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importante tenere presente che il testatore, nel redigere il testamento, non ha una libertà assoluta nelle proprie decisioni. La legge infatti stabilisce che vi sono alcune categorie di persone alle quali spetta necessariamente una quota dei beni del testatore. Ed è per questo che si parla di successione necessaria e di quota di legittima. I legittimari sono: il coniuge, i discendenti (figli) ed, in caso di mancanza di figli, agli ascendenti (genitori).
Come stabilire se il testatore abbia leso la quota di legittima?
bisogna, all’apertura del testamento, verificare l’esatto ammontare del patrimonio. Questa operazione di natura matematica prende il nome di riunione fittizia perché i beni vengono tutti riuniti, anche se fittiziamente.
In forza di questi calcoli calcoli emerge che la quota è stata ecceduta, allora ciascun legittimario può esperire l’azione di riduzione. Questa azione ha lo scopo di ridurre le altre quote testamentarie e le donazioni, ed è irrinunciabile.
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Qui occorre chiarire che in tema di divisione ereditaria, a norma dell’art. 718 cod. civ., ciascun coerede ha diritto alla parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli successivi. In particolare, il principio è derogato fra l’altro dall’art. 720 cod. civ., che disciplina l’ipotesi in cui l’eredità comprenda beni immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene e la divisione dell’intero non possa effettuarsi senza il loro frazionamento : in tale ipotesi detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nelle porzioni di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche alle porzioni di più coeredi ove questi ne richiedano congiuntamente l’attribuzione. La deroga alla previsione dell’art. 718 cod. civ. – la cui applicazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, che, peraltro, deve adeguatamente motivarla – è riferibile esclusivamente alla ipotesi in cui singole unità immobiliari siano considerate indivisibili, non potendo trovare applicazione alle ipotesi in cui vi sia una pluralità di beni immobili, laddove è possibile procedere a un progetto che consenta l’assegnazione in natura a ciascun condividente di porzioni dei beni ereditari (Cass. 7700/1994; 25332/2011).
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CORTE DI CASSAZIONE EREDITA’ TESTAMENTO
SEZIONE II CIVILE,
sentenza 28 novembre 2013 – 10 gennaio 2014, n. 406
Presidente Bursese – Relatore Migliucci
Svolgimento del processo
-
– D.F.L. , in nome e per conto della figlia minore G.A. , conveniva in giudizio davanti il tribunale di Bologna R.R. per sentire accertare la lesione della quota di legittima spettante alla G. con la condanna della convenuta alla restituzione dei beni ereditari nonché dei frutti. Deduceva che la minore G.A. era erede naturale del padre G.G. , il quale – deceduto in (OMISSIS) aveva nominato erede universale la moglie R.R. , ed alla sua morte, la figlia G.A. , per i beni residui. R.R. , costituendosi in giudizio, non contestava la qualità di erede della minore, ma negava che vi fosse una cassetta di sicurezza ed evidenziava che esisteva una sola polizza assicurativa, che era stata incassata dalla attrice; chiedeva, quindi, che il tribunale dichiarasse il suo diritto ad ottenere sia la legittima che la disponibile sul patrimonio residuo, provvedendosi, altresì, alla formazione dell’asse ereditario ed alla sua divisione secondo legge, tenendosi contro sia di quanto già incassato dall’attrice che della esistenza di debiti che gravavano sull’eredità. A seguito del raggiungimento da parte della G. della maggior età, il processo si interrompeva e veniva proseguito dalla G. . Il tribunale di Bologna, con sentenza non definitiva del 3 febbraio 1987, accertava che la G. aveva diritto di concorrere al patrimonio relitto dal padre in misura di 1/4 della piena proprietà ed in misura di 1/5 dei 5/12 assegnati in usufrutto alla R. , rigettava la domanda relativa alla polizza n.982253, stipulata dal de cuius nell’esclusivo interesse della figlia. Con sentenza definitiva del 22 giugno 1999 il tribunale disponeva la divisione del patrimonio assegnando alla G. l’immobile sito in (omissis) , mentre erano assegnati alla convenuta gli immobili siti in (OMISSIS) e la villa in (omissis) ; condannava la R. al pagamento del conguaglio pari a lire 33.604.182 oltre rivalutazione monetaria dal 26-4-1995 con gli interessi sulla somma rivalutata mese per mese fino al saldo; condannava la convenuta, a titolo di risarcimento dei danni, per il mancato godimento dal 1975 al 31-12-1988, nella misura del 27% della somma di L. 144.315.000, al netto degli oneri fiscali, con rivalutazione ed interessi sulla somma via via rivalutata sino al saldo, precisando che l’attrice aveva limitato la propria domanda fino al 31.12.1988; quanto ai beni mobili, stabiliva che all’attrice andavano consegnate n. 135 azioni (OMISSIS) , n. 2100 azioni (omissis) , n. 300 azioni (omissis) , n. 135 azioni (OMISSIS) e n. 500 azioni (…), oltre i frutti nella misura del 27%; condannava la R. al pagamento delle spese processuali. Con sentenza dep. il 31 ottobre 2007 la Corte di appello di Bologna riformava la decisione definitiva che era stata impugnata da entrambe le parti. In accoglimento dell’appello proposto dalla R. , riteneva che le spese di primo grado dovessero compensarsi; assegnava alla predetta anche l’immobile sito in (OMISSIS) oltre quelli attribuiti dal tribunale, ponendo a suo carico l’importo di Euro 70.000,00 a titolo di conguaglio da rivalutare dal settembre 1988 nonché al pagamento su detto importo degli interessi legali dalla pubblicazione della decisione di appello. Per quel che ancora interessa nella presente sede, il predetto immobile sito in (…) era assegnato alla convenuta sul rilievo che, essendo la medesima titolare della maggiore quota, il criterio sancito dall’art. 720 cod. civ. andava applicato con riferimento a ogni singolo immobile facente parte dell’asse ereditario. Tenuto conto che il valore complessivo degli immobili era pari a lire 477.000.000, in considerazione delle quote di cui era titolare la G. , alla medesima spettava l’importo complessivo di lire 135.500.000,pari a Euro 70.000,00 che andava rivalutato dal momento della redazione della consulenza (settembre 1988).
