DANNO BIOLOGICO, LA CASSAZIONE SUL DANNO BIOLOGICO DANNO BIOLOGICO,
LA CASSAZIONE SUL DANNO danno congiunti morte danno congiunti lesioni danno riflesso congiunti danno riflesso congiunti macroleso danno riflesso congiunti quantificazione danno riflesso congiunti prescrizione danno ai congiunti del macroleso danno da morte congiunti danni congiuntivite danno congiunti morte danno morte congiunto tabelle milano danno morte congiunto calcolo danni morte congiunto danno da morte congiunti danno morte congiunto milano danno morte congiunto prescrizione danno congiunti lesioni danno riflesso congiunti lesioni danno non patrimoniale congiunti lesioni gravi danno riflesso congiunti danno riflesso congiunti prescrizione danno riflesso congiunti danno riflesso congiunti lesioni danno riflesso congiunti macroleso danno riflesso congiunti prova danno riflesso congiunti macroleso quantificazione danno riflesso prossimi congiunti danno riflesso ai prossimi congiunti 2 danno riflesso congiunti macroleso danno riflesso congiunti macroleso quantificazione danno riflesso congiunti quantificazione danno riflesso congiunti macroleso quantificazione danno riflesso congiunti prescrizione danni riflessi ai prossimi congiunti prescrizione danno ai congiunti del macroleso 2 danno da morte congiunti danno da morte congiunto danno da morte congiunto tabelle milano danno da morte congiunto calcolo danno da morte prossimi congiunti danno da morte del congiunto danno da morte del congiunto tabelle milano danno patrimoniale da morte congiunto quantificazione danno da morte congiunto.
TRIBUNALE DI LECCE Sezione I Sentenza 16 febbraio 2021, n. 498 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE CIVILE DI LECCE Prima Sezione in persona della dr.ssa Viviana Mele, quale giudice monocratico, ha emesso SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. —- del R.G.A.C.C. dell’anno …., trattenuta in decisione nell’udienza del 12 novembre 2020 e vertente TRA MEVIO XXXXX, CAIA YYYYYYY, ZZZZZZZZ XXXXX, TIZIO XXXXX, V. XXXXX rappresentati e difesi dall’avv. C. R. ATTORI E AZIENDA SANITARIA LOCALE , in persona del l.r. p.t. rappresentata e difesa dall’avv. PPPPPPPPPP CONVENUTA CON LA CHIAMATA IN CAUSA DI ASSICURAZIONE L., in persona del lr. p.t. Rappresentata e difesa dall’avv. N. QQQQQQ TERZA CHIAMATA IN CAUSA E DOTT. T. G. Rappresentato e difeso dall’avv. F. M. TERZO CHIAMATO IN CAUSA E I. ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del l.r. p.t. Rappresentato e difeso dall’avv. M. M. TERZO CHIAMATO IN CAUSA Oggetto: Responsabilità professionale Conclusioni delle parti: come da verbale di udienza del 12 novembre 2020 MOTIVI DELLA DECISIONE I sig.ri Mevio XXXXX, YYYYYYY Caia, ZZZZZZZZ XXXXX, Tizio XXXXX e V. XXXXX hanno esposto che il sig. Mevio XXXXX è stato ricoverato in regime di Day Surgery il giorno 06.10.2009 presso l’Ospedale di CITTA’ – per esami propedeutici ad intervento di plastica con rete di ultrapro, resosi necessario per la presenza di ernia inguinale bilateriale – e hanno dedotto che, dopo aver eseguito i controlli e aver compiuto la consulenza anestesiologica,
il paziente è stato sottoposto all’intervento in data 16.10.2009. Gli attori hanno lamentato che, al termine dell’intervento, il paziente non è stato dimesso ed è stato ricoverato presso il reparto di chirurgia, dove alle ore 20:00 gli è stato sottoposto un modulo di consenso informato da sottoscrivere, in presenza di difficoltà a muovere le gambe e di mancata ripresa della funzione urinaria. Gli attori hanno quindi dedotto che il sig. Mevio XXXXX è stato cateterizzato la mattina successiva e, a causa di problemi nella mobilità degli arti inferiori, è stato trasferito presso l’Ospedale OSPEDALE PUBBLICO di CITTA 2, ove è stata constatata la presenza di un consistente riversamento di sangue dal midollo spinale fino alla nuca. Gli attori hanno dunque lamentato che il paziente, a causa dell’imperizia dei medici che lo ebbero in cura, ha riportato gravi disturbi neuromotori e sfinterici, perdendo la propria autonomia e andando incontro a gravissime lesioni personali, come da consulenza espletata in sede penale. Esposto quanto sopra, gli attori hanno chiesto la condanna della ASL al risarcimento del danno patito dal sig. Mevio XXXXX (a titolo di danno biologico ed esistenziale/dinamico-relazionale, oltre al danno da perdita di chance) e dai restanti attori (moglie e figli), per la perdita del rapporto parentale con il congiunto.
ASL CITTA 2 si è costituita con propria comparsa, contestando le censure mosse dalla controparte e ritenendo che l’intervento sia stato eseguito correttamente e che i danni riportati dall’attore siano conseguenza dei rischi correlati all’intervento cui è stato sottoposto. Parte convenuta ha poi contestato il quantum debeatur e ha chiesto l’autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia assicurativa, al fine di essere manlevata da questa in caso di condanna. ASSICURAZIONE L. si è costituita con propria comparsa, eccependo l’inoperatività di entrambe le polizze invocate da parte attrice, in quanto la prima è stata disdetta prima della denuncia e la seconda – vigente al tempo della denuncia – non copre la fattispecie per cui è causa, in virtù della clausola claim made e della mancata tempestiva comunicazione della pendenza del sinistro da parte dell’assicurata al momento della prima conoscenza della richiesta di risarcimento. ASSICURAZIONE L. ha poi chiesto ed ottenuto l’autorizzazione alla chiamata in causa del dott. G. T., medico anestesista, al fine di esercitare la rivalsa nei confronti di quest’ultimo, per la parte imputabile alla sua responsabilità per colpa grave. Il dott. T. si è costituito con propria comparsa, eccependo l’inammissibilità della chiamata in causa da parte della compagnia, in quanto è stata autorizzata la chiamata in rivalsa ma è stata esercitata azione di surroga. Il dott. T. ha poi contestato an e quantum della domanda attorea e ha chiesto ed ottenuto l’autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia assicurativa, al fine di essere manlevata da questa. I. Assicurazioni s.p.a. si è costituita con propria comparsa, aderendo alle eccezioni del proprio assicurato, evidenziando che la propria polizza è a seconda richiesta e resistendo alla domanda attorea. In corso di causa parte attrice ha rinunciato alla richiesta di risarcimento del danno da perdita di chance. Gli attori hanno anche dichiarato la rinuncia dell’azione introdotta dai figli per il danno patito, ma non vi è stata accettazione della relativa rinuncia da parte dei contraddittori. La causa è stata istruita con prova testimoniale e CTU ed è stata trattenuta in decisione, con concessione del termine M. di legge per conclusionali e repliche. ***
La controversia in esame attiene all’azione per responsabilità professionale esercitata dal sig. Mevio XXXXX e dai suoi familiari nei confronti della ASL, in relazione al danno per effetto dell’intervento cui il paziente è stato sottoposto in data 16.10.2009 e della successiva condotta dei sanitari che lo ebbero in cura. Le questioni controverse, di natura sostanziale e processuale, sono molteplici. Si procede dunque ad un esame specifico di ciascuna di esse. a) La responsabilità della ASL. Prima di esaminare il merito della questione, occorre in via preliminare chiarire alcuni aspetti generali in materia di responsabilità della struttura sanitaria. Come noto, l’ampio dibattito sviluppatosi nel corso degli anni ha portato pacificamente la giurisprudenza prima e il legislatore poi a ritenere che la responsabilità della struttura ospedaliera nei confronti del paziente sia di tipo contrattuale. Si sono tuttavia registrati nel corso degli anni diversi orientamenti in merito alla ripartizione dell’onere probatorio.
La Cassazione ha precisato a Sezioni Unite che “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (nella specie la .S.C. ha cassato la sentenza di merito che – in relazione ad una domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una casa di cura privata per aver contratto l’epatite C asseritamente a causa di trasfusioni con sangue infetto praticate a seguito di un intervento chirurgico – aveva posto a carico del paziente l’onere di provare che al momento del ricovero egli non fosse già affetto da epatite)” (Cass. civ., SU, n. 577 dell’11.1.2008). Anche la giurisprudenza successiva, in merito alla ripartizione dell’onere della prova, ha chiarito che
“Nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, l’attore danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno. Ne consegue che qualora, all’esito del giudizio, permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore” (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 20547 del 30/09/2014). In tempi recenti è stato tuttavia specificato che “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla vedova di un paziente deceduto, per arresto cardiaco, in seguito ad un intervento chirurgico di asportazione della prostata cui era seguita un’emorragia, sul rilievo che la mancata dimostrazione, da parte dell’attrice, della riconducibilità eziologica dell’arresto cardiaco all’intervento chirurgico e all’emorragia insorta, escludeva in radice la configurabilità di un onere probatorio in capo alla struttura)” (Cass. Civ., Sez. 3 – , Sentenza n. 18392 del 26/07/2017). Tale indirizzo è stato confermato dalla giurisprudenza successiva: “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla paziente e dai suoi stretti congiunti, in relazione a un ictus cerebrale che aveva colpito la prima a seguito di un esame angiografico, sul rilievo che era mancata la prova, da parte degli attori, della riconducibilità eziologica della patologia insorta alla condotta dei sanitari, ed anzi la CTU espletata aveva evidenziato l’esistenza di diversi fattori, indipendenti dalla suddetta condotta, che avevano verosimilmente favorito l’evento lesivo)” (Cass. Civ., Sez. 3 – , Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018). In ogni caso, l’accertamento dell’esistenza del nesso causale deve essere compiuto secondo il criterio del “più probabile che non”: “In tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”. Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso” (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 08/07/2010). Anche in tempi recentissimi, Cass. Civ., Sez. 3 – , Ordinanza n. 21008 del 23/08/2018, ha ribadito che occorre accertare il nesso causale secondo la regola del “più probabile che non”: “La prova dell’inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità per la morte del paziente, occorrendo altresì il raggiungimento della prova del nesso causale tra l’evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell’evento stesso all’ipotetico responsabile, la quale presuppone una valutazione nei termini del c.d. “più probabile che non””. Chiarito quanto sopra in linea generale, si procede ora all’esame del caso di specie. In via preliminare, deve esaminarsi la posizione inerente la eventuale responsabilità della ASL nell’attività medica svolta sul sig. Mevio XXXXX. Al riguardo, ritiene la scrivente di condividere le conclusioni cui sono giunti i CCTTUU dott. Vincenzo Xe dott. Tommaso Y, in quanto redatte con risposta adeguata e completa ai quesiti e alle osservazioni mosse dai CCTTPP. In primo luogo, si ripercorre la cronologia della vicenda per cui è causa: in data 06.10.2009 il sig. XXXXX Mevio si ricoverò, in regime di Day Surgery, presso l’U.O. di Chirurgia del P.O. di CITTA’ per essere sottoposto ad intervento chirurgico di “plastica con rete di ultrapo” per la presenza di ernia inguinale bilaterale. Furono eseguiti pertanto la routine ematologica, un elettrocardiogramma ed una radiografia del torace. In data 10.10.2009, il sig. Mevio XXXXX venne sottoposto a consulenza anestesiologica, che non pose controindicazioni all’intervento. Il 16.10.2009 si ricoverò presso la medesima unità operativa per l’esecuzione dell’intervento chirurgico e verso le ore 12:00 venne chiamato per entrare in sala operatoria per essere sottoposto ad ernioplastica bilaterale. Dopo oltre quattro ore venne riportato in una delle stanze della struttura del day hospital. Dopo circa tre ore, il medico di turno dispose il trasferimento del paziente al reparto di chirurgia. La mattina seguente, il paziente fu cateterizzato, in assenza di mobilità degli arti inferiori. Verso le ore 8:00 del 17.10.2009 il primario del reparto fece chiamare l’anestesista dott. OOOOOOOO e una dottoressa neurologa e dopo consulto con questi dispose il trasferimento in ambulanza presso l’Ospedale OSPEDALE PUBBLICO di CITTA 2. Giunto presso tale P.O., il XXXXX venne preso in cura dal dott. Carlo che dopo averlo visitato lo mandò immediatamente in reparto per una risonanza magnetica, che però non fu possibile effettuare. Il paziente venne quindi portato in rianimazione e solo dopo 4/5 ore fu possibile effettuare la risonanza, dalla quale emerse che tutto il midollo spinale sino alla nuca era interessato da un consistente riversamento di sangue, da cui scaturì uno stato di paralisi degli arti inferiori. In tale reparto il paziente rimase degente sino alle ore 13:00 del lunedì 19.10.2009, per essere quindi trasferito al reparto di Neurochirurgia. Ripercorsa la storia clinica, si procede ora all’esame delle conclusioni cui sono giunti i consulenti nominati dal Tribunale, evidenziando e sottolineando con caratteri differenziati i tratti salienti della perizia [sottolineatura e grassetto aggiunti dalla scrivente, n.d.r.]. Nella discussione medico-legale, i CCTTUU hanno dedotto: “Dalla disamina documentale e dai rilievi clinici e strumentali osservati, appare evidente come il Sig. XXXXX Mario abbia subito un danno iatrogeno grave e permanente a seguito del tentativo di anestesia subaracnoidea condotta in data 16.10.2009 presso l’U.O. del P.O. di CITTA’, finalizzata all’esecuzione di un intervento chirurgico di Ernioplastica Inguinale bilaterale. Non emergono, infatti, perplessità o dubbi interpretativi sulla natura del danno e sulla correlazione causale tra il tentativo di anestesia subaracnoidea e l’ematoma correlato, con la sua evoluzione patologica fino alla paraplegia e incontinenza sfinterica sofferta. Nel caso specifico del sig. XXXXX, l’anestesia subaracnoidea era certamente la procedura indicata e da preferirsi all’anestesia generale: molto efficace nel coprire la sede di intervento, garantiva una ottima anestesia intraoperatoria e buona analgesia postoperatoria, gravata da minori rischi di complicanze postoperatorie quali la trombo-embolia venosa o le complicanze respiratorie. In particolare, la valutazione preoperatoria del sig. XXXXX aveva evidenziato un reperto radiografico polmonare che lo esponeva ad un rischio maggiore di complicanze postoperatorie respiratorie rispetto ad un soggetto sano. [Radiografia torace 6/10/09: ‘…segni di broncopatia cronica ostruttiva con associato marcato rinforzo dell’interstizio peribroncovasale.’]