naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si può pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività – che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi – bensì considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n.27; Cass., sez.3, maggio 2011 n.9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).
Tale principio informa espressamente diverse norme del[ `ordinamento. Così, l’art.1, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito (“AI fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla in fertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”). Analogo concetto è riflesso nell’art.1 della stessa legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l’esigenza di proteggere la salute del concepito (art.1: “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi…: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento’). Infine, nell’ambito della stessa normativa codicistica, l’art.254 prevede il riconoscimento dei figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.
Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l’ammissibilità dell’azione dei minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute ( cfr. art.41 cod. pen.).
Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che i[ medico sia, in ipotesi, l’autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata; e la soluzione verrebbe, in tal modo, ad essere identica alla diversa ipotesi della responsabilità del medico verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosità di un farmaco somministrato per stimolare l’attività riproduttiva (Cass 11 maggio 2009 n 10741), o di una malattia della gestante suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto.
Se dunque l’astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell’anteriorità del fatto illecito alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell’art.1 cod. civile, occorre scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno. G
Sotto il primo profilo, in un approccio metodologico volto a mettere tra parentesi tutto ciò che concretamente non è indispensabile, per cogliere l’essenza di ciò che si indaga, si deve partire dal concetto di danno-conseguenza, consacrato all’art.1223 cod. civile e riassumibile, con espressione empirica, nell’avere di meno, a seguito dell’illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita del bambino; e l’assenza di danno alla sua morte
Ed è qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita, da interruzione igitur hominum causa omne ius constitutum sit … “: D. 1, 5, 2., Hermogenianus, libro primo iuris epitomarum ).
Il supposto interesse a non nascere, com’è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell’attribuire alla volontà dei nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo dei cd. diritto alla felicità). C
L’ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L’accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali.
Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell’effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011, n.9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni – progressivamente più restrittive nel tempo – posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività.
In senso contrario, qualche voce in dottrina, non senza echi giurisprudenziali, adduce l’apparente antinomia tra la progressiva estensione del credito risarcitorio in favore del padre (Cass., sez.3,
10 maggio 2002 n.6735) e dei germani (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n.16.754) ed il perdurante diniego opposto al figlio, primo interessato dalle patologie prese in considerazione dalla norma: argomento, suggestivo ed impressionistico, ma di nessun pregio giuridico, restando ad un livello di costatazione empirica, senza adeguato apprezzamento delle diverse premesse in diritto.
A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra menzionata, per saggiarne la solidità argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi – se, cioè, sia, o no, necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole che non la madre, perché esenti dall’onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall’art.6 I. cit. – e soggettivi – in quanto non onerati dell’omologa prova della loro condivisione dell’opzione abortiva – valore dirimente ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato.
In una decisione che investa diritti fondamentali della persona umana, diventa, al riguardo, rilevante anche l’analisi comparatistica, mediante richiamo di precedenti attinti dall’esperienza maturata in ordinamenti stranieri, culturalmente vicini ed informati al più assoluto rispetto dei diritti della persona.
La giurisprudenza riguardante azioni di danni per wrongful birth e wrongful life si è formata innanzitutto presso le corti statunitensi. C
II primo caso in termini sembra essere quello deciso dalla New Jersey Supreme Court 6 marzo 1967 Gleitman v. Cosgrove, in cui furono respinte sia la domanda della madre contro il medico curante, che aveva trascurato la pericolosità della rosolia della gestante — sotto il profilo che l’aborto era, all’epoca, un reato (soppresso dalla pronuncia della Supreme Court 22 Gennaio 1973 Roe – nome di fantasia, a tutela della privacy — v. Wade, con una maggioranza di sette giudici a due), sia quella dei figlio nato malato: proprio con l’argomento, destinato a diventare tralatizio, che era improponibile un confronto tra vita con malattia e non vita.
Sulla scia del precedente, le Corti superiori nella maggior parte degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983).
Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato ( BGH, 18 gennaio 1983); così come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority.
Alla luce di questi cenni sommari, si può enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale; e dunque, nella sede appropriata alla tutela di soggetti diversamente abili e bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da quella in esame.