Era riformata la sentenza definitiva che aveva accolto la domanda di corresponsione dei frutti relativi agli immobili detenuti dalla convenuta, sul rilievo che l’attrice non aveva offerto la prova che tali beni avessero effettivamente prodotto frutti percepiti dalla R. , posto che tale circostanza era stata contestata e indirettamente provata dalla convenuta, la quale aveva dedotto che l’immobile di (…) era stato concesso in comodato ai suoceri, quello di (omissis) era collabente e quello nel quale la moglie viveva con il de cuius (Villa di (omissis) ) costituiva la casa coniugale su cui la medesima era titolare del diritto di abitazione.
Ugualmente doveva ritenersi per le azioni che non avevano dato alcuna redditività. Nel respingere l’appello incidentale proposto dall’attrice, i Giudici confermavano la sentenza definitiva la quale aveva ritenuto che 40.000 fosse il valore e non il numero delle azioni relitte come preteso dall’attrice, essendo la diversa indicazione contenuta nella denuncia di successione conseguenza di un mero errore materiale, come si ricavava dalla documentazione prodotta dall’appellante e dalle informazioni rese dall’Istituto di credito. Nel dispositivo erano poste a carico della G. le spese relative al giudizio di appello.
2.- Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la D.F. , quale erede di G.A. nelle more deceduta, sulla base di otto motivi illustrati da memoria. Resiste con controricorso l’intimata proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi.
Motivi della decisione
Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perché sono stati proposti avverso la stessa sentenza. Va ancora rilevata la legittimazione della D.F. a proporre il presente ricorso, avendo provato la qualità di erede della figlia G.A. , nelle more deceduta, avendo prodotto il relativo certificato di morte.ù
RICORSO PRINCIPALE EREDITA’ TESTAMENTO
1.1. – Il primo motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 718 e 720 cod. civ., censura la decisione gravata che, nell’assegnare alla convenuta tutti gli immobili in comunione aveva disapplicato il generale e prevalente principio della divisione in natura dei beni, quando la norma di cui all’art. 720 citato ne costituisce una deroga applicabile esclusivamente nei casi tassativamente indicati da tale norma. La Corte non aveva preso in considerazione la possibilità della formazione di singole porzioni 1.2. – Il motivo va accolto. La sentenza, nell’attribuire anche l’immobile sito in (…) alla R., la quale in tal modo è risultata assegnataria dell’intero complesso immobiliare (gli altri due immobili le erano stati già attribuiti con la sentenza definitiva del tribunale), ha tenuto conto esclusivamente del criterio sancito dall’art. 720 cod. civ. in tema di divisione di immobili non comodamente divisibili, individuando l’assegnatario nel comunista titolare della quota maggiore su ciascuno dei beni immobili caduti in successione. Qui occorre chiarire che in tema di divisione ereditaria, a norma dell’art. 718 cod. civ., ciascun coerede ha diritto alla parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli successivi. In particolare, il principio è derogato fra l’altro dall’art. 720 cod. civ., che disciplina l’ipotesi in cui l’eredità comprenda beni immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene e la divisione dell’intero non possa effettuarsi senza il loro frazionamento : in tale ipotesi detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nelle porzioni di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche alle porzioni di più coeredi ove questi ne richiedano congiuntamente l’attribuzione. La deroga alla previsione dell’art. 718 cod. civ. – la cui applicazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, che, peraltro, deve adeguatamente motivarla – è riferibile esclusivamente alla ipotesi in cui singole unità immobiliari siano considerate indivisibili, non potendo trovare applicazione alle ipotesi in cui vi sia una pluralità di beni immobili, laddove è possibile procedere a un progetto che consenta l’assegnazione in natura a ciascun condividente di porzioni dei beni ereditari (Cass. 7700/1994; 25332/2011). Orbene, la sentenza impugnata ha fatto erronea applicazione di tali principi e di quanto statuito anche dalla S.C. la quale, con la decisione n. 21294/2004, richiamata dai Giudici di appello, pur facendo riferimento alla titolarità della maggior quota, aveva confermato la sentenza impugnata che aveva attribuito a ciascuno dei condividenti (o gruppo di condividenti) uno dei due immobili caduti in successione, proprio in attuazione del principio di cui all’art. 718 cod. civ.: infatti, la titolarità della quota maggioritaria sui due immobili non apparteneva al medesimo condividente (come nel caso de quo) ma a condividenti diversi nel senso che il comunista, titolare della quasi totalità delle quote di comproprietà su un fabbricato, aveva quote minime sul terreno di cui invece gli altri condividenti avevano la maggioranza. 2.1. – Il secondo motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 728 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove aveva stabilito il conguaglio relativo all’immobile sito in (…) assegnato con la sentenza impugnata alla R. con riferimento alla stima compiuta dal consulente nel 1988 quando si sarebbe dovuto fare riferimento al valore di mercato del bene all’attualità, non essendo sufficiente la rivalutazione monetaria. 2.2.