. L’anestesia subaracnoidea o spinale è gravata da una incidenza molto bassa di complicanze emorragiche quali l’emorragia subaracnoidea, l’ematoma spinale o epidurale. Queste complicanze sono descritte in letteratura, sebbene siano un’evenienza molto rara. L’incidenza è variabile a seconda dei lavori presenti in letteratura e va da un caso ogni 150.000 a 250.000 tentativi di anestesia subaracnoidea. Addentrandoci nella disamina della condotta sanitaria documentata in atti, appare opportuno rilevare diverse criticità cliniche meritevoli di adeguata argomentazione. Di primaria importanza appare l’evidenza che il Sig. XXXXX, all’epoca dei fatti, assumeva un farmaco anticoagulante che agiva sull’aggregazione delle piastrine inibendole permanentemente: la ticlopidina. Le linee guida dell’epoca prevedevano 10 giorni di sospensione della ticlopidina prima di poter eseguire l’anestesia subaracnoidea. La ticlopidina ha condizionato in maniera determinante la manifestazione emorragica (ha impedito la corretta emostasi spontanea) e ne ha aggravato l’estensione (inusitatamente vasta). Il sanguinamento è la principale complicanza della terapia anticoagulante. Quando si verifica un sanguinamento nello spazio chiuso del canale vertebrale, l’ematoma in espansione può determinare una compressione del midollo spinale o della cauda equina, che a sua volta può condurre a ischemia e infarto del midollo spinale. Questo in sintesi il processo fisiopatologico che ha determinato i sintomi e i deficit neurologici attuali del Sig. XXXXX. I fattori di rischio comprendono: alterazione dell’emostasi (compresa la coagulopatia indotta da farmaci), età avanzata, anormalità della colonna vertebrale, assunzione concomitante di più farmaci con effetti sull’emostasi, ripetuti tentativi di anestesia subaracnoidea, ricorso ad anestesia generale. Si ritiene che i pazienti più anziani siano a maggior rischio per la più alta incidenza di anomalie degenerative della colonna che possono rendere difficoltoso il reperimento dello spazio subaracnoideo dove va iniettato l’anestetico. A dispetto del rischio di una simile complicanza, l’anestesia subaracnoidea è ritenuta più sicura e quindi da preferire rispetto all’anestesia generale. Esaminando la documentazione disponibile, si evidenzia una grave incongruenza sull’indicazione alla sospensione della ticlopidina. In un documento agli atti su carta intestata del Presidio Ospedaliero di CITTA’, datato 23/09/09 ed a firma del chirurgo, si prescrive al Sig. XXXXX di ‘… sospendere ticlopidina 250 mg 7 giorni prima dell’intervento…’. Dalla cartella clinica della Day Surgery Unit datata 06/10/09 si evince invece dall’anamnesi che il paziente è: ‘… in trattamento antiaggregante…che attualmente ha sostituito con fraxiparina 0.4’. L’intervento chirurgico è stato condotto 10 giorni dopo (in data 16/10/09). L’anestesia subaracnoidea, quindi, sarebbe stata controindicata nel primo caso, mentre era possibile effettuarla nel secondo. Difficile discriminare tra le 2 prescrizioni e sulla realtà temporale della effettiva sospensione” (pag. 15). Il profilo di responsabilità qui in esame è fortemente dibattuto tra le parti, proprio a causa della presenza di due documenti che contengono indicazioni di carattere diverso. Il conflitto deve necessariamente risolversi, sotto un profilo giuridico, a vantaggio della parte che non è onerata della prova e, dunque, a vantaggio di parte attrice. In presenza di due diverse indicazioni di sospensione del farmaco anticoagulante, infatti, laddove non sia possibile accertare quale delle due prescrizioni corrisponda alla realtà dei fatti, dovrà concludersi per l’assenza di prova, da parte della ASL, di aver adempiuto correttamente e con diligenza alla prestazione cui era obbligata. Orbene, nel caso di specie vi è in atti un documento del 23.09.2009, sottoscritto dal dott. Davide Schito, in cui si dispone che il paziente sentito dai consulenti in sede di indagini del PM, dichiarò di aver sospeso il farmaco 7 giorni prima dell’intervento, così come era stato a lui prescritto. Nella cartella clinica del 06.10.2009 viene affermato che il paziente ha sostituito il trattamento anticoagulante con fraxiparina 0.4. Tale affermazione, in quanto contenuta nella parte dedicata all’anamnesi, non è coperta da efficacia probatoria privilegiata quanto alla effettiva sostituzione del farmaco, non essendo una sostituzione che il medico ha accertato direttamente (si tratta di dichiarazione resa dal paziente). La circostanza che il documento del 23.09.2009 non fosse presente in cartella clinica e non fosse consultabile non muta i termini della questione: i medici avevano l’obbligo di accertarsi che il giorno 16.10.2009 il sig. XXXXX avesse realmente sospeso il farmaco antiaggregante da almeno 10 giorni, proprio in ragione dell’estrema importanza che la sospensione aveva ai fini del rischio connesso all’assunzione del farmaco medesimo. Non vi è prova che il personale sanitario si sia accertato dell’effettiva sospensione nei 10 giorni precedenti l’intervento, mentre vi è la prova che un medico della ASL prescrisse al paziente, con indicazione scritta, di sospendere il farmaco solo 7 giorni prima dell’operazione, in contrasto con le indicazioni delle linee guida. Le conclusioni dei CCTTUU sono dunque condivise, in quanto conformi al quadro probatorio emerso nel corso del giudizio ed alle regole in tema di ripartizione dell’onere probatorio. I consulenti proseguono affermando: “Per l’anestesia subaracnoidea si utilizza un ago sottile. Nel caso del Sig. XXXXX, l’operatore anestesista utilizzava un ago di calibro 22G, quindi maggiore tra quelli comunemente disponibili in commercio. Aghi di calibro minore, quali 25-27G, vengono utilizzati proprio per ridurre la traumaticità. Tuttavia anche con aghi sottilissimi di tale calibro è comune osservare reflusso di sangue nel cono dell’ago, come avvenuto nel secondo tentativo di anestesia subaracnoidea riportato nella Relazione Anestesiologica del 16/10/09. È altresì pratica comune ripetere più di un tentativo per raggiungere con l’ago lo spazio subaracnoideo prima di desistere e procedere all’anestesia generale come accaduto nel caso del Sig. XXXXX. La complicanza emorragica è una emergenza medico-chirurgica tempo dipendente. Prima si pone la diagnosi corretta, meno è estesa l’emorragia e più risolutivo è l’intervento chirurgico da eseguire (evacuazione sangue ed emostasi). Meno a lungo rimane il sangue in sede e minore è il danno neurologico. Un intervento chirurgico eseguito entro le 8-12 dalla comparsa dei sintomi neurologici condiziona una prognosi quoad valetudinem estremamente favorevole. Oltre le 12 ore, le percentuali di recupero si riducono drasticamente. L’esito finale dipende quindi: dal tempo che intercorre tra la formazione dell’ematoma e la decompressione chirurgica, dalla velocità con cui insorge l’ematoma, dalla severità dei deficit neurologici preoperatori e dalle dimensioni dell’ematoma. Nel caso del Sig. XXXXX il tempo intercorso tra l’insulto iniziale (traumatismo da tentativo di anestesia subaracnoidea) e la diagnosi, con una ampia estensione dell’ematoma, era tale da non consentire più il trattamento chirurgico necessario. Il monitoraggio postoperatorio rappresenta il cardine essenziale e fondamentale per garantire una diagnosi precoce della complicanza emorragica. Ma la sorveglianza post chirurgica, documentata in Cartella Clinica, presenta notevoli incongruenze: a) il monitoraggio postoperatorio del giorno 16/10 viene riportato nel foglio di cartella intitolato in alto a sinistra 1 Accesso – Accettazione del Paziente sotto la nota di valutazione preoperatoria del 6/10, prima della descrizione dell’intervento (2 Accesso) e vi figura una sola nota delle ore 21.00: ‘ripresa spontanea della diuresi. Motilità conservata degli arti inferiori. Dolore. Lixidol 1 fl i.m.’; b) il diario clinico continua il giorno 17/10 nel foglio di cartella intitolato in alto a sinistra 3 Accesso – Controllo e Follow Up con la nota delle ore 6.00: ‘Il paziente lamenta parestesie e paraparesi…’; c) il diario clinico torna ad essere annotato nel foglio 1 Accesso – Accettazione del Paziente in data 17/10 alle ore 7.30: ‘….difficoltà motorie degli arti inferiori…’; d) il diario ritorna al foglio di cartella intitolato in alto a sinistra 3 Accesso – Controllo e Follow Up con la nota delle ore 10 circa: ‘Il paziente viene trasferito presso la U.O. di Neurochirugia dell’Ospedale V. Fazzi’; e) riprende nuovamente sul foglio di cartella intitolato in alto a sinistra 1 Accesso – Accettazione del Paziente con la consulenza neurologica delle ore 11.40. Non è disponibile agli atti la cartella infermieristica con relativo monitoraggio, grafica dei parametri vitali e terapia effettuata. Documento richiesto ma non disponibile presso gli archivi ospedalieri. Non è quindi possibile documentare se il paziente è stato visto dal personale infermieristico prima delle 21.00 del 16/10, se è stato somministrato il Lixidol prescritto, se e quando al paziente è stato introdotto un catetere vescicale e se il paziente è stato controllato e in quali condizioni fosse tra le 21.00 del 16/10 e le 6.00 del 17/10. Da tutti questi elementi, evidentemente incongruenti, emerge comunque che il sistema non ha funzionato: la complicanza emorragica (per quanto rara e sicuramente aggravata dall’antiaggregante) non è stata diagnosticata in tempo utile per intervenire chirurgicamente. La diuresi segnalata può essere anche espressione di incontinenza urinaria (di cui il Sig. XXXXX soffre tutt’ora e con catetere a permanenza). Quello che si evince con estrema chiarezza è che il paziente non è stato dimesso in giornata dal reparto di Day Surgery Unit, come normalmente accade e dove non è previsto il pernottamento o la degenza, bensì è stato trasferito presso un servizio di ricovero ordinario. Le motivazioni di tale necessità non sono riportate in cartella ma appare ragionevole dedurre che vi sia stato un decorso post-operatorio più complesso ed ostativo alle dimissioni, come potrebbero essere forti dolori (maggiori di quanto atteso da un intervento di day surgery come quello subito dal Sig. XXXXX) o difficoltà sensitivo-motorie agli arti inferiori. Merita di essere sottolineato come qualsiasi alterazione della sensibilità o motilità, nonché alterazione della continenza urinaria non è spiegabile dalla sola anestesia generale, non essendo stato possibile effettuare nel Sig. XXXXX l’anestesia subaracnoidea. Sempre con riferimento al monitoraggio post-operatorio, la fine del turno dell’anestesista non può rappresentare un esimente né tantomeno giustificare la mancata vigilanza clinica anche orientata a valutare gravi complicanze dell’anestesia subaracnoidea. Tali considerazioni ed interpretazioni devono essere enfatizzate soprattutto in relazione ai numerosi fattori di rischio specifico di cui era portatore il XXXXX: assunzione di terapia antiaggregante, ripetuti tentativi di anestesia subaracnoidea, alterazioni della conformazione anatomica (come riportato dall’anestesista nella Relazione Anestesiologica del 16/10/2009), nonché il ricorso ad anestesia generale che diventa fattore confondente. Il monitoraggio post-operatorio anche in un servizio di day surgery ha lo scopo di intercettare e affrontare complicanze sia chirurgiche che anestesiologiche. Il sistema sembra aver funzionato solo in parte avendo aumentato e prolungato il monitoraggio, ricorrendo al ricovero, ma non ad una valutazione corretta e tempestiva dei sintomi neurologici che avrebbe potuto consentire una diagnosi più rapida e offrire maggiori possibilità terapeutiche. L’assenza dell’anestesista non può rappresentare una valida giustificazione: il XXXXX veniva esposto a possibili complicanze, non controllabili, valutabili e diagnosticabili in un ambiente privo di adeguata sorveglianza clinica e specialistica. Tale carenza sanitaria organizzativa avrebbe dovuto orientare a non eseguire la procedura anestesiologica condotta. Nelle strutture di day surgery viene comunemente praticata l’anestesia subaracnoidea ed il sistema deve essere costruito e tarato di conseguenza” (pagg. 16- 19). La ASL ha ritenuto che le conclusioni cui sono giunti i CTU siano state rese con criterio di valutazione ex post, in virtù di quanto accaduto, anziché con valutazione ex ante, come dovrebbe essere. La censura non è condivisibile. Come si è già ricordato, è onere della ASL provare di aver adeguatamente adempiuto alla propria prestazione e, dunque, provare di aver sottoposto il sig. XXXXX ad adeguata sorveglianza post-operatoria, in ragione dei numerosi fattori di rischio cui lo stesso era esposto (terapia antiaggregante, duplice tentativo fallito di anestesia subaracnoidea, anestesia totale). Tuttavia, la ASL non ha fornito la cartella infiermieristica dalla quale sarebbero dovuti emergere i controlli cui il paziente – sottoposto infine ad anestesia generale, in presenza di diversi fattori di rischio – si sarebbe dovuto sottoporre nelle immediatezze dell’intervento. Il primo controllo di cui la ASL dà prova è collocato alle ore 21:00, in un momento cronologicamente di troppo successivo rispetto al termine dell’intervento (ore 16:00). I CCTTUU hanno chiarito come la tempestività dell’intervento sia un elemento essenziale nel caso di emorragia e come il passaggio di 12 ore renda di fatto nulle le possibilità di intervento con risultato positivo. Nel caso di specie, a fronte di molteplici fattori di rischio e di intervento eseguito con modalità diverse da quelle preventivate, la ASL non ha compiuto il dovuto monitoraggio tempestivo, lasciando il paziente privo di controlli fino alle ore 21:00. E ciò, nonostante fosse stato disposto – per ragioni che la ASL non ha saputo chiarire, confermando la presunzione della presenza di complicazioni di cui non è stata fatta annotazione – il ricovero del paziente, annullando così le dimissioni originariamente previste. L’affermazione della ASL, secondo cui i pazienti ricoverati in Day Hospital vengono spesso ricoverati poi in reparto, non solo non è stata provata in corso di causa, ma è anche in contrasto con le caratteristiche proprie del Day Hospital. La circostanza che il sig. XXXXX, sottoposto a duplice tentativo fallimentare di anestestia subaracnoidea e a conseguente anestesia totale, sia stato ricoverato presso il reparto anziché essere dimesso dimostra che la previsione pre-operatoria non potè essere rispettata e che fu necessario trattenere il paziente. Ciò imponeva un controllo immediato e costante del sig. XXXXX, non essendo possibile attendere le ore 21:00 per un primo controllo e far passare altre 9:00 ore prima di un secondo controllo, per giungere quindi al momento in cui, scoperti i problemi agli arti inferiori, il problema non avrebbe più potuto essere utilmente risolto. Al contrario, il sig. XXXXX era un paziente che, per le problematiche personali e l’evoluzione dell’anestesia, si sarebbe dovuto tenere sotto costante controllo, con annotazione puntuale di ogni attività espletata. Quanto alla ripresa spontanea dell’attività urinaria alle ore 21:00, va evidenziato che la stessa è in contrasto con la circostanza che il paziente, il mattino successivo, fu ricoverato presso l’Ospedale OSPEDALE PUBBLICO di CITTA 2 mentre era cateterizzato. Il catetere, peraltro, non sarà mai più rimosso, in ragione degli esiti della condotta dei sanitari. L’annotazione della ripresa spontanea della minzione è dunque stata compiuta senza che ciò corrispondesse alla realtà: a conferma della negligenza dei sanitari che ebbero in cura il paziente. I CCTTUU proseguono infatti affermando quanto segue: “Preso atto di quanto sopra argomentato e dei diversi rilievi critici descritti, sembrano validamente delinearsi profili di censurabilità nella condotta sanitaria della Struttura Ospedaliera di CITTA’, soprattutto in assenza di una scarsa organizzazione che ha impedito un adeguato e costante monitoraggio post-operatorio in soggetto sottoposto a ripetuti tentativi infruttuosi di anestesia spinale e con fattori di rischio emorragico. La ritardata diagnosi di un imponente ematoma spinale ha determinato il severo disturbo neurologico sofferto dal ricorrente, impedendo l’esecuzione di un tempestivo intervento neurochirurgico necessario per scongiurare la compressione midollare ed i deficit neurologici poi espressi ed esitati. Appare quindi evidente che il contratto stipulato dalla Azienda Ospedaliera con il sig. XXXXX, volto a fornire tramite le proprie strutture e dipendenti ogni prestazione diagnostica e terapeutica che si rendesse necessario o comunque utile, non è stato rispettato e l’obbligazione che ne scaturisce non è stata esattamente adempiuta. Incombe in capo al creditore danneggiato unicamente l’onere di provare che la prestazione era di facile ed abituale esecuzione e che dalla prestazione fornita è derivato un peggioramento della situazione anteriore. Da quanto esposto appare del tutto chiaro che il trattamento anestesiologico condotto ed il monitoraggio successivo non presentavano particolari difficoltà operative. Per quanto concerne il peggioramento, non può dubitarsi che la condizione deficitaria neurologica lo configuri. A seguito di un semplice intervento chirurgico di ernioplastica inguinale è conseguito un importante danno neurologico. Assolto tale onere probatorio dal creditore danneggiato, è in facoltà del debitore danneggiante di provare l’impossibilità della prestazione dovuta a causa non a lui imputabile, secondo quanto previsto dall’art. 1218 c.c. Chiarita la sussistenza di responsabilità contrattuale all’Ente erogatore le prestazioni sanitarie, va rilevato che l’inadempienza contrattuale sono conseguenza diretta di una condotta colposa” (pag. 20). Poiché la ASL non ha provato di aver compiuto un monitoraggio costante del paziente e ha provato unicamente un controllo delle ore 21:00, con annotazioni non corrispondenti alle reali condizioni del paziente, e un successivo controllo di molte ore successivo, sussiste certamente la responsabilità della convenuta per il danno patito da parte attrice. Del resto, nella risposta alle osservazioni dei CCTTPP i consulenti d’ufficio ribadiscono le lacune della cartella clinica prodotta: “I consulenti inquadrano adeguatamente (forse inconsapevoli) il cardine della problematica clinica e medico-legale: una cartella clinica estremamente carente, compilata ora in senso retrogrado ora in senso anterogrado, in modo assolutamente confuso, oltre che mancare in toto della parte infermieristica (che avrebbe potuto confermare l’algesia intensa reclamata nella testimonianza del XXXXX, il timing della cateterizzazione e tanti altri dettagli molto importanti ai fini della disamina richiesta). Tali carenze documentali orientano, nella migliore delle ipotesi, verso un sistema organizzativo insufficiente ed incapace ad intercettare tempestivamente il sanguinamento conseguente al tentativo di anestesia spinale e quindi antecedente all’intervento chirurgico condotto” (pag. 24). A conferma della carenza nell’operato dei sanitari. Tali chiarimenti sono conformi all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 6209 del 31/03/2016, secondo cui “In tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente”. Nel caso di specie, peraltro, alle estreme lacune nella cartella clinica, ai contrasti documentali e all’assenza di produzione della cartella infermieristica si è aggiunta una prova testimoniale in cui medici e infermieri hanno dichiarato di non ricordare nulla dell’accaduto, a conferma della circostanza che – anche a voler escludere una testimonianza reticente – il personale della ASL non comprese la gravità dell’evento e non lo trattò dunque con la dovuta attenzione. Si condividono dunque le conclusioni dei CCTTUU, espresse alla pag. 26 della perizia, che si trascrivono: “In base alle considerazioni tutte sin qui esposte si ritiene di poter così rispondere ai quesiti posti dal Giudice Istruttore: 1) Sulla base della documentazione sanitaria esaminata e dalle risultanze degli accertamenti clinici agli atti, il sig. XXXXX risulta affetto da Paraparesi da emorragia peridurale e subaracnoidea diffusa midollare e cerebrale secondaria a reiterati tentativi infruttuosi di anestesia spinale condotta per preparazione ad intervento di plastica ernia inguinale bilaterale. Tale infermità è causalmente riconducibile ad uno scarso monitoraggio post operatorio condotto durante la degenza ospedaliera presso U.O. di Chirurgia dell’Ospedale Civile “Sacro Cuore di Gesù” di CITTA’, impedendo la tempestiva diagnosi dell’emorragia loco-regionale poi evoluta in maniera devastante senza un necessario e celere intervento neurochirurgico decompressivo. 