Ed al riguardo nulla è più significativo dell’evoluzione normativa seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation, assemblée plénière, 17 novembre 2000, sul cd. affaire Perruche che
aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato
affetto da grave malattia, non diagnosticata durante la gravidanza (in difformità dalle conclusioni del P.G., sull’impossibilità di ravvisare un danno nella stessa vita, espresse, per via apagogica, con sintesi icastica: “Le dommage c’est la vie et l’absence de dommage c’est la mort: La mort devient ainsi une valeur préférable à la vie”). Con la « Loi relative aux droits de malades et à la qualité du système de santé » 4 marzo 2002 n. 2002-303 (cd. Loi Kouchner, dal nome dei ministro della salute proponente Bernar Kouchner), si sono infatti perentoriamente riaffermati i canoni tradizionali – con il crisma del primato della legge – prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa medica può ottenerne il risarcimento quando l’atto colposo ha provocato direttamente o ha aggravato l’handicap, o non ha permesso di prendere misure in grado di attenuarlo (Art.1 del titolo »Solidarité envers les personnes handicapées» : «Nul ne peut se prévaloir d’un préjudice du seul fait de sa naissance. La personne née avec un handicap dû à une faute médicale peut obtenir la réparation de son préjudice lorsque l’acte fautif a provoqué directement le handicap ou l’a aggravé, ou n’a pas permis de prendre les mesures susceptibles de l’atténuer»). Legge, la cui espressa retroattività — censurata dapprima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo con due arresti assunti all’unanimità dai 17 giudici della Grande Chambre (sent. 6 ottobre 2005 in cause Maurice c. Francia e Draon c. Francia) e poi dichiarata illegittima, in parte qua ( Conseil constitutionel 11 giugno 2010), appare, all’evidenza, significativa della volontà dei legislatore di risanare la cesura giurisprudenziale tra un indirizzo tradizionale, fondato su pilastri dogmatici e concettuali di plurisecolare vigenza, e la dirompente deviazione (definita, da parte della dottrina, perfino come arrêt de provocation ) segnata dalla sentenza della Suprema Corte, ponendo a carico della solidarietà nazionale l’assistenza dei nati handicappati.
In quest’ottica, viene meno anche il fondamento della tesi che àncora la sussistenza del credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione, di cui sarebbe beneficiario il nascituro: figura primamente elaborata dalla dottrina tedesca ( Schutzpflichte), che riconosce a parenti, o conviventi, anche per ragioni di lavoro, a contatto con la controparte contrattuale, una tutela più intensa, di natura contrattuale (Vertraege mit Schutzwirkung fuer Dritte), che non quella propria della generalità dei terzi, che possono valersi, invece, della sola azione aquiliana. Sulla scorta di tale ricostruzione concettuale, si sostiene che se il contratto tra la madre ed il medico ha effetti protettivi verso i terzi (Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n.14488, che tuttavia nega il diritto del figlio al risarcimento), non sarebbe coerente escluderne il bambino: facile inferenza che, se vale a giustificare la titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte dei nato affetto da anomalie cagionate direttamene dal sanitario, non supera, ancora una volta, l’ostacolo dell’inesistenza.di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza.
Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall’art.6 1.194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine dei rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell’illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, dei metodo casistico (case law system), nell’ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell’art. 2043 cod. civ. (con l’espressione introduttiva: “qualunque fatto”…) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima.
II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni dei feto, all’errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell’apporto causale nei due casi.
Non senza soppesare altresì il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica: deriva eugenica, certamente lontanissima dalla teorizzazione dottrinaria del cd. diritto di non nascere, ma che pure ha animato, ad es., il dibattito oltralpe, provocando reazioni nella sensibilità dell’associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati, anteriormente all’approvazione della legge Kouchner sopra citata. Ed una chiara negazione che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno – sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano – è pure contenuta nella sentenza 28 maggio 1993 della Corte Costituzionale federale tedesca (BVerfGE 88, 203).
Per superare gli ostacoli frapposti all’affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano – ignoto al vigente ordinamento – i ricorrenti prospettano, altresì, nell’ambito dei secondo motivo, una concorrente ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento dei nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo.
Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale allegazione non v’è traccia nella sentenza impugnata; onde, si deve ritenere, in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia formulata per la prima volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia, essa non è, perciò stesso, inammissibile, risolvendosi in una mera argomentazione, volta dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei suoi elementi essenziali costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni. l/
Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del cd. diritto a non nascere se non sani; e va quindi incontro alla medesima obiezione dell’incomparabilità della sofferenza anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell’ interruzione della gravidanza.
Si deve dunque ritenere che l’argomentazione, se vale a confutare la tesi, peraltro già respinta, della irrisarcibilità di un danno senza soggetto non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (cd. diritto adespota), si palesa dei tutto inidonea, per contro, a sormontare l’impossibilità di stabilire un nesso causale tra quest’ultima e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita. Oltre al fatto di postulare un’ irruzione dei diritto in un campo da sempre rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una visione panrisarcitoria dalle prospettive inquietanti.
II ricorso dev’essere dunque accolto limitatamente al primo motivo con rinvio alla corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio, in relazione alla censura accolta, nonché per le spese della presente fase di legittimità.
P.Q.M.
– Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;
Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità.
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