- Il motivo è assorbito. L’accoglimento del primo motivo – comportando la caducazione della statuizione relativa alla assegnazione dell’immobile di (…) – assorbe ogni questione circa il relativo conguaglio. 3.1..- Il terzo motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 728 cod. civ., in via subordinata denuncia le modalità di determinazione degli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di conguaglio, tenuto conto che gli stessi decorrono sugli importi di volta in volta maturati. 3.2.- Anche questo motivo è assorbito per le medesime considerazioni formulate sopra. 4.1.- Il quarto motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia) censura la sentenza impugnata che, nell’escludere la esistenza di frutti mobiliari, aveva omesso di esaminare quanto era al riguardo emerso dagli elaborati peritali depositati nel procedimento di primo grado, laddove era stato determinato il valore complessivo delle rendite maturate. 4.2.- Il motivo è fondato. La sentenza si è limitata ad affermare in modo apodittico che le azioni non avevano dato alcuna reddittività senza peraltro indicare le ragioni di tale convincimento e senza esaminare e dare conto di quanto emerso dalle risultanze processuali alle quali ha fatto cenno il ricorrente. 5.1.- Il quinto motivo, lamentando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 718 e 720 cod. civ., censura la sentenza laddove, nell’escludere il credito relativo ai frutti derivanti dal godimento degli immobili, aveva fondato la decisione su una circostanza irrilevante ovvero la assenza di prova dell’effettiva maturazione e del percepimento dei frutti da parte della convenuta, quando il diritto deriva dalla redditività del bene goduto dal comunista fino al momento dello scioglimento della comunione.
5.2.- Il motivo è fondato nei limiti di cui si dirà. Il diritto dei comunisti alla quota dei frutti dei beni caduti in comunione trova fonte nella redditività potenziale del bene che è rimasto nell’effettivo godimento di uno solo dei comproprietari, tenuto conto che in tema di divisione immobiliare, il condividente di un immobile che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri i fratti civili, quale ristoro della privazione della utilizzazione “pro quota” del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quello della pronuncia. (Cass. n. 7881 del 2011). Appare del tutto irrilevante – e non potrebbe evidentemente pregiudicare gli altri comproprietari – la non utile gestione che il comunista nel possesso dei beni – il quale amministra il bene anche nell’interesse e per conto degli altri – abbia fatto, dando di sua iniziativa il bene in uso gratuito (comodato), come è avvenuto per l’immobile di XXXXX. Peraltro, la capacità del bene di produrre reddito va evidentemente compiuta in relazione allo stato in cui il bene si trovi, dovendo verificarsi se lo stesso possa essere effettivamente oggetto di utilizzazione. Nella specie, la motivazione appare insufficiente laddove non risulta compiuto alcuna effettiva indagine in merito allo stato in cui si trovava l’immobile di (OMISSIS) e in relazione alle condizioni denunciate con l’appello principale: evidentemente il giudice di rinvio dovrà compiere tale indagine. Appare invece corretto escludere l’obbligo di frutti relativamente all’immobile (villa (omissis) ), perché abitato dal coniuge abitasse al momento della morte del de cuius (circostanza che non risulta specificamente contestata) : essendo oggetto del legato ex lege a favore del coniuge superstite, l’acquisto avviene al momento dell’apertura della successione ed esclude – relativamente a esso – quindi lo stato di comunione. 6.1.- Il sesto motivo ( violazione e/o falsa applicazione dell’art. 282 cod. proc. civ.) denuncia che erroneamente la sentenza aveva fatto decorrere gli interessi compensativi sul conguaglio dalla data della sentenza di appello, dovendo gli stessi piuttosto decorrere dalla sentenza definitiva del tribunale che, essendo provvisoriamente esecutiva, aveva determinato lo scioglimento della comunione. 6.2. Il motivo è infondato. Occorre premettere che la sentenza di appello, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla R. , ha determinato dalla data di pubblicazione della decisione la decorrenza degli interessi compensativi dovuti sul complessivo conguaglio liquidato (quindi anche sul conguaglio sugli immobili attribuiti con la decisione del tribunale). Al riguardo va chiarito che il principio della natura dichiarativa della sentenza di divisione opera esclusivamente in riferimento all’effetto distributivo, per cui ciascun condividente è considerato titolare, sin dal momento dell’apertura della successione, dei soli beni concretamente assegnatigli e a condizione che si abbia una distribuzione dei beni comuni tra i condividenti e le porzioni a ciascuno attribuite siano proporzionali alle rispettive quote; non opera invece, e la sentenza produce effetti costitutivi, quando ad un condividente sono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, in quanto rientranti nell’altrui quota (Cass. 9659/200, 6653/2003). L’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, non è consentita, essendo necessario il passaggio in giudicato, quando la statuizione condannatoria è legata all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico e non meramente dipendente, come appunto nella specie, in cui il diritto al conguaglio dovuto agli altri comunisti da parte dell’assegnatario sorge nel momento in cui viene a cessare lo stato di indivisione e trova fonte nell’attribuzione ad altro condividente di un bene eccedente la sua quota. 