2) Come ampiamente espresso nel corpo della relazione, esistono delle discrepanze documentali temporali sulla prescrizione della sospensione della terapia farmacologica preinterventistica (ticlopidina), controindicata per la procedura di anestesia spinale e chirurgica e certamente favorevole e determinante nell’innesco di una temibile complicanza emorragica. Difficile discernere e discriminare tra i 2 documenti presenti in atti”. A pag. 3 dei chiarimenti datati 20.09.2019, i CCTTUU hanno chiarito: “Le condizioni del paziente e il decorso clinico-anestesiologico predisponevano il signor XXXXX ad un maggior rischio di complicanze emorragiche. Nel caso specifico i fattori di rischio erano: alterazione dell’emostasi (compresa la coagulopatia indotta da farmaci), età avanzata, anormalità della colonna vertebrale, ripetuti tentativi di anestesia subaracnoidea, ricorso ad anestesia generale. Alcune condizioni come l’età e le anormalità della colonna vertebrale non erano modificabili. Nonostante tali fattori di rischio era lecito comunque il tentativo di anestesia spinale. Diversamente sembra porsi l’alterazione dell’emostasi indotta da farmaci, certamente meritevole di una migliore gestione alla luce dell’incongruenza tra le due versioni presenti in atti sui tempi di sospensione della ticlopidina. Anche i ripetuti tentativi di anestesia subaracnoidea ed il ricorso ad anestesia generale rappresentano ulteriori fattori di rischio che avrebbero dovuto indurre maggior attenzione verso le possibili complicanze a cui il paziente era maggiormente esposto. Gli esiti dell’evento sono interamente riconducibili all’emorragia e non imputabili ad altre condizioni morbose antecedenti e presenti nel paziente”. Non sussiste dunque alcun dubbio sulla responsabilità della ASL nella determinazione dei danni patiti dagli attori, secondo quanto sarà di seguito specificato, essendo ampiamente soddisfatto il criterio civilistico del “più probabile che non”. b) Il danno non patrimoniale patito dal sig. XXXXX Mevio a causa della condotta dei sanitari Il paziente ha chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, nelle sue diverse componenti del danno biologico, danno morale ed esistenziale, proponendo la personalizzazione tanto del danno da inabilità temporanea quanto di quello da invalidità permanente. Quanto al danno da inabilità temporanea, i CCTTUU hanno dedotto che questo può compendiarsi equitativamente nella inabilità temporanea assoluta di 3 mesi fatti seguire da ulteriori 3 mesi di inabilità parziale al tasso medio del 50%. La determinazione del danno avviene riconoscendo la personalizzazione del valore base della diaria, come richiesto in atto di citazione, in funzione delle peculiari caratteristiche del caso di specie. Nella fattispecie in esame, infatti, il sig. XXXXX si è trovato a perdere la mobilità degli arti inferiori e le funzioni sfinteriche, per cui l’inabilità temporanea assoluta ha assunto connotati forti, non normalmente rinvenibili nei casi di ITT conseguenti a fatto illecito. Proprio in ragione dell’entità e della natura delle limitazioni patite, la diaria è calcolata, partendo dalla base prevista dalle Tabelle del Tribunale di Milano oggi in vigore (€98), con aumento del 30%, giungendo al valore di € 127,40. Tale importo è calcolato per i 90 gg. di ITT, giungendo ad € 127,40 x 90 = € 11.466,00. La stessa base di calcolo è mantenuta per l’ITP al 50%, protrattasi per ulteriori 90 giorni, giungendo all’importo di € 127,40 x 90 : 50% = € 5.733,00. Il danno da inabilità temporanea è dunque pari ad € 17.199,00 al valore attuale. Quanto agli esiti permanenti, i CTU hanno chiarito che “Sul piano menomativo, il quadro clinico attuale, ampiamente documentato con valutazioni strumentali e specialistiche, si compendia in una Paraparesi da emorragia peridurale e subaracnoidea e vescica neurologica con catetere a permanenza. Tale pregiudizio appare ragionevolmente riconducibile alle condotte sanitarie incongrue descritte e valutabile nella misura non inferiore all’80% (ottanta percento)” (pag. 21). Con la precisazione che “La menomazione esitata e sofferta dal XXXXX ha certamente inciso sulla sfera sessuale e psichica. Riteniamo tuttavia che la valutazione espressa nella misura dell’80% rappresenti globalmente l’intera posta di danno sofferta, nei suoi complessi risvolti funzionali, neurologici, psichici e sessuali” (pag. 23). Anche sotto tale profilo, parte attrice ha chiesto la personalizzazione del danno – aggiungendo anche la distinta componente del danno morale -, facendo leva sulle caratteristiche proprie delle lesioni patite (con perdita delle funzioni sfinteriche e della vita sessuale). In realtà i CCTTUU hanno chiarito che la percentuale dell’80% è stata determinata tenendo conto di tutte le componenti proprie delle lesioni patite dal sig. XXXXX, ivi comprese le limitazioni funzionali e gli aspetti psichici connessi alla grave menomazione. Come noto, le Tabelle del Tribunale di Milano sono state realizzate includendo in un valore onnicomprensivo di danno non patrimoniale una componente di danno biologico ed una componente standard di danno non patrimoniale inteso come danno morale o esistenziale, normalmente connesso all’entità delle lesioni costituenti il danno biologico. Le Tabelle in esame, dunque, nella determinazione del danno liquidabile includono le conseguenze di carattere morale, esistenziale, da vita di relazione normalmente riportate da coloro che vivono la medesima situazione del sig. XXXXX. La gravità delle lesioni, pertanto, non è in sé sufficiente a creare una presunzione di danno ulteriormente personalizzabile, essendo al contrario necessario che il sig. XXXXX dimostri che la sua situazione personale assume caratteristiche specifiche, ulteriori rispetto a quelle normalmente patite da chi ha subito la perdita della mobilità degli arti inferiori, delle funzioni sfinteriche e della vita sessuale. Nel caso di specie tale prova non è stata data e le allegazioni fornite sono state riferite tutte a componenti standard del danno, già incluse nelle Tabelle del Tribunale di Milano. Il danno è dunque calcolato facendo ricorso a tali Tabelle, a valore attuale, senza personalizzazione, tenendo conto che al momento dell’evento il danneggiato aveva 65 anni e che ha riportato IP all’80%, per un totale di € 649.339,00. Poiché si tratta – per tutte le voci sopra menzionate – di danno liquidato all’attualità, lo stesso deve essere maggiorato di soli interessi in misura legale, dalla data odierna al soddisfo. L’importo deve poi essere devalutato all’ottobre 2009 e maggiorato di interessi in misura legale, sull’importo di anno in anno rivalutato secondo l’indice ISTAT, dall’ottobre 2009 alla data odierna. c) Il danno da omessa informazione per la valida formazione del consenso Il sig. XXXXX ha dedotto di aver patito un danno ulteriore a causa della mancata adeguata informazione sul tipo di anestesia che avrebbe dovuto sopportare e dei rischi ad essa connessi. Al riguardo, l’attore ha dedotto che solo dopo l’intervento, verso le ore 20:00, un infermiere gli portò un secondo modulo da sottoscrivere, con informazioni complete sull’anestesia e i rischi relativi. L’affermazione non ha trovato conferma in corso di causa. È pacifico, infatti, perché riconosciuto dallo stesso attore, che in data 06.10.2009, in occasione del ricovero pre-operatorio, il sig. XXXXX compilò un modulo relativo all’analisi anestesiologica e sottoscrisse un documento contenente l’indicazione del tipo di anestesia da eseguire e l’affermazione di essere stato adeguatamente informato sui rischi relativi. Le nuore del sig. XXXXX, ascoltate come testimoni, hanno confermato che alle ore 20:00 fu portato all’attore un nuovo modulo di consenso informato da sottoscrivere. Le testimonianze, tuttavia, non appaiono attendibili, in quanto nel corso della prova assunta dalla scrivente è emerso che una delle nuore si premurò di fotografare l’infermiere che seguiva il suocero, prevedendo già – in un momento in cui non si erano manifestati danni irreversibili – l’azione da intraprendere ai danni della ASL. La fotografia che riproduce il volto dell’infermiere è infatti stata allegata unitamente alle allegazioni documentali di parte attrice. Il comportamento di un testimone che, nelle ore di ricovero del paziente, si preoccupa di precostituire una prova denota un eccessivo coinvolgimento emotivo nella vicenda e rende dunque il ricordo, nel tempo, inevitabilmente influenzato da tale coinvolgimento. Ad ogni modo, anche a prescindere da tale considerazione permane la prova che dieci giorni prima dell’intervento il sig. XXXXX fu sottoposto a colloquio con l’anestesista e sottoscrisse un modulo di consenso informato. Non risulta che il paziente, in un momento ancora lontano dall’intervento e, dunque, nel pieno della serenità, abbia manifestato di non aver compreso le informazioni che gli erano state fornite e abbia ritenuto di non disporre di elementi idonei a formare il proprio consenso. Ciò, nonostante fosse espressamente previsto che l’anestesista potesse modificare la tecnica concordata, ove ritenuto opportuno. Nel caso di specie il danno richiesto prescinde dagli esiti negativi dell’intervento ed attiene alla libera manifestazione di volontà da parte del paziente: “In materia di responsabilità per attività medicochirurgica, l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, con la conseguenza che l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti – rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all’integrità psicofisica – pregiudicati nelle due differenti ipotesi” (Cass. Civ., Sez. 3 – , Ordinanza n. 16892 del 25/06/2019). In ragione di un tanto, l’accertata sottoscrizione di un consenso informato in data 06.10.2009, 10 giorni prima dell’intervento, in assenza di allegazione e prova su elementi che in occasione di tale informativa non furono chiariti, esclude che parte attrice abbia subito un danno nei termini sopra precisati. Non si condivide poi la tesi di parte attrice, secondo cui “La prova del fatto che il XXXXX non fu adeguatamente informato sul tipo di anestesia che gli sarebbe stata praticata e soprattutto delle complicazioni che il tipo di anestesia poi effettivamente praticat a avrebbe potuto comportare, sta nella considerazione che DOPO l’intervento – verso le ore 20,00 – quando già i sanitari avevano capito che il decorso post -operatorio stava evolvendo precipitosamente verso il peggio, fu mandato frettolosamente un infermiere (sig. Tricarico Giorgio, ascoltato come teste) in reparto, il quale chiese che venisse sottoscritta una “dichiarazione di avvenuta informazione e di espressione al consenso dell’atto medico”, che in realtà era già stata sottoscritta in data 6.10.2009 in occasione della seconda visita pre -operatoria. Se davvero al sig. XXXXX fosse stata assicurata una adeguata e completa informazione su ciò che era scritto nella dichiarazione dallo stesso già firmata, non vi era alcuna necessità di richiederglino di sottoscrivere un’altra medesima dichiarazione, tanto più a distanza di oltre 4 ore dall’uscita dalla sala operatoria, quando il XXXXX non era neppure in grado di capire che cosa gli si stava chiedendo, trovandosi in preda a dolori fortissimi e a tremori che non gli consentivano neppure di prendere in mano la penna per firmare”. Il modulo sottoscritto dall’attore il 6.10.2009 è infatti dettagliato e completo e, comunque, non risulta carente rispetto a quello sottoscritto il 16.10.2009. La sottoscrizione di un secondo modulo non è dunque fatto da cui possa ricavarsi in via presuntiva la lesione del diritto alla piena formazione del consenso da parte dell’attore, in virtù di quanto precisato in precedenza. La Corte di Cassazione ha chiarito che “In materia di responsabilità sanitaria, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito con la quale era stata respinta la domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale sul presupposto che non solo gli attori non avevano allegato il presunto dissenso del congiunto, ma dalle risultanze istruttorie erano emersi elementi, come l’assenza di soluzioni terapeutiche alternative e il fatto che in precedenza il paziente si era sottoposto ad interventi analoghi, che deponevano per la presunzione di consenso al trattamento sanitario)” (Cass. Civ., Sez. 3 – , Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018). Nel caso di specie, parte attrice ha meramente dedotto, in conclusionale, che non si sarebbe sottoposta all’anestesia in caso di adeguata spiegazione sulle relative caratteristiche, ma non ne ha reso alcuna dimostrazione, neppure presuntiva. Al contrario, mai è emerso che il sig. XXXXX si sia preoccupato del tipo di anestesia da ricevere e abbia dunque dimostrato che il proprio consenso dipendesse dalle caratteristiche di essa. La domanda è dunque rigettata. d) Danno della sig.ra Caia YYYYYYY, coniuge Come noto, il risarcimento del danno non patrimoniale costituisce terreno fertile per il fiorire del dibattito giuridico, essendo costantemente contrapposte le due opposte esigenze di garantire un ristoro integrale dei soggetti lesi, da un lato, e di evitare la duplicazione di forme risarcitorie o la locupletazione da parte del danneggiato, dall’altro. In questa difficile opera di bilanciamento, che costantemente impegna dottrina e giurisprudenza a fronte delle molteplici sfaccettature del danno ingiusto, si colloca certamente la tematica del danno patito dai prossimi congiunti del macroleso, in ragione delle conseguenze negative che l’illecito altrui ha prodotto direttamente nella propria sfera giuridica. Conseguenze negative che, per poter assumere rilievo giuridico, devono essere serie e concrete e costituire conseguenza immediata e diretta dell’altrui comportamento. La Corte di Cassazione è da tempo orientata a riconoscere il risarcimento del danno anche in favore dei prossimi congiunti di persona che, pur sopravvissuta a seguito di errore medico o di sinistro stradale, abbia tuttavia patito un danno talmente grave da comportare immediati riflessi anche sulle persone a sè più vicine. Sotto questo profilo, è ovviamente essenziale che la parte attrice dia prova – anche presuntiva – del danno patito, dovendosi evitare qualsiasi forma di automatismo. Si ricordano, in questo senso, le seguenti pronunce: – Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 2228 del 16/02/2012: “La prova del danno non patrimoniale, patito dai prossimi congiunti di persona resa invalida dall’altrui illecito, può essere desunta anche soltanto dalla gravità delle lesioni, sempre che l’esistenza del danno non patrimoniale sia stata debitamente allegata nell’atto introduttivo del giudizio (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto non provato il danno non patrimoniale patito dai genitori di un bambino, nato col braccio destro paralizzato a causa della lesione del plesso brachiale avvenuta durante il parto)”; – Cass. Civ., Sez. 3 – , Sentenza n. 2788 del 31/01/2019: “Il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta.(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, aveva ritenuto non provato il danno non patrimoniale patito dal marito per le lesioni subite dalla moglie a seguito di un intervento chirurgico, senza considerare in particolare, l’entità non lieve delle lesioni personali riportate dalla danneggiata, quantificate al 30%, in conseguenza delle quali le era stato riconosciuto un danno alla vita di relazione, in specie sessuale)”. – Cass. Civ., Sez. 3 – , Ordinanza n. 11212 del 24/04/2019: “Il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza gravata che aveva ritenuto insussistente o, comunque, pienamente ristorato con il riconoscimento del danno biologico proprio, il danno cosiddetto parentale patito dalla ricorrente per le lesioni subite dal convivente a seguito di un sinistro, omettendo di considerare l’entità non lieve delle lesioni personali riportate dal danneggiato, quantificate al 79%, e la relativa incidenza sull’ambito dinamicorelazionale della stessa ricorrente)”. Orbene, nel caso di specie il sig. XXXXX era, al momento dell’intervento, anno 2009, marito della sig.ra Caia dal 1966 ed era il padre dei suoi 3 figli. Dopo essere stato sottoposto a un intervento semplice che prevedeva il ricovero in day hospital, il sig. XXXXX è tornato a casa con una perdita della propria integrità psico-fisica pari all’80%, privo di autonomia, cateterizzato e con compromissione della sfera sessuale. È palese che le condizioni in cui il paziente è rientrato nella propria sfera familiare siano state tali da comportare un immediato riflesso sulla vita del coniuge, sulle abitudini di questa, sulla possibilità di relazionarsi al marito e sulla soddisfazione connessa alla sfera sessuale. La moglie, infatti, ha dovuto confrontarsi con un uomo privo della mobilità degli arti inferiori, bisognoso di cure costanti, cateterizzato, ormai impossibilitato a fornire qualsiasi forma di apporto materiale alla famiglia e alla moglie. Ciò, a fronte aveva causato l’intervento – ernia – che non aveva compromesso la funzionalità del paziente. La prova del danno patito dalla moglie è dunque evidente, in ragione non solo dell’eccezionale gravità delle lesioni patite dal marito, ma anche della totale perdita di autonomia dello stesso e della necessità, per la sig.ra Caia, di rimodulare interamente le proprie abitudini di vita, al fine di provvedere – direttamente o mediante il ricorso ad ausili esterni – ai bisogni del marito. Allo stesso tempo, l’attrice ha dovuto rinunciare a ogni aiuto materiale del marito, alla propria vita sessuale coniugale e alla possibilità di programmare le proprie giornate a prescindere dai bisogni del coniuge. Le parti non hanno né allegato né provato quali fossero le abitudini dei coniugi prima dell’intervento, per cui non è possibile conoscere in quale misura concretamente il danno grave del sig. XXXXX abbia inciso sulle stesse. Così, ad esempio, il danno patito nel contesto di una coppia dinamica, abituata a viaggiare o a svolgere attività ludiche e sociali o a spendere le proprie giornate nel compimento di attività che richiedono la piena funzionalità degli arti inferiori è diverso da quello patito da una coppia già in precedenza dedita ad una vita più sedentaria, da trascorrere in casa o in contesti di frequentazioni limitate, con spostamenti ridotti. Nel caso di specie, non essendo state neppure allegate le abitudini specifiche della coppia, la prova presuntiva dovrà parametrarsi in relazione ai soli dati forniti: 43 anni di matrimonio al momento dell’intervento, coppia di coniugi ultrasessantenni in buone condizioni di salute pregresse, figli della coppia ormai adulti e indipendenti. Il danno è dunque calcolato partendo dal valore monetario minimo per la perdita del coniuge convivente, calcolato nelle Tabelle di Milano aggiornate ad oggi in € 165.960,00, ridotto all’80% in ragione dell’entità delle lesioni patite (€ 137.768) ed ulteriormente ridotto in via equitativa in misura del 20% in ragione della permanenza in vita del coniuge (non essendo possibile considerare equipollente la morte del coniuge, con la perdita definitiva di ogni possibilità di relazione con lo stesso, alla lesione gravissima, con residua possibilità di mantenere un legame affettivo stabile e una relazione quotidiana). Il danno è dunque riconosciuto per l’importo di € 106.215,00, parametrato a tutte le caratteristiche del caso concreto, secondo quanto chiarito nelle Tabelle del Tribunale di Milano. Poiché si tratta di danno liquidato all’attualità, lo stesso deve essere maggiorato di soli interessi in misura legale, dalla data odierna al soddisfo. L’importo deve poi essere devalutato all’ottobre 2009 e maggiorato di interessi in misura legale, sull’importo di anno in anno rivalutato secondo l’indice ISTAT, dall’ottobre 2009 alla data odierna. e) Il danno patito dai figli Nell’atto di citazione, i tre figli del sig. XXXXX hanno agito in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno patito iure proprio. La domanda, allegata in modo specifico per la moglie, è stata unicamente accennata per i figli, per i quali non sono stati allegati: gli anni di convivenza con il padre prima della creazione di un proprio nucleo familiare; la frequenza dei rapporti tra padre e ciascun figlio; la modifica di tale frequentazione a seguito dell’evento; il contributo materiale fornito dai figli nell’assistenza del genitore; la modifica delle condizioni di vita dei figli a seguito della macrolesione patita dal padre. I soli dati offerti sono costituiti dal rapporto di parentela e dal grado di invalidità riportato dal XXXXX: elementi in sé inidonei a provare l’esistenza di un danno da parte della vittima secondaria costituita dai figli. La domanda è dunque respinta. Il rigetto della domanda, tuttavia, giunge a seguito di una rinuncia che parte attrice ha tempestivamente presentato e rispetto alla quale le controparti non hanno preso posizione. Le spese di lite saranno dunque liquidate tenendo conto della circostanza che gli attori hanno di fatto da subito rinunciato a tali domande e sono rimasti in causa solo per l’inerzia mantenuta dalle controparti. f) Il danno da spese mediche Il sig. XXXXX ha chiesto il risarcimento del danno da spese mediche e ha prodotto a tal fine una serie di scontrini fiscali, in parte illegibili, recanti unicamente la dicitura “farmaco” con la quota di ticket a carico del paziente. Non essendo stata allegata alcuna prescrizione dei farmaci o la scatola degli stessi, non è possibile sapere a quali farmaci gli scontrini si riferiscano. Difetta dunque la prova del nesso di causalità tra l’evento per cui è causa e la spesa sostenuta dal sig. XXXXX. La richiesta di danno da spese mediche è pertanto rigettata. g) La copertura assicurativa di ASSICURAZIONE ASL CITTA 2 ha citato in giudizio la propria compagnia assicurativa, ASSICURAZIONE, al fine di essere manlevata in caso di condanna. La compagnia ha sollevato eccezioni di inoperatività delle due polizze allegate dalla chiamante in causa, al fine di escludere la sussistenza della copertura. Nel caso di specie, si ritiene che l’evento per cui è causa si inserisca nella Polizza ITOMM1100714, su cui infatti si concentrano la maggior parte delle argomentazioni difensive delle parti. ASSICURAZIONE ritiene che il sinistro non sia coperto da tale polizza, in quanto “a norma di Polizza: a. «la garanzia opera esclusivamente per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’Assicurato durante il periodo di assicurazione e cioè dalle ore 00,01 del 01.05.2011 alle ore 24,00 del 31.12.2012 …» (doc. 3, art. 21, p. 11); b. per “Sinistro RCT” si intende una “Richiesta di risarcimento”, a sua volta definita come «Qualsiasi comunicazione scritta di richiesta danni, istanza di mediazione e di avvio di inchiesta giudiziaria inviata all’Assicurato da Terzi» (doc. 3, Sez. Definizioni); con la precisazione che i primi atti di avvio dell’inchiesta giudiziaria penale sono, in genere, il sequestro delle cartelle cliniche ovvero la richiesta di estrazione di copia delle stesse da parte dei consulenti tecnici nominati dal P.M. o la notifica di accertamento irripetibile; c. per “Assicurato” deve intendersi: «ASL CITTA 2; – i legali rappresentanti; – gli amministratori, i prestatori di lavoro come di seguito definiti, nonché tutti i soggetti che partecipano alle attività svolte dall’Ente Contraente, compresi i componenti dei Comitati» (doc. 3, Sez. Definizioni); d. «Dall’Assicurazione RCT e RCO sono esclusi i danni: – 23.6) conseguenti a fatti noti; – (…) 23.12) le richieste di risarcimento note al Contraente al momento della decorrenza della polizza» (doc. 3, art. 23, p. 13); e. per “Fatti/Circostanze note” devono intendersi «Avvenimenti di cui la Contraente ha ricevuto notizia scritta da qualsivoglia fonte proveniente, in data anteriore alla decorrenza della presente polizza» (doc. 3, Sez, Definizioni)” (pagg. 12 e 13 della Comparsa conclusionale della Compagnia). Le allegazioni compiute dalla Compagnia sono in parte incomplete. In particolare, quanto alla copertura della polizza, l’art. 21 prevede che “la garanzia opera esclusivamente per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’Assicurato durante il periodo di assicurazione e cioè dalle ore 00.01 del 01.05.2011 alle ore 24.00 del 31.12.2012 purché siano conseguenza di fatti avvenuti durante il periodo di assicurazione e anche anteriormente a tale data, ma non prima del 15.06.2007”. Nel caso di specie, come noto, la vicenda per cui è causa è del 16-17.10.2009 ed è dunque successiva al 15.06.2007. Quanto alla “Richiesta di risarcimento”, sebbene la definizione trascritta dalla Compagnia sia corrispondente alla polizza, tuttavia la successiva precisazione in merito all’avvio di inchiesta giudiziaria penale non è rinvenibile dal documento sottoscritto dalle parti. ASSICURAZIONE ritiene che il sequestro della cartella clinica da parte del PM rappresenti un “avvio di inchiesta giudiziaria inviata all’Assicurato da Terzi” e sia come tale idoneo ad escludere la vigenza della Polizza, in quanto il sequestro della cartella avvenne nel novembre 2009, prima della conclusione della stessa. L’interpretazione proposta non è conforme al canone di buona fede. La “richiesta di risarcimento” è infatti definita come “comunicazione scritta di richiesta danni, istanza di mediazione”, dunque due atti che contengono per iscritto una espressa richiesta di risarcimento del danno e sono connotati da una domanda specifica. La successiva previsione “di avvio di inchiesta giudiziaria inviata all’Assicurato da Terzi” deve necessariamente congiungersi con l’incipit “«Qualsiasi comunicazione scritta”, non potendo altrimenti reggersi la previsione del “di” che precede la parola “avvio” e non avendo altrimento senso la previsione che tale comunicazione debba essere “inviata”. La Richiesta di risarcimento è dunque “«Qualsiasi comunicazione scritta … di avvio di inchiesta giudiziaria inviata all’Assicurato da Terzi». Posta in questi termini, la “Richiesta di risarcimento” non può essere considerata coincidente con un mero atto di sequestro, in ambito di indagini penali, della cartella clinica del paziente. La fase delle Indagini Preliminari si colloca infatti in un momento primordiale e nel solco di un procedimento penale che potrebbe non sfociare mai in un processo penale e nell’ambito del quale potrebbe non aversi mai la richiesta di risarcimento del danno con costituzione di parte civile. È cioè possibile che vengano avviate delle indagini penali cui non seguano né il rinvio a giudizio né, comunque, la richiesta civilistica di risarcimento del danno. Nel caso di specie, del resto, gli attori hanno fin dal principio ritenuto di non esercitare l’azione civile in sede penale, per cui le indagini svolte dalla Procura non hanno assunto alcun rilievo ai fini del presente giudizio. Ritenere che già al momento del sequestro di una cartella clinica vi sia una “comunicazione scritta di” “avvio di inchiesta giudiziaria” “inviata” alla ASL ai fini del “risarcimento del danno” civile significa attribuire rilievo ad un evento potenzialmente del tutto indipendente dall’azione risarcitoria, facendo da ciò dipendere la copertura assicurativa in materia di risarcimento del danno. Non vi è alcuna prova che, ricevuta la richiesta di acquisizione della Cartella Clinica, la ASL fosse a conoscenza di una futura azione civile che, alcuni anni più tardi, il paziente avrebbe intrapreso. L’interpretazione offerta dalla Compagnia non è dunque condivisibile, in quanto assimila fattispecie diverse e sottintende che qualsiasi atto di indagine penale comporti per l’Assicurato una conoscenza equiparabile a quella ottenuta con “richiesta scritta” “di risarcimento del danno” o “istanza di mediazione”, in ambito civile. Nel caso di specie, la ASL ha trasmesso alla Compagnia in 16.5.2011 l’avviso di conclusione delle indagini preliminari della Procura della Repubblica di CITTA 2 RGNR n. 4458/11 nei confronti dell’indagato dott. T. G.. Va evidenziato che, nella Comunicazione dei Carabinieri alla Procura della Repubblica del 4.11.2009, in cui si dava atto dell’acquisizione della Cartella Clinica, è stata menzionata l’attività del dott. Esse e quella del dott. Vito Erre mentre nessun riferimento è stato compiuto al dott. T., sul quale al contrario si è poi incentrata la presente azione (tanto che ASSICURAZIONE ha ritenuto di individuare in costui il soggetto responsabile). Tale circostanza conferma che la mera acquisizione della cartella clinica non poteva comportare una reale conoscenza degli estremi dell’azione risarcitoria – ancora neppure ventilata – in capo all’Assicurato. La ASL ha poi trasmesso, in data 22.11.2013, la denuncia cautelativa relativa alla richiesta di mediazione avanzata da parte attrice e, in data 27.11.2011, la documentazione riguardante il procedimento penale a carico del dott. G. T.. I documenti così trasmessi, tempestivamente inviati alla Compagnia, sono i soli che possano considerarsi rilevanti ai fini di polizza, in quanto solo al termine delle Indagini Preliminari sono emersi profili di responsabilità, peraltro per l’operato dell’anestesista e non del chirurgo menzionato dai Carabinieri di CITTA’. La clausola claim made, dunque, non esclude nel caso in esame la vigenza della Polizza, in quanto la richiesta di risarcimento nel senso sopra precisato è stata presentate per la prima volta all’Assicurato durante il periodo di assicurazione e cioè dalle ore 00,01 del 01.05.2011 alle ore 24,00 del 31.12.2012 (si veda la comunicazione dell’11.05.2011, che rappresenta la prima comunicazione scritta di Richiesta di Risarcimento ai sensi di polizza). La Compagnia ha poi eccepito l’inoperatività della Polizza, in quanto l’art. 23 della stessa, in materia di “Esclusioni”, stabilisce come dall’assicurazione RCT e RCO siano esclusi i danni «conseguenti a fatti noti» (doc. 3, art. 23.6, p. 14). ASSICURAZIONE afferma in particolare: “Vista la definizione di sinistro come contrattualmente intesa – ovvero, tanto la richiesta di risarcimento, quanto l’avvio di un’inchiesta giudiziaria penale -, deve ritenersi che al momento della sottoscrizione della Polizza in questione (risalente a maggio 2011), ASL CITTA 2 fosse già a conoscenza dell’acquisizione della cartella clinica, disposta il 30-10-2009 dal P.M. nell’ambito del proc. penale R.G.N.R. n. 7224/2009, e che tale notizia di inchiesta giudiziaria pendente costituisce “fatto noto”, per cui vale l’esclusione di cui all’art. 23” (pagg. 16-17 della Comparsa Conclusionale). La confutazione della tesi di ASSICURAZIONE in merito al valore da attribuire all’acquisizione della Cartella Clinica comporta in sé anche il rigetto dell’eccezione formulata ai sensi dell’art. 23 Polizza, in quanto al momento della sottoscrizione la richiesta di risarcimento per cui è causa non rappresentava un fatto noto. Per le stesse ragioni, ribadendosi che nella mera richiesta di acquisizione della Cartella Clinica non vi era alcun elemento che fosse riconducibile all’azione di risarcimento danni oggetto della presente controversia e che, dunque, l’Assicurato non poteva, l’1.5.2011, prevedere l’azione intrapresa dai sig.ri XXXXX, si esclude che ASL abbia assunto un atteggiamento reticente con dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 1 della Polizza e dell’art. 1892 c.c.. Si conferma dunque l’operatività della Polizza e l’obbligo della Compagnia di manlevare la convenuta da quanto questa è condannata a pagare in forza del presente provvedimento, nei limiti di franchigia e massimale come da polizza. h) La posizione del dott. T. e la surroga dell’Assicuratore della ASL Come premesso, ASSICURAZIONE ha agito in giudizio contro il dott. T., al fine di esercitare nei suoi confronti la surroga di cui all’art. 1916 co. 1 c.c., in caso di accertamento di una sua colpa grave. Il dott. T. ha eccepito l’inammissibilità della chiamata in causa, evidenziando che la ASL non ha chiesto l’autorizzazione alla chiamata in causa del medico (azione che sarebbe comunque soggetta alla giurisdizione della Corte dei Conti) e rilevando che l’attore non ha esteso la domanda al sanitario anestesista. Le eccezioni non sono fondate. È corretto affermare che gli attori non hanno esteso la domanda nei confronti del dott. T. e che nel caso in esame non vi è estensione automatica della stessa, come chiarito da Cassazione civile n. 30601 del 27/11/2018. La sentenza citata traccia infatti una distinzione netta tra le ipotesi in cui vi sia una chiamata in garanzia (propria od impropria), nella quale la posizione assunta dal terzo chiamato nel giudizio non contrasti, ed anzi coesista, con la legittimazione passiva del convenuto-responsabile rispetto alla azione risarcitoria proposta dall’attore, ed invece la chiamata effettuata al solo scopo di indicare un terzo esclusivo responsabile: questa seconda ipotesi determina una posizione processuale del terzo oggettivamente incompatibile con quella del convenuto, ponendosi in termini di alternatività, in quanto l’accertamento della responsabilità dell’uno esclude quella dell’altro. Ebbene, mentre nella prima ipotesi (chiamata in garanzia), non si applica la regola della estensione automatica della domanda principale, nella seconda (indicazione di un terzo esclusivo responsabile) si applica, atteso che in tal caso l’originario oggetto del giudizio non viene ad essere modificato, unico rimanendo l’accertamento del rapporto principale, non essendo fatto valere nei confronti del convenuto “o” del terzo chiamato un distinto titolo di responsabilità. Ne consegue che, nelle ipotesi di chiamata del terzo responsabile, il giudice può e deve considerare estesa al terzo la domanda principale, senza necessità che l’attore ne faccia esplicita richiesta (conforme Cass. civ., ord. n. 5580 del 08/03/2018). Al contrario, nelle ipotesi di chiamata in garanzia, è rimessa in via esclusiva all’attore la scelta di proporre o meno autonoma domanda anche nei confronti del terzo chiamato (conforme Cass. civ., sez. II, n. 8411 del 27/04/2016). Nel caso di specie parte attrice ha espressamente limitato la propria domanda nei confronti della ASL, omettendo di estenderla al sanitario. La ASL, a sua volta, ha omesso di chiamare in causa il medico. Ciononostante, anche in caso di omessa chiamata in garanzia da parte della ASL è pacificamente riconosciuta la possibilità, per l’assicuratore, di agire ai sensi dell’art. 1916 co. 1 c.c. nel corso del medesimo giudizio, al fine di conseguire una condanna condizionale del medico responsabile. È, infatti, pacifico l’orientamento giurisprudenziale della S.C. secondo cui: “l’assicuratore, convenuto in giudizio dall’assicurato per il pagamento dell’indennità assicurativa, in virtù del principio di economia processuale, può agire nella medesima sede a tutela del proprio diritto di surrogazione, anche in difetto del previo pagamento di detta indennità, chiamando in causa il terzo responsabile del danno al fine di ottenere, nei confronti di questo, una sentenza condizionale di condanna alla rivalsa di quanto sarà condannato a pagare all’assicurato a titolo di indennità, potendo egli offrire la prova dell’avvenuto pagamento della medesima in un momento successivo alla pronunzia della sentenza di condanna in favore dell’assicurato e di quella condizionale a suo favore” (cfr.: Cass. Civ. Sez. III, 19.07.2004, n. 13342). L’avvenuto pagamento dell’indennità non è dunque condizione per l’esercizio dell’azione di accertamento dell’obbligo risarcitorio del terzo chiamato, ma solo della successiva ed eventuale azione esecutiva. Del resto, se si dovesse argomentare diversamente, si imporrebbe una duplicazione dell’attività processuale, con conseguente violazione delle esigenze del giusto processo ex art. 111 Cost. La circostanza che sia stata chiesta la rivalsa e sia stato esercitato il diritto di surroga parimenti non rileva, in quanto la qualificazione giuridica dell’azione era chiara allo stesso terzo chiamato, il quale ha spiegato ampia difesa in merito alla domanda proposta nei suoi confronti. Chiarita l’ammissibilità della chiamata in causa, va ora verificato se sussistano i presupposti invocati da ASSICURAZIONE, con particolare riferimento alla sussistenza di colpa grave nell’operato del medico anestesista. In linea generale, “non ogni condotta diversa da quella doverosa implica colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia e che sia posta in essere senza l’osservanza, nel caso concreto, di un livello minimo di diligenza, prudenza o perizia, …livello minimo che dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente e dalla sua particolare preparazione professionale; sussiste la colpa grave“quando il medico ometta di compiere un’attività diagnostica e terapeutica routinaria, atta a scongiurare determinate complicazioni” (cfr.: Corte dei Conti Sicilia, n. 1015 del 28.03.2015). In tema di colpa grave possono richiamarsi i principi fissati da Cass. Pen. 2013, Cantore, in cui è stato affermato che occorre: valutare quanto ci si è discostati dalla regola di prudenza; comprendere quanto fosse prevedibile ed evitabile in concreto la realizzazione dell’evento; determinare la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; ritenere attenuata la colpa in caso di urgenza; verificare se vi è stata la previsione dell’evento; analizzare l’eventuale concorso di colpa di più agenti o della stessa vittima. Nella sentenza citata, la Corte di Cassazione ha precisato che “non sempre ed anzi di rado la valutazione della colpa è fondata su un unico indicatore. Ben spesso coesistono fattori differenti e di segno contrario. In tale caso si ritiene che il giudice debba procedere alla ponderazione comparativa di tali fattori, secondo un criterio di equivalenza o prevalenza non dissimile da quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze” (nello stesso senso, Cass. Pen., 2016, Denegri). Allo stesso modo, Cass. Pen. 2015, Manzo, e Cass. Pen. 2015, Rota, affermano che il medico, il quale si attenga alle linee-guida, versi ciò nondimeno in colpa grave allorché avrebbe invece dovuto discostarsi dalle linee-guida in ragione della peculiare situazione clinica del malato e siffatta “necessità di discostarsi dalle linee-guida era macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato”. Inoltre, la seconda delle sentenze appena citate – la quale si riferiva alla morte di un paziente causata dalla scorretta manovra di inserimento della guida metallica di un catetere in vena – riprendendo, in senso adesivo, la parte espositiva della sentenza di condanna d’appello, riferisce che “i giudici di merito hanno evidenziato, per sottolineare la gravità della colpa, sotto il profilo oggettivo, che la regola generica di prudenza (che consigliava di non forzare eccessivamente l’introduzione della guida metallica a fronte di una riscontrata resistenza) era stata violata in misura «alquanto rilevante», essendo peraltro certamente prevedibile (anche in base alla letteratura medica illustrata dai periti) che detta guida potesse cagionare lesioni quale quella effettivamente verificatasi; sotto il profilo soggettivo, invece, è stato sottolineato che [l’imputato] è uno specialista nel campo in questione, eseguendo questo tipo di procedura fin dal 2003 con l’ausilio di un medico più anziano e dal 2008 in maniera autonoma, per cui era massima nel caso di specie l’esigibilità dell’osservanza di quella regola cautelare. Si è anche sottolineato che benché l’intervento fosse stato deciso con una certa urgenza (ovvero per il pomeriggio del giorno in cui si era verificato il malfunzionamento del catetere), ciò non sembrava avere inciso in alcun modo sulla condotta del sanitario”. Pronunciandosi, invece, in relazione al caso di un paziente il quale, pur essendosi recato a causa di un forte malore in pronto soccorso, ne veniva dimesso e decedeva poco dopo per infarto, la sentenza Cass. 2014, Pulcini, ha confermato la condanna del medico del pronto soccorso giacché questi, all’esito dei primi esami, “non valutò la probabilità che fosse in atto una cardiopatia ischemica con rischio di eventi clinici gravi a breve termine, omettendo di trattenere il paziente in osservazione per gli approfondimenti diagnostici (esami ematici e controllo ripetuto degli enzimi cardiaci), i quali avrebbero potuto con elevata probabilità scongiurare l’evento letale, e pervenendo alle dimissioni con diagnosi errata. In tal modo il giudice territoriale ha correttamente individuato un evidente caso di errore diagnostico (…). Né è possibile ricondurre l’addebito, sotto il profilo soggettivo, al canone della colpa lieve, concernendo il medesimo un’ipotesi di omesso approfondimento ai fini diagnostici, rientrante nell’ambito dei «casi non difficili e fronteggiabili con interventi conformi agli standard» (…) e non la soluzione di un caso clinico di speciale difficoltà”. Venendo al caso di specie, va evidenziato che i CCTTUU hanno chiarito che l’anestesia subaracnoidea praticata dal dott. T. era quella più indicata e che l’impiego di ago di misura maggiore non ha avuto contributo causale nell’evento per cui è causa. I consulenti hanno anche chiarito che è conforme alle linee guida l’esecuzione di un secondo tentativo e che correttamente l’anestesista, dopo aver appurato la fuoriuscita di liquor, ha disposto l’anestesia totale. Il comportamento del medico, dunque, è stato conforme alle linee guida e a perizia, relativamente a tali aspetti. I CCTTUU hanno anche chiarito che il dott. T. avrebbe dovuto controllare con maggiore attenzione l’attuale sospensione dell’antiaggregante nei 10 giorni precedenti l’intervento. Si è precisato in precedenza che su tale aspetto non è stata raggiunta la prova certa e che, in caso di difformità di riscontri probatori, il giudizio deve risolversi in danno della ASL, che è onerata di provare di aver correttamente adempiuto. La presenza di due documenti contrapposti, tuttavia, assume diversa connotazione ove rapportata strettamente alla posizione del dott. T., in quanto è certo che la prescrizione della sospensione nei soli 7 giorni precedenti l’intervento fu disposta da altro medico (dott. Esse) e non vi è prova che il dott. T. conoscesse tale errata prescrizione (non riportata nella cartella). Si esclude dunque, sotto tale profilo, la colpa grave dell’anestesista. Permane il profilo dell’omesso controllo serrato nel post-operatorio, profilo che, tuttavia, comporta la responsabilità congiunta di diversi operatori sanitari e non è riconducibile unicamente all’anestesista. L’assenza della scheda infermieristica, non imputabile al dott. T., impedisce di sapere se altri eseguirono i necessari controlli e se gli stessi infermieri attestarono una ripresa della minzione che invece non si era verificata. A fronte del quadro offerto, dunque, non si ravvisa nella condotta dell’anestesista un profilo di colpa grave, nel senso sopra precisato. Del resto, gli stessi consulenti hanno affermato che “A nostro giudizio il sistema, inteso come percorso complessivo postoperatorio, è stato carente. Difficile graduare la colpa tra i soggetti interessati nel percorso gestionale del paziente. Nel tentativo di voler analizzare le condotte sanitarie, abbiamo già evidenziato i reiterati tentativi di anestesia spinale con ago più grosso disponibile. L’anestesista non ha verificato la sospensione effettiva e da quanto tempo del farmaco anticoagulante, oltre a non verificare che il paziente muovesse le gambe al risveglio (è ragionevole vista la gravità dell’emorragia che già a fine intervento non le muovesse più). Censurabile anche il chirurgo che firma il documento in cui raccomanda la sospensione della ticlopidina solo 7 e non 10 gg. prima dell’intervento (una delle due versioni agli atti, ex post la più credibile). Ma forse più censurabile l’assistenza e l’osservazione sanitaria durante la degenza post-operatoria in reparto, sottovalutando forti dolori, tremori intensi, l’assenza di diuresi (secondo i parenti è stato cateterizzato) ecc., lasciando progredire il quadro emorragico e ritardando nella tempestività della diagnosi. Non siamo in grado di inquadrare le specifiche figure professionali interessate in questa fase, mancando la Cartella Infermieristica ed evidenziando una carenza documentale e posticcia. Anche tali carenze appaiono sintomatiche di un sistema che non ha funzionato”. Come evidente, gli stessi Consulenti non individuano nel comportamento dell’anestesista un profilo di colpa grave, ravvisando al contrario un complesso di cause connesse, in buona parte riferibili a terzi soggetti. Si esclude, dunque, che vi sia stata colpa grave nell’operato del dott. T., con la conseguenza che la domanda proposta nei suoi confronti da ASSICURAZIONE va rigettata. Ciò rende superfluo l’esame delle allegazioni difensive di I.. i) Le spese di lite Le spese di lite di parte attrice, in relazione alla domanda dei sig.ri XXXXX Mevio e Caia YYYYYYY, sono poste a carico della convenuta, soccombente. La maggiorazione è compiuta solo per la difesa di due parti, essendo le restanti soccombenti. Le spese vive richiesta in nota spese sono giustificate e pertinenti e sono dunque riconosciute. Le spese dei figli sono invece compensate con le altre parti processuali, in quanto – come già premesso – la parte aveva correttamente rinunciato alla domanda all’inizio del processo e solo l’inerzia delle controparti ha reso impossibile l’estromissione dei figli dal giudizio. Le spese di CTU sono poste a carico della ASL, soccombente. Le spese di lite della ASL sono poste a carico di ASSICURAZIONE, in quanto la Compagnia ha eccepito l’inoperatività della Polizza e ha omesso di assumere la difesa dell’Assicurata, costringendo quest’ultima a difendersi con propri legali. La ASL, del resto, è risultata vittoriosa nei confronti della Compagnia. Le spese di lite del dott. T. sono poste a carico di ASSICURAZIONE, che lo ha chiamato in causa e che è rimasta soccombente rispetto a costui. Le spese vive indicate in notula sono giustificate e riconosciute. Le spese di lite di I. sono compensate con le altre parti processuali, non essendosi ravvisato contrasto di posizioni tra chiamante e chiamata e non essendovi altri profili di soccombenza tra la Compagnia e le altre parti processuali. Le spese sono liquidate secondo il valore medio delle Tabelle, tenendo conto del danno riconosciuto in giudizio (con conseguente applicazione di scaglione inferiore a quello indicato dalle parti nella propria nota spese). P.Q.M. Il Tribunale di CITTA 2 – Prima Sezione Civile, definitivamente pronunciando nella causa N 3022/2014 RG, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa: a) Accerta e dichiara che le gravissime lesioni personali riportate dal sig. XXXXX Mevio sono da porsi eziologicamente in rapporto di causalità immediata e diretta con l’attività effettuata in data 16.10.2009 dai Medici e dai Sanitari dipendenti dell’Azienda Sanitaria Locale di CITTA 2; b) Per l’effetto, condanna la ASL CITTA 2 al risarcimento del danno patito dal sig. XXXXX Mevio, liquidato in € 666.538,00 a titolo di danno non patrimoniale, oltre accessori come in parte motiva, e al risarcimento del danno patito dalla sig.ra Caia YYYYYYY, liquidato in € 106.215,00, oltre accessori come in parte motiva; c) Rigetta la richiesta di liquidazione del danno da mancata prestazione del consenso informato in ordine al tipo di anestesia effettuata, proposta dal sig. XXXXX Mevio; d) Condanna ASL CITTA 2 alla refusione delle spese di lite in favore dei sig.ri XXXXX Mevio e Caia YYYYYYY, liquidate in € 30.584,40 per compenso ed in € 1.770,87 per spese, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge, con distrazione in favore dell’avv. R. C., che ha reso la dichiarazione di rito; e) Pone le spese di CTU in via definitiva a carico di ASL CITTA 2; f) Rigetta la domanda proposta dai sig.ri XXXXX ZZZZZZZZ, XXXXX Tizio e XXXXX V.; g) Compensa interamente le spese di lite tra XXXXX ZZZZZZZZ, XXXXX Tizio, XXXXX V. e le altre parti processuali; h) Accertata la vigenza dell’invocata garanzia assicurativa per la responsabilità civile, condanna ASSICURAZIONE L. a tenere indenne ASL CITTA 2 da quanto questa è stata condannata a pagare in forza del presente provvedimento, nei limiti della franchigia e del massimale di polizza; i) Condanna ASSICURAZIONE L. alla refusione delle spese di lite in favore di ASL CITTA 2, liquidate in € 1.700,00 per spese ed € 27.804,00 per compenso, oltre rimborso spese generali, Iva e CPA come per legge; j) Rigetta la domanda proposta da ASSICURAZIONE L. nei confronti del dott. T. G.; k) Condanna ASSICURAZIONE Limiter alla refusione delle spese di lite in favore del dott. T. G., liquidate in € 1.736,80 per spese ed € 27.804,00 per compenso, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge; l) Compensa interamente le spese di lite tra I. Assicurazioni e le altre parti processuali. Lecce, 16/02/2021 Il giudice Dott.ssa Viviana Mele Repert. n. 717/2021 del 22/02/2021
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In particolare, con la recente sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, la Corte di Cassazione – dopo aver affermato che la categoria del danno non patrimoniale presenta natura composita, articolandosi nelle voci del danno biologico, del danno morale e del danno esistenziale – ha precisato che tutte le voci di danno sono suscettibili di liquidazione purchè venga evitata una duplicazione, che si configura solo allorquando lo stesso aspetto (ovvero, la stessa voce) venga computato due o più volte, sulla base di diverse e meramente formali denominazioni.