7.1.- Il settimo motivo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2735 e 2733 cod. civ.) denuncia l’errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata laddove, nel confermare la decisione definitiva del tribunale sul numero di azioni cadute in successione, aveva ritenuto frutto di errore materiale la indicazione, contenuta nella denuncia di successione e nella dichiarazione formulata dalla stessa convenuta in sede di inventario, dichiarazione che, essendo stata fatta in presenza del legale rappresentane dell’attrice, avrebbe valore di confessione stragiudiziale e, come tale, di prova legale non suscettibile di essere liberamente apprezzata dal giudice. 7.2.- Il motivo è infondato. La indicazione sul numero di azioni compiuta dalla convenuta, seppure alla presenza della controparte, era stata formulata al fine di procedere alla redazione dell’inventario dei beni relitti e, dunque, non poteva integrare la confessione stragiudiziale, la quale si configura quando sia resa alla controparte la consapevole dichiarazione di un fatto a sé sfavorevole e a quella favorevole. La sentenza, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha ritenuto che la indicazione era da ritenersi frutto di errore materiale, avendo verificato la effettiva consistenza delle azioni in base alle informazioni dell’Istituto di credito. 8. L’ottavo motivo che concerne la statuizione delle spese processuali è assorbito.
RICORSO INCIDENTALE.
1.1. – Il primo motivo (violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.) denuncia che la sentenza impugnata pur avendo accolto il primo motivo, con il quale era stata riconosciuta la compensazione delle spese del giudizio di primo grado aveva poi nel dispositivo condannato essa attrice al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. 1.2.- Il motivo va disatteso. Occorre premettere che in tema di liquidazione delle spese giudiziali, il criterio della soccombenza non si fraziona secondo l’esito delle varie fasi, ma va considerato unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito per sé favorevole ( Cass. 11599/2004, – 198880/2011; Ord. 6369/2013). La riforma, anche parziale, della sentenza di primo grado comporta la caducazione delle consequenziali statuizioni relative alle spese processuali che il giudice deve di ufficio liquidare in base all’esito complessivo della lite; ove, invece, la decisione di primo grado sia confermata, la regolamentazione delle spese di primo grado potrà essere oggetto di riesame soltanto nel caso in cui la parte soccombente abbia proposto uno specifico motivo di gravame. Ciò premesso, la cassazione della sentenza di appello comporta l’assorbimento della censura circa la decisione sulle statuizioni sulle spese, posto che sarà il giudice di rinvio a doversi pronunciare sulle spese di primo grado – peraltro oggetto di specifico motivo di appello – e di gravame secondo l’esito della controversia. 2.1.- Il secondo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) deduce che la sentenza, pur avendo con la motivazione chiarito che il conguaglio era stabilito per tutti gli immobili caduti in successione, nel dispositivo aveva attribuito tale somma per il solo immobile di (…). 2.2.- Il motivo è infondato. Nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l’effettiva volontà del giudice. Ne consegue che, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, è da ritenere prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento che va, quindi, interpretato in base all’unica statuizione che, in realtà, esso contiene. Nella specie, deve peraltro escludersi il contrasto denunciato laddove il riferimento contenuto nel dispositivo agli immobili già attribuiti alla convenuta con la sentenza definitiva del tribunale consente di comprendere che il conguaglio era determinato per l’intero asse immobiliare e non solo con riferimento all’immobile di (…). Il ricorso incidentale va rigettato. Pertanto, vanno accolti il primo, il quarto, il quinto – per quanto in motivazione – motivo del ricorso principale; vanno rigettati il sesto e il settimo mentre sono assorbiti il secondo, il terzo e l’ottavo. La sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi; accoglie il primo, il quarto e il quinto, per quanto in motivazione, del ricorso principale, assorbiti il secondo, il terzo e l’ottavo, rigetta il sesto e il settimo; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
EREDITA’ TESTAMENTO ,PERCHE’ LITIGARE ?…. impugnazione testamento lesione legittima
impugnazione testamento prescrizione
impugnare testamento olografo
invalidità del testamento
impugnazione testamento
testamento falso
causa eredità
come impugnare un testamento
Art. 718. Diritto ai beni in natura.
Ciascun coerede può chiedere la sua parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli seguenti.
Art. 719. Vendita dei beni per il pagamento dei debiti ereditari.
Se i coeredi aventi diritto a più della metà dell’asse concordano nella necessità della vendita per il pagamento dei debiti e pesi ereditari, si procede alla vendita all’incanto dei beni mobili e, se occorre, di quei beni immobili la cui alienazione rechi minor pregiudizio agli interessi dei condividenti.
Quando concorre il consenso di tutte le parti, la vendita può seguire tra i soli condividenti e senza pubblicità, salvo che vi sia opposizione dei legatari o dei creditori.