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In buona sostanza, la tendenza della giurisprudenza di legittimità è nuovamente nel senso di ribadire l’autonomia del danno morale ed esistenziale rispetto al danno biologico.
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Pertanto, con ordinanza n. 5056 del 4 marzo 2014, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, avendo ravvisato nella citata sentenza n. 1361/2014 (emessa dalla medesima Sezione) un contrasto di giurisprudenza, ha rimesso gli atti del procedimento al Primo Presidente perché valuti l’esigenza di investire della questione le Sezioni Unite al fine di definire e precisare, per imprescindibili ragioni di certezza del diritto, il quadro della risarcibilità del danno non patrimoniale delineato nel 2008.
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ristoro della lesione dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali mediante l’attribuzione di una somma di denaro non assolve ad una funzione punitiva, propria invero di altri settori dell’ordinamento (cfr. Cass., 8/2/2012, n. 1781; Cass., 12/6/2008, n. 15814; Cass., 19/1/2007, n. 1183), e nemmeno deterrente, nè costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, ma vale a compensare un pregiudizio non economico (v. Cass., 8/8/2007, n. 17395; Cass., 31/5/2003, n. 8827).
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L’indennizzo non ha e non può avere funzione reintegrativa nemmeno delle sofferenze morali e dei “torti giuridici” subiti, essendo invero volto a tutelare l’esigenza di assicurare al danneggiato un’adeguata riparazione come utilità sostitutiva (cfr. Cass., 14/2/2000, n. 1633; Cass., 25/2/2000, n. 2134; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 30/7/2002, n. 11255; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., 25/5/2007, n. 12253).
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La non patrimonialità – per non avere il bene persona un prezzo – del diritto leso, che va tenuta distinta dalla natura patrimoniale o non patrimoniale del danno, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa (V. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit.; Cass., 31/5/2003, n. 8828. E già Cass., 5/4/1963, n. 872. Cfr. altresì Cass., 10/6/1987, n. 5063; Cass., l/4/1980, n. 2112; Cass., 11/7/1977, n. 3106).
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La valutazione equitativa è diretta a determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa” (in ordine al significato che nel caso assume l’equità v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
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Subordinata all’esistenza del danno risarcibile e alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già all’individuazione del danno (non potendo valere a surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio imposto all’art. 2697 c.c.: v., da ultimo, Cass., 11/5/2010, n. 11368; Cass., 6/5/2010, n. 10957; Cass., 10/12/2009, n. 25820), la valutazione equitativa deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione.
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Come avvertito anche in dottrina, l’esigenza di una tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione non può d’altro canto tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa quantificazione nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 31/5/2003, n. 8828).
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Il danno non patrimoniale non può essere liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all’effettiva natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass., 11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congruo.
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Per essere congruo il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740. Nel senso che il risarcimento deve essere senz’altro “integrale” v. peraltro Cass., 17/4/2013, n. 9231).
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Si profila altrimenti l’operare dell’istituto del danno differenziale, proprio dei sistemi indennitari e di dubbia compatibilita viceversa con quello della r.c.a., prospettandosi a tale stregua il rischio che vengano a risultare (quantomeno parzialmente) vanificate le ragioni che di quest’ultimo hanno a suo tempo determinato l’introduzione nell’ordinamento.
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Nell’operare la ricostruzione del sistema dei danni con indicazione delle “regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale” alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (cfr. Corte Cost., 11/7/2003, n. 233), costituente principio informatore della materia, fondamentale rilievo le Sezioni Unite del 2008 hanno assegnato al principio della integrante del risarcimento, sottolineando la necessità che si pervenga a “ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
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Emerge a tale stregua, da un canto, l’illegittimità dell’apposizione di una limitazione massima non superabile alla quantificazione del ristoro dovuto (v. infra); e, per altro verso, la indefettibile necessità che nessuno degli aspetti di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso concreto accertata, rimanga priva di ristoro, dovendo essere essi presi tutti in considerazione a fini della determinazione dell’ammontare complessivo del risarcimento conseguentemente dovuto al danneggiato/creditore (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108; Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 13/5/2011, n. 10527).
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Come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008 la categoria del danno non patrimoniale risulta delineata in termini di categoria concernente ipotesi di lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, di natura composita, articolantesi in una pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o cd. danno esistenziale (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit. v. altresì Cass., Sez. Un., 19/8/2009, n. 18356, e, da ultimo, Cass., 19/2/2013, n. 4043).
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Le Sezioni Unite del 2008 hanno inteso il danno morale quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), a tale stregua recependo la relativa tradizionale concezione affermatasi in dottrina e consolidatasi in giurisprudenza (in precedenza volta a limitare la risarcibilità del danno non patrimoniale alla sola ipotesi di ricorrenza di una fattispecie integrante reato).
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Con riferimento all’art. 2059 c.c., ribadendo l’impossibilità di prescindersi dal dato normativo (in tali termini v. già Cass., 12/6/2006, n. 13546) e dalla relativa interpretazione andata maturando nel tempo (cfr. Cass., 11/6/2009, n. 13547), si è dalle Sezioni Unite escluso che la formula danno morale individui “una autonoma sottocategoria di danno”.
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Sottolineandosi che nè l’art. 2059 c.c. nè l’art. 185 c.p. ne fanno menzione, e “tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio”, il danno morale si è ravvisato indicare solamente uno dei molteplici, possibili pregiudizi di tipo non patrimoniale, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata, la cui intensità e durata nel tempo rilevano non già ai fini della esistenza del danno, bensì della mera quantificazione del relativo ristoro.
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Facendo richiamo a pronunzie (in particolare a Cass., 9/11/2005, n. 21683 e a Cass., 25/2/2004, n. 3806) che del danno morale (così come di quello biologico) avevano accordato il risarcimento in correlazione con il tempo di vita effettiva, a tale stregua “postulandone la permanenza” in vita, le Sezioni Unite del 2008, innovando al precedente orientamento maturato nella giurisprudenza di legittimità, sono pervenute a negare che la sofferenza morale sia necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo, superando pertanto la tesi che restringeva o limitava la categoria del danno non patrimoniale alla mera figura del cd. danno morale soggettivo transeunte.
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In epoca successiva alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, il danno morale è stato dal legislatore definito quale “sofferenza e turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona” D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, art. 5, comma 1, lett. c), (recante “Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servìzio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma della L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, commi 78 e 79”), poi abrogato dal D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art. 2269, comma 1, n. 385, (Codice dell’Ordinamento militare), con la decorrenza prevista dal medesimo D.Lgs. n. 66 del 2010, art. 2272, comma 1, nonchè quale “pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sè considerato” D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181 (“Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’individualità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma della L. 3 agosto 2004, n. 206, art. 6”).
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La qualificazione del danno morale in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall’art. 2 Cost. in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona (ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 190), risulta peraltro già da tempo recepita (anche) dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 12/12/2008, n. 29191; Cass., 11/6/2009, n. 13530; Cass., 10/3/2010, n. 5770), che nel segnalarne l’ontologica autonomia, in ragione della diversità del bene protetto, attinente alla sfera della dignità morale della persona, ha sottolineato la conseguente necessità di tenersene autonomamente conto, rispetto agli altri aspetti in cui si sostanzia la categoria del danno non patrimoniale, sul piano liquidatorio.
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Laddove i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, avente tendenzialmente portata onnicomprensiva (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, e, successivamente, Cass., 13/5/2011, n. 10527), sotto quest’ultimo profilo si è escluso che il valore della integrità morale possa stimarsi in una mera quota minore del danno alla salute, e di potersi fare ricorso a meccanismi semplificativi di tipo automatico (v. Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 13/12/2012, n. 22909; Cass., 12/9/2011, n. 18641; Cass., 19/1/2010, n. 702), in quanto inidonei a consentire di cogliere il punto di riferimento dai giudici di merito in concreto preso in considerazione nel caso di specie ai fini della debita personalizzazione della liquidazione del danno morale; nonchè di far intendere in quali termini si sia al riguardo tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, al fine di potersi essa considerare congrua e adeguata risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228).
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La definizione del danno morale è pertanto venuta ormai a connotarsi di significati ulteriori rispetto al mero patema d’animo, alla sofferenza interiore o perturbamento psichico, secondo la relativa accezione come detto accolta dalle Sezioni Unite del 2008. E il danno morale, inteso quale lesione della dignità o integrità morale, massima espressione della dignità umana, assume specifico e autonomo rilievo nell’ambito della composita categoria del danno non patrimoniale, anche laddove la sofferenza interiore non degeneri in danno biologico o in danno esistenziale (v. Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585).
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L’autonomo rilievo del danno morale, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, rispetto al danno biologico e al danno esistenziale, trova significativa espressione pure sotto il profilo del danno morale terminale (v. infra).
- Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la natura non patrimoniale del danno morale non osta alla cedibilità dell’acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
- Il danno biologico costituisce aspetto, ulteriore e diverso dal danno morale, che della categoria generale prevista dall’art. 2059 c.c. concorre ad integrare il contenuto.
- Dalle Sezioni Unite del 2008 si è preso atto che il danno biologico è normativamente definito in termini di lesione psicofisica (temporanea o permanente) accertabile in sede medico-legale (L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, in tema di responsabilità civile auto;
- D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, in tema di assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e degli infortuni professionali; D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139, cd. Codice delle assicurazioni private).
- Osservando che nel Codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005) viene fatto espressamente riferimento (anche) alla negativa incidenza di tale lesione sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, le Sezioni Unite hanno al riguardo sottolineato la generale valenza e il carattere vincolante di tale figura, sintesi dei “risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale” (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
- Originariamente dalla Corte Costituzionale considerato risarcibile ex art. 2059 c.c. (v. Corte Cost., 26/7/1979, n. 88), il danno biologico è stato dalla stessa Corte Costituzionale, al fine di sottrarlo ai limiti risarcitori posti da tale norma, successivamente ritenuto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., ravvisato applicabile a tutti i pregiudizi di carattere non patrimoniale subiti in dipendenza dell’illecito, ivi ricompresi quelli corrispondenti alla menomazione dell’integrità fisica in sè e per sè considerata (v. Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
- Nel superare la relativa configurazione in termini di danno-evento (elaborata da Corte Cost. n. 184 del 1986 e accolta quindi nella giurisprudenza di legittimità: v. Cass., 23/6/1990, n. 6366), e affermare la risarcibilità dei soli danni-conseguenza, il danno biologico è stato quindi sempre dalla Corte Costituzionale nuovamente ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. (v. Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
- Orientamento quest’ultimo dapprima confermato dalle sentenze gemelle Cass. n. 8827 del 2003 e Cass. n. 8828 del 2003, e quindi posto dalle Sezioni Unite del 2008 a base, come assioma, dell’operata ricostruzione sistematica del danno non patrimoniale.
- Nel danno biologico si considerano ormai da tempo ricomprese numerose figure, quali il cd. “danno estetico” (v., da ultimo, Cass., 16/5/2013, n. 11950) e il cd. “danno alla vita di relazione”, anch’esso ritenuto (dopo essere stato originariamente considerato un aspetto del danno patrimoniale, quale impossibilità o anche mera difficoltà, per colui che ha subito menomazioni fisiche, di reinserirsi nei rapporti sociali e di mantenere questi ad un livello normale, sì da diminuire o annullare, secondo i casi, le possibilità di collocamento e di sistemazione del danneggiato: v. Cass., 10/3/1992, n. 2840; Cass., 9/11/1977, n. 4821; Cass., 3/6/1976, n. 2002; Cass., 5/12/1975, n. 4032; Cass., 11/5/1971, n. 1346; Cass., 24/4/1971, n. 1195) rientrante nel concetto di danno alla salute, e pertanto solo a tale titolo liquidabile (v. Cass., 21/3/1995, n. 3239; e, da ultimo, Cass., 16/8/2010, n. 18713; Cass., 13/7/2011, n. 15414). Ancora, il danno da impotenza sessuale, da malattie nervose, insonnia, alterazioni mentali: figure tutte elaborate dalla giurisprudenza al fine di ovviare ai limiti risarcitori imposti dalla tradizionale rigorosa interpretazione dell’art. 2059 c.c.
- Con riferimento al danno biologico, la natura non patrimoniale si è escluso essere ostativa alla cedibilità dell’acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
- Terzo aspetto o voce di danno non patrimoniale è rappresentato dal danno da perdita del rapporto parentale o cd. danno esistenziale.
- Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, le Sezioni Unite del 2008 hanno in proposito significativamente precisato che:
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a) in presenza di reato (è sufficiente che il fatto illecito si configuri anche solo astrattamente come reato: v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già Cass., Sez. Un., 6/12/1982, n. 6651. Da ultimo v. Cass., 6/4/2011, n. 7844), superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare rectius, nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile, ove costituisca conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le Convenzioni internazionali (come la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c., la tutela penale costituendo sicuro indice di rilevanza dell’interesse leso;
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b) in assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
- Fattispecie quest’ultima considerata integrata ad esempio in caso di sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), in quanto il “pregiudizio di tipo esistenziale” consegue alla lesione dei “diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)”.
- In tali ipotesi, hanno precisato le Sezioni Unite, vengono in considerazione pregiudizi che, attenendo all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che ciò possa tuttavia riverberare in termini di configurazione di una “autonoma categoria di danno” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. Conformemente, nel senso che il “danno cd. esistenziale non costituisce voce autonomamente risarcibile, ma è solo un aspetto dei danni non patrimoniali di cui il giudice deve tenere conto nell’adeguare la liquidazione alle peculiarità del caso concreto, evitando peraltro duplicazioni risarcitorie, v., da ultimo, Cass., 30/11/2011, n. 25575; Cass., 9/3/2012, n. 3718, Cass., 12/2/2013, n. 3290).
- Altri pregiudizi di tipo esistenziale, si è dalle Sezioni Unite sottolineato, attinenti alla sfera relazionale della persona ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico, sono risarcibili ove siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.
- Al contrario di quanto da alcuni dei primi commentatori sostenuto, e anche in giurisprudenza di legittimità a volte affermato (v. Cass., 13/5/2009, n. 11048, e, da ultimo, Cass., 12/2/2013, n. 3290), deve escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la configurabilità e la rilevanza a fini risarcitori (anche) del cd. danno esistenziale.
- Al di là della qualificazione in termini di categoria, nelle pronunzie del 2008 risulta infatti confermato che, quale sintesi verbale (in tali termini v. già Cass., 12/6/2006, n. 13546), gli aspetti o voci di danno non patrimoniale non rientranti nell’ambito del danno biologico, in quanto non conseguenti a lesione psico- fisica, ben possono essere definiti come esistenziali, attenendo alla sfera relazionale della persona, autonomamente e specificamente configurabile allorquando la sofferenza e il dolore non rimangano più allo stato intimo ma evolvano, seppure non in “degenerazioni patologiche” integranti il danno biologico, in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. Nel senso che il danno biologico può sostanziarsi nel “danno alla salute” che risulti “il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anzichè esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il i risarcimento”, v. già Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
- Il danno esistenziale si è dunque ravvisato costituire un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto sia dal danno morale che dal danno biologico, con i quali concorre a compendiare il contenuto della generale ed unitaria categoria del danno non patrimoniale.
- Essendo il cd. danno esistenziale privo di fonte normativa (a meno di non voler in proposito valorizzare il richiamato riferimento agli aspetti relazionali contenuti definizione normativa del danno biologico, con la conseguenza peraltro di ancorarne la considerazione al mero ricorrere di quest’ultimo, laddove il danno esistenziale può invero ricorrere anche in assenza di danno biologico e di danno morale: v. oltre), le Sezioni Unite del 2008 hanno ripreso la nozione da esse stesse posta nel 2006.