Art. 720. Immobili non divisibili.
Se nell’eredità vi sono immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene, e la divisione dell’intera sostanza non può effettuarsi senza il loro frazionamento, essi devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se nessuno dei coeredi è a ciò disposto, si fa luogo alla vendita all’incanto.
Art. 721. Vendita degli immobili.
I patti e le condizioni della vendita degli immobili, qualora non siano concordati dai condividenti, sono stabiliti dall’autorità giudiziaria.
Il motivo è stato accolto in ragione del ragionamento che segue. La Cassazione ha evidenziato che la sentenza gravata ha tenuto conto esclusivamente del criterio sancito dall’art. 720 cod. civ. in tema di divisione di immobili non comodamente divisibili, individuando l’assegnatario nel comunista titolare della quota maggiore su ciascuno dei beni immobili caduti in successione.
Da qui, secondo la Suprema Corte, è sorta la necessità di chiarire le caratteristiche della divisione ereditaria per cui, a norma dell’art. 718 cod. civ., ciascun coerede ha diritto alla parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli successivi. In particolare, il principio dell’art. 718 c.c. è derogato fra l’altro dall’art. 720 cod. civ., che disciplina la particolare ipotesi in cui l’eredità ricomprenda beni immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene e la divisione dell’intero non possa effettuarsi senza il loro frazionamento. In tal caso il Codice prevede che detti immobili debbano preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nelle porzioni di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche alle porzioni di più coeredi ove questi ne richiedano congiuntamente l’attribuzione.
Art. 720. Immobili non divisibili.
Se nell’eredità vi sono immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene, e la divisione dell’intera sostanza non può effettuarsi senza il loro frazionamento, essi devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se nessuno dei coeredi è a ciò disposto, si fa luogo alla vendita all’incanto.
CONTROVERSIE EREDITARIE
CONTROVERSIE SUCCESSIONI EREDITARIE
Con atto di citazione notificato il 25 gennaio e il 1 febbraio 1997, P.S. ed E. convenivano in giudizio, davanti al Pretore di Rieti, P.A. e P.M. e – assumendo di essere venute a conoscenza, a seguito di visura catastale eseguita in data 19 giugno 1996, del decreto pretorile suddetto che non era loro opponibile e che faceva sorgere il loro interesse all’esperimento dell’azione intrapresa – chiedevano l’accertamento giudiziale dell’autenticità delle sottoscrizioni di P.F. ed Pe.Au. in calce all’atto di divisione del 9 novembre 1968 e della sottoscrizione di Pe.Ma. in calce all’atto di rinuncia del 4 agosto 1968 nonché la dichiarazione di loro esclusiva proprietà delle porzioni di fabbricato loro rispettivamente assegnate con l’atto di divisione.
I convenuti si costituivano, resistendo. Eccepivano la nullità: dell’atto di rinuncia di M.A. alla propria quota di comproprietà del fabbricato in favore dei figli, trattandosi di donazione non effettuata con atto pubblico; della rinuncia di Pe.Ma. alla sua quota, trattandosi di cessione della quota a lui pervenuta in donazione dalla madre ma non ancora accettata; infine, della clausola con la quale lo stesso Pe.Ma. aveva rinunciato, per sé e per i suoi aventi causa, in favore degli assegnatari delle rimanenti quote del fabbricato, ai diritti che potessero derivargli sul fabbricato stesso a seguito di eventuale successione, trattandosi di patto successorio vietato dall’art. 458 cod. civ. Deducevano, infine, l’opponibilità del decreto pretorile alle attrici, le quali non potevano considerarsi terzi.
Integrato il contraddittorio nei confronti di A.C. , di Pe.Gi. e di P.G. , eredi di Pe.Au. , e di Pe.Ma. , tutti rimasti contumaci, con sentenza non definitiva n. 328 del 2001 il Tribunale di Rieti, divenuto competente a seguito della soppressione del Pretore, dichiarava la nullità della clausola n. 7 della scrittura privata del 4 agosto 1968, con la quale Pe.Ma. aveva rinunciato ad eventuali diritti successori sulla casa di via S. Maria degli Angeli, mentre rigettava le altre eccezioni sollevate dai convenuti e, con separata ordinanza, rimetteva la causa sul ruolo per l’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio ai fini dell’accertamento dell’autenticità delle firme di P.F. , Au. e Ma. .
Nel prosieguo della causa, espletata consulenza tecnico-grafica, il Tribunale, con sentenza definitiva n. 46/2003, dichiarava autentiche le sottoscrizioni apposte sulla scrittura privata del 9 novembre 1968, intercorsa tra M.A. , P.F. , P.S. , P.E. e Pe.Au. .
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– Avverso tali sentenze hanno proposto appello P.A. e P.M. .
Si sono costituite P.E. e P.S. , chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
Il processo, interrotto per il decesso di P.S. , è stato riassunto nei confronti dei di lei eredi M.C. e M.M.G. , i quali sono rimasti contumaci.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria l’11 febbraio 2009, ha rigettato il gravame.
3.1. – La Corte territoriale ha rilevato che la rinuncia di uno dei comproprietari effettuata, come nel caso di specie, a favore di tutti gli altri comproprietari non richiede l’atto pubblico (trattandosi di donazione indiretta, ossia di liberalità realizzata ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 cod. civ.), ma soltanto la forma scritta (venendo in considerazione la rinuncia alla quota di un bene immobile).
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 16 dicembre 2014 – 25 febbraio 2015, n. 3819
Presidente Mazzacane – Relatore Giusti
Ritenuto in fatto
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– Con scrittura privata in data 4 agosto 1968, M.A. ved. P. – proprietaria, per la metà, di un fabbricato sito in (omissis) , in catasto al foglio 23 particella 111 sub 1, rinunciava alla sua suddetta quota in favore dei propri figli F. , S. , E. , Au. e Ma. , comproprietari dell’altra metà.
Con la stessa scrittura:
– P.F. , S. , E. ed Au. rinunciavano alle loro quote di comproprietà di un fondo rustico sito in località (omissis) in favore di Pe.Ma.;
– Pe.Ma. rinunciava alla sua quota di comproprietà, nella consistenza derivante dalla rinuncia della madre, sulla suddetta casa di via (omissis) ;
– P.F. , S. , E. ed Au. si obbligavano a “far abitare, a titolo gratuito, in vita natural durante, la loro madre M.A. in una stanza della casa” suddetta;
– tutte le parti si impegnavano “a tradurre la… scrittura in atto pubblico a richiesta di uno di essi”;
– veniva stabilita una penale di L. 2.000.000 per il caso di inadempimento;
– si stabiliva che “qualora al Sig. Pe.Ma. dovesse derivare un diritto in forza di successione sulla casa di via (omissis) …, questo o i suoi aventi diritto dovranno rinunziarvi, previo equo corrispettivo, in favore di tutti coloro che già dispongono di una quota della predetta casa”.
Con successiva scrittura privata del 9 novembre 1968, i germani P.F. , S. , E. ed Au. , rimasti i soli comproprietari della suddetta casa, procedevano alla divisione della stessa, attribuendosene ognuno una parte.
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– Con ricorso depositato il 18 dicembre 1993, P.M. ed A. , aventi causa di P.F. , chiedevano ed ottenevano dalla Pretura circondariale di Rieti – ai sensi della legge 10 maggio 1976, n. 346, che consente l’usucapione quindicennale dei fondi rustici con annessi fabbricati siti in comuni montani – il riconoscimento del loro avvenuto acquisto della proprietà del suindicato fabbricato qualificato come “rurale”, ma non di fondi rustici.
Con atto di citazione notificato il 25 gennaio e il 1 febbraio 1997, P.S. ed E. convenivano in giudizio, davanti al Pretore di Rieti, P.A. e P.M. e – assumendo di essere venute a conoscenza, a seguito di visura catastale eseguita in data 19 giugno 1996, del decreto pretorile suddetto che non era loro opponibile e che faceva sorgere il loro interesse all’esperimento dell’azione intrapresa – chiedevano l’accertamento giudiziale dell’autenticità delle sottoscrizioni di P.F. ed Pe.Au. in calce all’atto di divisione del 9 novembre 1968 e della sottoscrizione di Pe.Ma. in calce all’atto di rinuncia del 4 agosto 1968 nonché la dichiarazione di loro esclusiva proprietà delle porzioni di fabbricato loro rispettivamente assegnate con l’atto di divisione.
I convenuti si costituivano, resistendo. Eccepivano la nullità: dell’atto di rinuncia di M.A. alla propria quota di comproprietà del fabbricato in favore dei figli, trattandosi di donazione non effettuata con atto pubblico; della rinuncia di Pe.Ma. alla sua quota, trattandosi di cessione della quota a lui pervenuta in donazione dalla madre ma non ancora accettata; infine, della clausola con la quale lo stesso Pe.Ma. aveva rinunciato, per sé e per i suoi aventi causa, in favore degli assegnatari delle rimanenti quote del fabbricato, ai diritti che potessero derivargli sul fabbricato stesso a seguito di eventuale successione, trattandosi di patto successorio vietato dall’art. 458 cod. civ. Deducevano, infine, l’opponibilità del decreto pretorile alle attrici, le quali non potevano considerarsi terzi.
Integrato il contraddittorio nei confronti di A.C. , di Pe.Gi. e di P.G. , eredi di Pe.Au. , e di Pe.Ma. , tutti rimasti contumaci, con sentenza non definitiva n. 328 del 2001 il Tribunale di Rieti, divenuto competente a seguito della soppressione del Pretore, dichiarava la nullità della clausola n. 7 della scrittura privata del 4 agosto 1968, con la quale Pe.Ma. aveva rinunciato ad eventuali diritti successori sulla casa di via S. Maria degli Angeli, mentre rigettava le altre eccezioni sollevate dai convenuti e, con separata ordinanza, rimetteva la causa sul ruolo per l’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio ai fini dell’accertamento dell’autenticità delle firme di P.F. , Au. e Ma. .
Nel prosieguo della causa, espletata consulenza tecnico-grafica, il Tribunale, con sentenza definitiva n. 46/2003, dichiarava autentiche le sottoscrizioni apposte sulla scrittura privata del 9 novembre 1968, intercorsa tra M.A. , P.F. , P.S. , P.E. e Pe.Au. .