- Del tutto correttamente, non apparendo revocabile in dubbio che è il principio di effettività il quale designa la regola che vive nella realtà dell’ordinamento, come essa è applicata nella risoluzione dei casi concreti della vita di relazione, il significato che ne emerge alla stregua della evoluzione conseguente al relativo affinamento in ragione del costante adeguamento al sentire sociale (regola effettiva): cfr. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144, del quale la giurisprudenza costituisce naturale e principale indice (v. Cass., 11/5/2009, n. 10741), a dover in tal caso orientare l’interprete (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
- Orbene, il danno esistenziale si è dalle Sezioni Unite ravvisato consistere nel pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. In altri termini, nel “danno conseguenza della lesione”, sostanziantesi nei “riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione dello stile di vita” (così Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
- Per aversi danno esistenziale è quindi indefettibilmente necessario che la lesione riverberi sul soggetto danneggiato/creditore in termini tali da alterarne la personalità, inducendolo a cambiare (stile di) vita, a scelte di vita diversa (in tali termini v. Cass., 5/10/2009, n. 21223), in senso ovviamente peggiorativo (per il riferimento al mero peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie v. invero Cass., Sez. Un., 15/1/2009, n. 794), rispetto a quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso.
- Siffatto aspetto risulta nelle sentenze delle Sezioni Unite del 2008 tenuto invero pienamente in considerazione, potendo allora ben dirsi che alla stregua della regola vigente in base al principio di effettività è l’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, lo sconvolgimento (il riferimento allo “sconvolgimento delle abitudini di vita” si rinviene già in Cass., 31/5/2003, n. 8827) foriero di “scelte di vita diverse”, in altre parole lo sconvolgimento dell’esistenza, a peculiarmente connotare il cd. danno esistenziale, caratterizzandolo in termini di autonomia rispetto sia alla nozione di danno morale elaborata dall’interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale (e successivamente recepita dal legislatore) sia a quella normativamente fissata di danno biologico (a tale stregua cogliendosi una sicura diversità con quanto al riguardo indicato dalla norma del Codice delle assicurazioni).
- In alcuni passaggi dello snodo motivazionale le Sezioni Unite del 2008 sembrano voler restringere invero la considerazione del pregiudizio di tipo esistenziale alla mera ipotesi della lesione del “rapporto parentale”, formula rievocante quella adoperata da Cass. n. 8827 del 2003.
- Non sembra peraltro revocabile in dubbio che lo “sconvolgimento” connotante il danno esistenziale ben può conseguire anche laddove un rapporto di parentela invero difetti, come ad esempio in caso di convivenza more uxorio per l’affermazione che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale, v. Cass., 7/6/2011, n. 12278; Cass., 16/9/2008, n. 23725. E già Cass., 28/3/1994, n. 2988. V. altresì, in giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 13/11/2009, in Resp. civ., 2010, 409 ss. Nel senso che il danno non patrimoniale va ristorato pure in caso di mero “rapporto affettivo”, avente carattere di “serietà e stabilità”, anche a prescindere dalla coabitazione v. Cass., 21/3/2013, n. 7128. Con riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora), per la ritenuta necessità di una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonchè la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Cost., v. Cass., 16/3/2012, n. 4253. Anteriormente alla recentissima riforma della filiazione di cui alla L. n. 219 del 2012 e al relativo decreto delegato, di attuazione (D.Lgs. n. 154 del 2013), per l’interpretazione secondo cui i fratelli naturali non sono parenti v. Corte Cost., 15/11/2000, n. 532.
- Il pregiudizio esistenziale o da rottura del rapporto parentale non consiste allora nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, ma si sostanzia nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, in scelte di vita diversa (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844. Diversamente v. Cass., 8/10/2007, n. 20987, peraltro anteriore alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008).
- Nella norma di cui all’art. 612 bis c.p., ove al di là della sofferenza interiore risulta presa specificamente in considerazione l’alterazione delle abitudini di vita, questa Corte (v. Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) ha di siffatta interpretazione ravvisato indiretto e sintomatico riscontro.
- Ribadendosi che il danno non patrimoniale iure proprio del congiunto è ristorabile in caso non solo di perdita ma anche di mera lesione del rapporto parentale (con riferimento al danno morale in favore dei prossimi congiunti della vittima di lesioni colpose v. Cass., 3/4/2008, n. 8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., Sez. Un., l/7/2002, n. 9556; Cass., 1/12/1999, n. 13358. E già Cass., 2/4/1998, n. 4186), il danno esistenziale o da sconvolgimento dell’esistenza è stato nella giurisprudenza di legittimità in particolare ravvisato integrato dall’abbandono del lavoro per potersi dedicare esclusivamente alla cura del figlio, bisognevole di assistenza in ragione della gravità delle riportate lesioni psicofisiche (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 6/4/2011, n. 7844); dall'”assolutezza del sacrificio di sè” nell’assistenza verso il piccolo figlio macroleso (v. Cass., 12/9/2011, n. 18641; Cass., 13/1/2009, n. 469); dall’impossibilità per una ragazza ventenne di fare la modella all’esito di intervento di chirurgia plastica con effetti deturpanti sul seno (v. Cass., 28/8/2009, n. 18805); dall’impossibilità di realizzare la propria “opzione di vita” consistente nell’ottenere il collocamento a riposo in ragione del mancato accredito di contributi da parte del datore di lavoro (v. Cass., 10/2/2010, n. 3023); dall’impossibilità di espletare l’attività di imprenditore per illegittima revoca di autorizzazione di polizia (v. Cons. Stato, sez. 6, 8/9/2009, n. 5266).
- Si è invece escluso che il cd. danno esistenziale rimanga integrato da meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e “ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., 13/11/2009, n. 24030), in stress o violazioni del diritto alla tranquillità (v. Cass., 9/4/2009, n. 8703. Contra, per la risarcibilità del danno da stress a causa della ricerca del proprio veicolo oggetto di rimozione forzata, v. peraltro Cass., 23/3/2011, n. 6712) ovvero ad altri diritti “immaginari” (per la qualificazione in tali termini del diritto al “tempo libero” v. Cass., 4/12/2012, n. 21725).
- Va al riguardo ulteriormente osservato che il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale si è da questa Corte invero ritenuto configurabile e rilevante non solo quale degenerazione del danno morale ma anche in termini meramente oggettivi, in quanto di per sè indice di sconvolgimento della vita meritevole di ristoro autonomamente e a prescindere dalla ricorrenza del danno morale, dalla sofferenza inferiore cioè per la perdita del rapporto parentale.
- Tale ipotesi si è in particolare ravvisata ricorrere in caso di determinatasi necessità di iniziare a lavorare per far fronte ad una situazione di indigenza insorta in conseguenza della morte del congiunto che in precedenza aveva assicurato una condizione di agiatezza (per il riferimento al “danno esistenziale” derivato “dall’improvviso e radicale mutamento delle loro condizioni di vita e dall’essersi trovati in una grave situazione d’indigenza” a causa dell'”improvvisa perdita di qualsiasi fonte di reddito” v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974, ove si fa peraltro riferimento ai “patimenti e alle angosce” derivate ai danneggiati dalla sopravvenuta situazione d’indigenza, cui la compagnia assicuratrice non aveva posto rimedio, colposamente tardando per oltre 5 anni la corresponsione dell’indennizzo); ovvero di aver dovuto abbandonare il lavoro svolto da anni per adattarsi a svolgerne un altro del tutto diverso (v. Cass., 9/3/2012, n. 3718).
- Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale non può in ogni caso considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno (per il rilievo che ben può accadere, sia pur non frequentemente, che la perdita di un congiunto non cagioni danno relazionale o danno morale o alcuno di essi v. Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26975).
- Esso va dal danneggiato allegato e provato, secondo la regola generale ex art. 2697 c.c. (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/5/2011, n. 10527).
- L’allegazione a tal fine necessaria, si è da questa Corte precisato, deve in realtà concernere fatti precisi e specifici del caso concreto, essere cioè circostanziata e non già purchessia formulata, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 25 settembre 2012, n. 16255).
- Anche per il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale va osservato che la natura non patrimoniale non osta alla cedibilità dell’acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (cfr. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
- Come già più sopra ribadito, la diversità ontologica dei suindicati aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale impone che, in ossequio al principio (dalle Sezioni Unite del 2008 assunto ad assioma) della integralità del risarcimento dei danni nello specifico caso concreto subiti dal danneggiato (o dal creditore) in conseguenza del fatto illecito extracontrattuale (ovvero dell’inadempimento delle obbligazioni), essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v., da ultimo, Cass., 23/4/2013, n. 9770; Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108).
- Lo stesso fenomeno si verifica d’altro canto relativamente al danno patrimoniale.
- E’ noto che quest’ultimo si scandisce in danno emergente e lucro cessante, e ciascuna di queste “categorie” o “sottocategorie” è a sua volta compendiata da una pluralità di voci o aspetti o sintagmi, quali ad esempio il mancato conseguimento del bene dovuto o la perdita di beni integranti il proprio patrimonio, il cd. fermo tecnico, le spese (di querela per l’avvocato difensore, per il C.T., funerarie, ecc.) (danno emergente); o la perdita della clientela, la irrealizzazione di rapporti contrattuali con terzi, il discredito professionale, la perdita di prestazioni alimentari o lavorative, la perdita della capacità lavorativa specifica (lucro cessante).
- Aspetti o voci che ovviamente non ricorrono tutti sempre e comunque in ogni ipotesi di illecito o di inadempimento, e il cui ristoro dipende dalla verifica della loro sussistenza, con conseguente differente entità del quantum da liquidarsi al danneggiato/creditore nel singolo caso concreto.
- Senza che la relativa considerazione ai fini della determinazione del complessivo aumentare dovuto dal danneggiante/debitore si consideri per ciò stesso una duplicazione risarcitoria.
- Perplessità evoca, a tale stregua, la riduttiva interpretazione secondo cui “la più recente giurisprudenza di questa Corte ha precisato che i danni non patrimoniali di cui all’art. 2059 c.c. comprendono tutti i pregiudizi non connotati dalla patrimonialità, e che la categoria non può essere suddivisa in diverse sottovoci suscettibili di autonomo risarcimento (danno esistenziale, danno alla vita di relazione, estetico, morale, biologico, ecc), come si è spesso verificato in passato nella prassi giurisprudenziale” (in tali termini v. Cass., 28/8/2009, n. 18805).
- Una siffatta lettura delle sentenze del 2008 è in realtà smentita, oltre che da altra sentenza della stessa 3 Sezione v. Cass., 30/10/2009, n. 23056, ove si afferma che “le sezioni unite di questa Corte, nella sentenza 11/11/2008, n. 26973, hanno chiarito in termini definitivi ed appaganti che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. è categoria generale, non suscettibile di divisione in sottocategorie variamente etichettate, di modo che il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il risarcimento di distinte categorie di danno”. Analogamente v., da ultimo, Cass., 9/3/2012, n. 3718), da decisioni di altre sezioni semplici (v. la citata Cass., 5/10/2009, n. 21223) e delle stesse Sezioni Unite.
- Va al riguardo per converso sottolineato che, al di là di affermazioni di principio secondo cui il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. precluderebbe la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (v.
- Cass., 12/2/2013, n. 3290; Cass., 14/5/2013, n. 11514), viene poi generalmente (in anche in tali decisioni) a darsi comunque rilievo alla circostanza che nel liquidare l’ammontare dovuto a titolo di danno non patrimoniale il giudice abbia invero tenuto conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto, facendo luogo, in sede di personalizzazione della liquidazione, al correlativo incremento del dato tabellare di partenza (cfr., da ultimo, Cass., 23/9/2013, n. 21716).
- Emerge evidente come rimanga a tale stregua invero sostanzialmente osservato il principio dell’integralità del ristoro, sotto il suindicato profilo della necessaria considerazione di tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel singolo caso concreto, non essendovi in realtà differenza tra la determinazione dell’ammontare a tale titolo complessivamente dovuto mediante la somma dei vari “addendi”, e l’imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a ciascuno di tali aspetti o voci.
- Nella giurisprudenza di legittimità si è per altro verso sottolineato che il principio della integralità del ristoro subito da quest’ultimo non si pone invero in termini antitetici ma trova per converso correlazione con il principio in base al quale il danneggiante/debitore è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone invero di evitarsi anche duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 14/9/2010, n. 19517).
- Duplicazioni risarcitorie si configurano solo allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito o dall’inadempimento e incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.
- In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non già il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.
- Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 6/4/2011, n. 7844. In tal senso deve intendersi invero anche quanto affermato anche da Cass., Sez. Un., 16/2/2009, n. 3677: “Il cd. danno esistenziale …
- costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perchè diversamente denominato”).
- E’ invero compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, e provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
- Le Sezioni Unite del 2008 avvertono che i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, cui viene riconosciuta “portata tendenzialmente onnicomprensiva”.
- In tal senso è da intendersi la statuizione secondo cui la sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa non rimanga allo stadio interiore o intimo ma si obiettivizzi, degenerando in danno biologico o in danno esistenziale.
- Non condivisibile è invece l’assunto secondo cui, allorquando vengano presi in considerazione gli aspetti relazionali, il danno biologico assorbe sempre e comunque il cd. danno esistenziale (in tal senso v. invece Cass., 10/2/2010, n. 3906; Cass., 30/11/2009, n. 25236).
- E’ infatti necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, in cui di detto aspetto (o voce) del danno non patrimoniale si coglie il significato pregnante per un’ipotesi di ritenuta esaustività della liquidazione operata dal giudice di merito del danno non patrimoniale (subito da gestante non posta in condizione, per errore diagnostico, di decidere se interrompere la gravidanza) utilizzando, come parametro di riferimento, quello di calcolo del danno biologico, espressamente al riguardo indicando in motivazione che “la fattispecie costituiva un caso paradigmatico di lesione di un diritto della persona, di rilievo costituzionale, che indipendentemente da un danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, impone comunque al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore, di quella che avrebbe altrimenti condotto”, v. Cass., 4 gennaio 2010, n. 13.
- In presenza di una liquidazione del danno biologico che contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico- relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.
- Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione del danno morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2010, n. 9040, ove si è ravvisato essere indubbio che il giudice del merito, nel liquidare il “danno morale” dei genitori per la morte del figlio all’esito di sinistro stradale, avesse nel caso tenuto in considerazione anche la “perdita del rapporto parentale”, sottolineando non assumere al riguardo “rilievo il nomen iuris adottato dal giudice e dalle parti” bensì “i tipi di pregiudizio che vengono complessivamente risarciti nella liquidazione del danno non patrimoniale da fatto configurabile come reato”; Cass., 16/9/2008, n. 23275).
- Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati invece presi in considerazione (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il cd. danno esistenziale), dal relativo ristoro non può invero prescindersi corretta appare l’affermazione, nel caso peraltro riferita al “comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato”, secondo cui i danni ex art. 2059 c.c. debbono essere liquidati “in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”, che si rinviene in Cass., 17 settembre 2010, n. 19816.
- Come già più sopra osservato, il ristoro del danno non patrimoniale è imprescindibilmente rimesso alla relativa valutazione equitativa.
- Con particolare riferimento alla liquidazione del danno alla salute, si è in giurisprudenza costantemente affermata la necessità per il giudice di fare luogo ad una valutazione che, movendo da una “uniformità pecuniaria di base”, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto, risponda altresì a criteri di elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. in particolare Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
- Si è a tale stregua esclusa la possibilità applicarsi in modo “puro” parametri rigidamente fissati in astratto, giacchè non essendo in tal caso consentito discostarsene, risulta garantita la prevedibilità delle decisioni ma assicurata invero una uguaglianza meramente formale, e non già sostanziale.
- Del pari inidonea si è ravvisata una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, e quindi, in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, sostanzialmente al suo mero arbitrio.
- Se una siffatta valutazione vale a teoricamente assicurare un’adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto può infatti dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si sottolinea come la circostanza che lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate in modo fortemente difforme non possa ritenersi una mera circostanza di fatto ma integra una vera e propria “violazione della regola di equità”).
- I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere idonei a consentire altresì la cd. personalizzazione del danno (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/6/2006, n. 13546), al fine di addivenirsi ad una liquidazione congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (v. Cass., 12/7/2006, n. 15760).
- In tema di liquidazione del danno, e di quello non patrimoniale in particolare, l’equità si è in giurisprudenza intesa nel significato di “adeguatezza” e di “proporzione”, assolvendo alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” così Cass., 7/6/2011, n. 12408: “equità non vuoi dire arbitrio, perchè quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è consustanziale l’idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità di trattamento. Se infatti in casi uguali non è realizzata la parità di trattamento, neppure può dirsi correttamente attuata l’equità, essendo la disuguaglianza chiaro sintomo della inappropriatezza della regola applicata. Ciò è tanto più vero quando, come nel caso del danno non patrimoniale, ontologicamente difetti, per la diversità tra l’interesse leso (ad esempio, la salute o l’integrità morale) e lo strumento compensativo (il denaro), la possibilità di una sicura commisurazione della liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal danneggiato; e tuttavia i diritti lesi si presentino uguali per tutti, sicchè solo un’uniformità pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza di trattamento, ad un tempo sintomo e garanzia dell’adeguatezza della regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta dalla considerazione del “particolare””.