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– Avverso tali sentenze hanno proposto appello P.A. e P.M. .
Si sono costituite P.E. e P.S. , chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
Il processo, interrotto per il decesso di P.S. , è stato riassunto nei confronti dei di lei eredi M.C. e M.M.G. , i quali sono rimasti contumaci.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria l’11 febbraio 2009, ha rigettato il gravame.
3.1. – La Corte territoriale ha rilevato che la rinuncia di uno dei comproprietari effettuata, come nel caso di specie, a favore di tutti gli altri comproprietari non richiede l’atto pubblico (trattandosi di donazione indiretta, ossia di liberalità realizzata ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 cod. civ.), ma soltanto la forma scritta (venendo in considerazione la rinuncia alla quota di un bene immobile).
La Corte d’appello ha poi confermato il giudizio di marginalità del patto successorio vietato nel contesto dell’operazione economico-sociale posta in essere con le scritture.
Infine, la Corte ha sottolineato che l’inopponibilità del decreto pretorile a P.E. e S. si evince, a contrario, dal disposto dell’ultimo comma dell’art. 3 della legge n. 346 del 1976.
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– Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello P.A. e P.M. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 7 ottobre 2009, sulla base di quattro motivi.
Hanno resistito, con controricorso, P.E. , M.C. e M.M.G. .
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Considerato in diritto
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– Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 809, 1362, 1363 e 1367 cod. civ.) i ricorrenti deducono che la rinuncia operata da M.A. nella scrittura privata del 4 agosto 1968 costituirebbe una donazione diretta di cui agli artt. 782 e ss. cod. civ. Essi chiedono conclusivamente che sia affermato il principio di diritto secondo cui “la rinuncia ad un diritto reale immobiliare in favore di soggetti nominativamente individuati, se effettuata a titolo di liberalità, ovvero senza corrispettivo e senza che essa concretizzi adempimento di una obbligazione, sia pure di natura morale, configura la fattispecie della donazione reale traslativa, in quanto la sua causa tipica è data dall’animus donandi e, in conseguenza, deve avere a pena di nullità la forma dell’atto pubblico. Per l’effetto, anche la rinuncia donationis causa al diritto di comproprietà su un bene immobile in favore degli altri comproprietari, a tal uopo specificamente designati, poiché persegue una funzione direttamente attributiva e non già meramente abdicativa del diritto reale, è soggetta alla disciplina della donazione diretta ex art. 769 e segg. cod. civ. e deve perciò risultare a pena di nullità da atto pubblico”.
1.1. – La censura – scrutinabile nei limiti del quesito che la accompagna – è infondata.
Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è infatti di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché l’acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l’eliminazione dello stato di compressione in cui l’interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell’appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo.
Di tale principio ha fatto corretta applicazione la Corte del merito, dopo avere sottolineato che la rinuncia alla quota di un mezzo sulla proprietà della casa è stata compiuta da M.A. puramente e semplicemente in favore di tutti gli altri comproprietari, con una estensione automatica in proporzione delle loro quote di comproprietà, mediante l’utilizzazione di un negozio tipico, appunto la rinunzia di uno dei comproprietari ai sensi dell’art. 1104 cod. civ..
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– Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1419, primo comma, cod. civ., sul rilievo che l’intera stipulazione sarebbe inficiata dalla nullità del patto successorio presente nella clausola n. 7, con cui Pe.Ma. ed i suoi aventi causa hanno rinunciato, in favore di F. , S. , E. ed Au. , ai diritti di proprietà sulla casa patriarcale di (OMISSIS) che gli sarebbero potuti derivare in via successoria. La clausola n. 7 sarebbe stata predisposta allo scopo unitario di conseguire la divisione inter vivos dell’asse ereditario e costituirebbe il presupposto indefettibile della scrittura privata in data 4 agosto 1968 nonché del consequenziale atto di divisione del 9 novembre 1968. I ricorrenti chiedono che sia affermato il principio secondo cui il patto successorio inserito nel testo di una scrittura privata contenente una pluralità di rinunce e ulteriori convenzioni tra le parti contraenti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari, a sua volta collegata ad un successivo negozio giuridico tra i medesimi sottoscrittori avente ad oggetto la divisione dei cennati diritti reali immobiliari, è in rapporto di interdipendenza ed inscindibilità tanto con le clausole inserite nella prima stipulazione, quanto con il successivo negozio giuridico. Sicché, in quanto predisposto in vista di uno scopo unitario, tale patto successorio ha natura essenziale nell’economia dell’accordo negoziale e la sua intrinseca nullità (sancita dall’art. 458 cod. civ.) inficia ex art. 1419, primo comma, cod. civ. la validità dell’intera stipulazione che lo contiene nonché del successivo negozio giuridico ad esso collegato.
2.1. – Il motivo è infondato.
L’insegnamento consolidato di questa Corte regolatrice è nel senso che l’indagine diretta a stabilire, ai fini della conservazione del negozio, se la pattuizione nulla debba ritenersi essenziale, va condotta con criterio oggettivo, in funzione del permanere o meno dell’utilità del contratto in relazione agli interessi che si intendono attraverso di esso perseguire, quali risultano individuati attraverso l’interpretazione del negozio (Sez. III, 21 maggio 2007, n. 11673; Sez. III, 30 settembre 2009, n. 20948; Sez. II, 11 luglio 2012, n. 11749). Pertanto l’applicabilità del principio di conservazione (utile per inutile non vitiatur) deve escludersi solo quando la clausola o il patto nullo si riferiscano ad un elemento essenziale del negozio, oppure si trovino con le altre pattuizioni in tale rapporto di interdipendenza che queste non possono sussistere in modo autonomo (Sez. III, 17 aprile 1980, n. 2546; Sez. I, 22 marzo 1983, n. 2012), nel senso che il contratto non si sarebbe concluso senza quella clausola nulla o quel patto nullo (Sez. II, 4 dicembre 2003, n. 18535; Sez. I, 20 maggio 2005, n. 10690). Simile indagine, integrando un giudizio di fatto esclusivamente rimesso al giudice del merito, è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e di diritto (Sez. I, 1 aprile 1977, n. 1230; Sez. I, 4 settembre 1980, n. 5100; Sez. II, 1 marzo 1995, n. 2340).
Ciò premesso, la denunziata violazione dell’art. 1419 cod. civ. non sussiste, avendo i giudici d’appello escluso, condividendo la valutazione espressa dal Tribunale, la ravvisabilità di un rapporto di interdipendenza tra il patto successorio nullo (ex art. 458 cod. civ.) e la parte residua dei negozi racchiusi nelle scritture private in questione, sul rilievo, fondato su un’attenta e compiuta considerazione dei termini della scrittura: (a) della formulazione estremamente vaga ed ipotetica della convenzione, collegata a diritti successori discendenti dalle disposizioni mortis causa di un eventuale testatore; (b) della marginalità del patto successorio vietato nel contesto di tutta l’operazione economico-sociale posta in essere con le suddette scritture (posto che la convenzione consacrata nella clausola non si pone come passaggio obbligato ed indefettibile, essendo intesa ad assicurare ai condividenti un vantaggio soltanto eventuale, futuro ed aggiuntivo, rappresentato dalla ipotetica possibilità di conseguire, semmai se ne fossero verificate le condizioni, un accrescimento della loro quota in virtù della rinuncia manifestata da Pe.Ma. ); (c) della non pertinenza della prospettazione fornita dagli appellanti, secondo i quali “la loro nonna aveva voluto beneficiare della proprietà della casa solo gli altri figli, escludendo anche da benefici futuri il figlio Mario in considerazione del cespite a questo pervenuto in conseguenza della rinuncia dei propri fratelli alle loro quote del fondo in località (omissis) ” (e ciò in quanto “la rinuncia ad eventuali diritti eredi tari da parte di Pe.Ma. , o di suoi eventuali aventi causa, non sarebbe, comunque, dovuta avvenire a titolo gratuito, ma previo equo corrispettivo”).
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– Il terzo motivo è relativo alla opponibilità del decreto di riconoscimento della proprietà a P.S. e a E. . Deducono i ricorrenti che costoro hanno avuto contezza dell’esistenza del procedimento a seguito degli adempimenti e delle comunicazioni prescritte dalla legge ed avrebbero potuto proporre opposizione ex art. 3, terzo comma, della legge n. 346 del 1976 ovvero, successivamente alla emissione del decreto pretorile, nelle forme e nei termini di cui al sesto comma dello stesso art. 3. P.E. e S. non potrebbero qualificarsi come soggetti terzi rispetto al riconoscimento della proprietà che P.A. e M. avrebbero promosso in buona fede.
3.1. – Il motivo è inammissibile, perché le deduzioni riguardo alla conoscenza del decreto pretorile in capo a P.E. e S. si fondano su mere affermazioni non suffragate da alcun puntuale richiamo a documenti verificabili.
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– Con il quarto mezzo si censura insufficiente motivazione. La motivazione della Corte d’appello presenterebbe gravi lacune in ordine al processo logico-giuridico in forza del quale è stato rigettato il gravame. La Corte territoriale avrebbe “ellitticamente richiamato le asserite corrette e condivisibili argomentazioni del giudice di prime cure senza fornire una spiegazione ragionevole delle scelte influenti nel contesto della decisione e senza entrare nel merito degli istituti di diritto sostanziale sottesi alla presente vicenda giudiziaria”.
4.1. – La censura è inammissibile perché, difettando del quesito di sintesi, non rispetta la prescrizione di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ..
Alla stregua della letterale formulazione del citato art. 366-bis cod. proc. civ. – introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dall’art. 6 del d.gs. 2 febbraio 2006, n. 40, e abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dall’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ma applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 4 luglio 2009 (cfr. art. 58, comma 5, della legge n. 69 del 2009) – questa Corte è ferma nel ritenere che, a seguito della novella del 2006, nel caso previsto dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., allorché, cioè, il ricorrente denunci la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2012, n. 17838).
Ciò importa, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo al quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).
Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che l’indicazione del fatto controverso e delle ragioni della non adeguatezza della motivazione sia esposta nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, occorrendo a tal fine una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.
Nella specie il quarto motivo del ricorso, formulato ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., è totalmente privo di tale momento di sintesi, iniziale o finale, costituente un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo.
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– Il. ricorso è rigettato.