- I criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, a tale stregua pertanto del pari aliena da duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), in ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844).
- Ne consegue che la quantificazione di un ammontare che si prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione verrebbe per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, legittimando i dubbi in ordine alla sua legittimità.
- Valida soluzione si è ravvisata essere invero quella costituita dal sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527).
- Pur se oggetto di forti critiche in dottrina, essendosi il sistema tabellare ritenuto lesivo della dignità umana, da epoca risalente il giudice, anche laddove non imposto dalla legge, fa ricorso all’ausilio di tabelle (v. Cass., 9/1/1998, n. 134).
- Tale sistema d’altro canto costituisce solo una modalità di calcolo tra le molteplici utilizzabili (per l’adozione, quanto al danno morale da reato, del criterio della odiosità della condotta lesiva, e quanto al cd. danno esistenziale, del criterio al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare in conseguenza di esso, v. Cass., 19/5/2010, n. 12318).
- Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all’art. 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4852), non già di derogarvi; e di addivenire ad una quantificazione del danno rispondente ad equità, nell’effettiva esplicazione di poteri discrezionali, e non già rispondenti ad arbitrio (quand’anche “equo”).
- Lo stesso legislatore, oltre alla giurisprudenza, ha fatto ad esse espressamente riferimento.
- In tema di responsabilità civile da circolazione stradale, il D.Lgs. n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale per la liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti (i cui importi sono stati da ultimo aggiornati con D.M. 6 giugno 2013, in G.U. 14 giugno 2013, n. 138).
- Già anteriormente era stato previsto (con D.M. 3 luglio 2003, e a far data dall’11 settembre 2003) un regime speciale per il danno biologico lieve o da micropermanente (fino a 9 punti).
- In assenza di tabelle normativamente determinate, come ad esempio per le cd. macropermanenti e per le ipotesi diverse da quelle oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali (per l’affermazione che tali tabelle costituiscono il cd. “notorio locale” v. in particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431), la cui utilizzazione è stata dalle Sezioni Unite avallata nei limiti in cui, nell’avvalersene, il giudice proceda ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine “di pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
- Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, questa Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402).
- Essendo l’equità il contrario dell’arbitrio, la liquidazione equitativa operata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità (solamente) laddove risulti non congruamente motivata, dovendo di essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
- Si è al riguardo per lungo tempo esclusa la necessità per il giudice di motivare in ordine all’applicazione delle tabelle in uso presso il proprio ufficio giudiziario, essendo esse fondate sulla media dei precedenti del medesimo, e avendo la relativa adozione la finalità di uniformare, quantomeno nell’ambito territoriale, i criteri di liquidazione del danno (v. Cass., 2/3/2004, n. 418), dovendo per converso adeguatamente motivarsi la scelta di avvalersi di tabelle in uso presso altri uffici (v. Cass., 21/10/2009, n. 22287; Cass., 1/6/2006, n. 13130; Cass., 20/10/2005, n. 20323; Cass., 3/8/2005, n. 16237).
- Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si escludeva altresì che l’attività di quantificazione del danno fosse di per sè soggetta a controllo in sede di legittimità, se non sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione, in presenza di totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 19/5/2010, n. 12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529). In particolare laddove la liquidazione del danno si palesasse manifestamente fittizia o irrisoria o simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura e all’entità del danno dal medesimo giudice accertate (v. Cass., 16/9/2008, n. 23725; Cass., 2/3/2004, n. 4186; Cass., 2/3/1998, n. 2272; Cass., 21/5/1996, n. 4671).
- La Corte Suprema di Cassazione è peraltro recentemente pervenuta a radicalmente mutare tale orientamento.
- La mancata adozione da parte del giudice di merito delle Tabelle di Milano in favore di altre, ivi ricomprese quelle in precedenza adottate presso la diversa autorità giudiziaria cui appartiene, si è ravvisato integrare violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si è altresì precisato che al fine di evitarsi la declaratoria di inammissibilità del ricorso per la novità della questione non è sufficiente che in appello sia stata prospettata l’inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si sia specificamente doluto, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti. In tanto, dunque, la violazione della regola iuris può essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la questione sia già stata specificamente posta nel giudizio di merito. Conformemente v. Cass., 22/12/2011, n. 28290).
- Si è quindi al riguardo ulteriormente precisato che i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire v. Cass., 30/6/2011, n. 14402. Per l’adozione di Tabelle diverse da quelle di Milano v. Trib. Roma, 9/1/2012; Trib. Roma, 5/11/2012 (inedita).
- Va peraltro osservato che l’applicazione delle Tabelle di Milano non è invero aliena dal porre alcune problematiche interpretative e applicative.
- Una prima questione concerne la nozione di danno morale presa in considerazione.
- Diversamente da quanto pure da alcuni in dottrina osservato, non sembra che esse contemplino il danno morale inteso quale dolore fisico, semmai proprio del danno biologico, dovendo ritenersi viceversa accolta la tradizionale nozione in termini di patema d’animo o sofferenza interiore o turbamento psichico.
- I parametri tabellari non risultano per altro verso riferirsi (anche) al pregiudizio alla integrità morale, massima espressione della dignità umana, la cui valutazione nella quantificazione del danno morale è, come più sopra osservato, del pari imprescindibile.
- Ulteriore questione emerge laddove, quantificato sulla base delle Tabelle di Milano l’ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale per le sofferenze fisiche o psichiche patite dal soggetto leso, ai fini dell’attività di cd. personalizzazione del danno è consentita la possibilità di superarsi i limiti tabellari, avvalendosi degli elementi già considerati ai fini dell’elaborazione della tabella (es., età della vittima e dei danneggiati superstiti, stato di convivenza, presenza di altri familiari conviventi, abitudini di vita), e in particolare i limiti massimi (in presenza di situazioni di fatto che si discostino in modo apprezzabile da quelle ordinarie, sia per elementi non considerati ai fini dell’elaborazione delle tabelle sia per il peculiare atteggiarsi nel caso concreto di quelli viceversa valutati: v. Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 14/6/2011, n. 12953), con la previsione tuttavia di un tetto massimo, in particolare per i pregiudizi esistenziali conseguenti alla menomazione psicofisica che non siano standard, da applicarsi nelle ipotesi di massimo sconvolgimento della vita familiare.
- Orbene, laddove il limite massimo dei parametri tabellari di base o il limite di oscillazione (in difetto e a fortiori) in aumento dei medesimi si configuri come non superabile, la determinazione dell’ammontare di risarcimento può invero risultare non congrua in riferimento al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionata per difetto (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale.
- Il sistema di quantificazione si prospetta allora in tal caso inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, sollevando dubbi in ordine alla sua legittimità, in quanto in contrasto con il principio in base al quale il ristoro del pregiudizio alla persona non tollera astratte limitazioni massime.
- Questione che si pone anche con riferimento alla Tabella unica nazionale ai fini della liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti, introdotta con D.Lgs. n. 209 del 2005 nel settore della responsabilità civile da circolazione stradale, in attuazione di quanto previsto all’art. 139 Cod. ass.
- Nello stabilire che “per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”, l’art. 139, comma 2, Cod. ass. ha in realtà riguardo ad una superata concezione del danno biologico, diversa dalla nozione recepita dalle Sezioni Unite del 2008, e fissa, quanto alla personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale, il limite di aumento massimo (con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato) dell’ammontare quantificato alla stregua del dato tabellare nella misura del quinto, e cioè del 20% (art. 139, comma 3, Cod. ass.) (cfr. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
- Relativamente a siffatto limite massimo di oscillazione è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, in particolare sotto il profilo dell’irragionevolezza di tale soglia e della sua idoneità a rappresentare un vulnus in ordine all’integrale riparazione del danno G. di P. Torino, 21/10/2011 (in Danno e resp., 2012, 439 ss. e in Resp. civ., 2012, 70 ss.). La questione era stata già sollevata da G. di P. Torino, 30/11/2009 (in Resp. civ., 2010, 920 ss.), in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 Cost., del D.Lgs. n. 209 del 2005, (Cod. ass.), art. 139 nella parte in cui tale norma, prevedendo un risarcimento del danno biologico basato su rigidi parametri fissati da tabelle ministeriali, non consentirebbe di giungere ad un’adeguata personalizzazione del danno, e dichiarata manifestamente inammissibile, per ravvisate carenze di prospettazione, da Corte Cost. (ord.), 28/4/2011, n. 157. V. altresì già G. di P. Roma, 14/1/2001 (in Danno e resp., 2002, 309 ss.), nonchè a violare il principio di uguaglianza laddove allo stesso tipo di lesioni possa essere attribuito un diverso risarcimento v. Trib. Tivoli, 21/3/2012 e Trib. Brindisi, 3/4/2012 (in Danno e resp., 2012, 1002 ss. e in Resp., 2012, 1294 ss. e in Vita not., 2012, 1607 ss.).
- Si è in dottrina obiettato che la riparazione integrale del danno non costituisce principio costituzionalmente garantito.
- La stessa Corte Costituzionale ha in effetti in più di un’occasione escluso che la regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al pregiudizio cagionato al danneggiato abbia copertura costituzionale da ultimo v. Corte Cost. (ord.), 28/4/2011, n. 157, ponendo in rilievo che in casi eccezionali il legislatore ben può ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, sia nel campo della responsabilità contrattuale (v. ad es., artt. 1784 e 1786 c.c. e artt. 275, 412 e 423 c.n.), che in materia di responsabilità extracontrattuale, in considerazione delle particolari condizioni dell’autore del danno (v. Corte Cost., 6/5/1985, n. 132).
- DANNO BIOLOGICO
- La Corte riconosce e valorizza sotto il profilo della intensità della sofferenza patita, il diritto del soggetto gravemente danneggiato in un incidente, dal quale consegua a breve distanza di tempo la morte, al risarcimento quanto meno del danno morale c.d. catastrofale, per tale intendendosi il danno morale puro subito dalla vittima che è consapevole della gravità delle sue condizioni e attende lucidamente, benché atterrita, l’approssimarsi ineluttabile della morte. Lo riconosce a condizione che la vittima stessa, nell’apprezzabile lasso di tempo che ha preceduto la morte, si sia mantenuta lucida ed abbia così potuto preconizzarsi l’incombenza dell’inevitabile evento catastrofico a suo danno, con conseguente sofferenza morale massima, benché concentrata in quel breve lasso di tempo, perché correlata alla prossima perdita della vita (Cass. n. 23183 del 2014, Cass. n. 7126 del 2013, Cass. n. 11601 del 2005, che puntualizza che ‘In caso di morte della vittima a seguito di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni (nel caso, due ore), se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere ‘iure hereditatis’).
- l’orientamento tuttora maggioritario di questa Corte, secondo il quale, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere risarcito agli eredi il danno biologico ‘terminale’ connesso alla perdita della vita della vittima, come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro (Cass., 28 novembre 2008, n. 28423; Cass., 7 giugno 2008, n. 13672; Cass., 20 settembre 2011, n. 19133).
- fatto illecito plurioffensivo, ciascuno danneggiato è titolare di un autonomo diritto al risarcimento di tutto il danno, morale (cioè la sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo, nell’immediatezza dell’illecito, ma anche duratura nel tempo nelle sue ricadute, pur se non per tutta la vita), e dinamico-relazionale (altrimenti definibile ‘esistenziale’), consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana (Cass. 20972 del 2012). Quindi, se l’illecito abbia gravemente compromesso il valore persona, come nel caso della definitiva perdita del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto, in proporzione alla durata e alla intensità del vissuto, alla composizione del restante nucleo che può prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo sia all’età della vittima primaria che a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma, ed ad ogni altra circostanza del caso concreto – che deve esser allegata e provata, ancorché presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza, essendo danni – conseguenza, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare – ad una liquidazione comprensiva di tutto il pregiudizio non patrimoniale subito (Cass. 1410, 24015 del 2011).
- congiunti perché i lamentati danni sono tutti aspetti di pregiudizi non patrimoniali che l’art. 2059 cod. civ. tutela nei casi determinati dalla legge, sono fondati. Infatti, secondo gli artt. II – 2, 61, 62, 63 e 107 della Costituzione Europea il danno morale costituisce lesione del valore universale della persona umana, inviolabile, la cui tutela giurisdizionale risarcitoria deve esser piena. Secondo gli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo ogni persona ha il diritto al rispetto della vita privata e familiare, a fondare una famiglia e alla formazione morale e sociale della prole, che ha diritto alla cura e al supporto genitoriale. La Costituzione Italiana garantisce la piena tutela dei diritti fondamentali di cui agli artt. 2, 29, 30, 31: integrità morale, vita matrimoniale, solidarietà familiare, rapporto parentale. L’art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 190 del 2008, afferma che la dignità umana ha la sua massima espressione nell’integrità morale e biologica.
- Perciò da un lato va ribadito che, in caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascuno danneggiato è titolare di un autonomo diritto al risarcimento di tutto il danno, morale (cioè la sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo, nell’immediatezza dell’illecito, ma anche duratura nel tempo nelle sue ricadute, pur se non per tutta la vita), e dinamico-relazionale (altrimenti definibile ‘esistenziale’), consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana (Cass. 20972 del 2012). Quindi, se l’illecito abbia gravemente compromesso il valore persona, come nel caso della definitiva perdita del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto, in proporzione alla durata e alla intensità del vissuto, alla composizione del restante nucleo che può prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo sia all’età della vittima primaria che a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma, ed ad ogni altra circostanza del caso concreto – che deve esser allegata e provata, ancorché presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza, essendo danni – conseguenza, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare – ad una liquidazione comprensiva di tutto il pregiudizio non patrimoniale subito (Cass. 1410, 24015 del 2011).
- Il percorso seguito da questa Corte negli ultimi anni in tema di liquidazione del danno non patrimoniale è stato teso a garantire una sempre più adeguata personalizzazione del danno, che necessariamente deve passare attraverso l’abbandono di logiche liquidazione meramente assertive di un risultato e l’ancoraggio della quantificazione, che è pur sempre, necessariamente, affidata alla valutazione equitativa del giudice di merito (che è quello che meglio può apprezzare avendole avute di fronte, le mille sfaccettature e le particolarità del caso concreto), a parametri obiettivi quali le tabelle in uso presso i vari tribunali.
- Alla attenzione ai meccanismi di personalizzazione del danno è andata di pari passo la costante consapevolezza della necessità di garantire il più possibile l’uniformità di giudizio (e quindi al contempo la prevedibilità e la prevedibilità di esso) della quale si è fatta carico Cass. n. 12408 del 2011, indicando ai giudici di merito che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziali. Allo scopo di garantire tale uniformità di trattamento la Corte ha indicato l’opportunità di far riferimento non soltanto ad un criterio di quantificazione obiettivo ma ad un criterio in assoluto preferibile, ovvero al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, prescelto come preferibile per una vasta gamma di considerazioni tra le quali l’essere già ampiamente diffuso sul territorio nazionale ben al di fuori dai confini del singolo distretto. A tali tabelle questa Corte ha riconosciuto, dal 2011 in poi, in applicazione dell’art. 3 Cost., la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono.
- A fronte del percorso tracciato dalla giurisprudenza di legittimità che impone di ancorare la valutazione equitativa del danno non patrimoniale a parametri obiettivi, verificabili, all’interno dei quali sussumere le varie circostanze del caso concreto (e, dal 2011 in poi, non a qualsiasi paramento obiettivo ma alle tabelle milanesi ove non sussistano e siano stati enunciati motivi per discostarsene) in modo da dar corpo ad una nozione di equità che sia non solo regola del caso concreto ma anche garanzia della parità di trattamento, non può più considerarsi legittima la liquidazione del danno non patrimoniale che faccia riferimento, come la sentenza impugnata, al criterio equitativo puro, svincolato da qualsiasi parametro di riferimento ai fini della quantificazione. Essa si traduce in una quantificazione arbitraria ed immotivata che, pur partendo dalla enunciazione di alcune premesse, non da giustificazione delle conclusioni cui perviene. Tale criterio infatti non rende evidente e controllabile l’iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto realmente, nell’operare la liquidazione, della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo, o se l’enunciazione dei criteri sia rimasta una mera affermazione di principio.
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