Fallimento ed altre procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta – Omissione sistematica del pagamento di imposte e contributi – Cagionato fallimento della società – Responsabilità penale – Socio accomandatario e amministratore – Sussiste
AVVOCATO ESPERTO DIFESA BANCAROTTA FRAUDOLENTA MILANO BOLOGNA TORINO TREVISO VICENZA PADOVA ROVIGO bancarotta PROCESSO
RAVENNA FORLI CESENA 051 6447838
BANCAROTTA FRAUDOLENTA APPELLO CASSAZIONE PENALE bancarotta PROCESSO
IL FATTO
La Corte di appello di Milano con sentenza del 5/12/2017 ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 16/2/2016, appellata dall’imputato, che aveva ritenuto A.Z. responsabile del reato di bancarotta fraudolenta documentale e di cagionato fallimento tramite operazioni dolose ex artt. 223, comma 1, 216, comma 1, n. 2, 223, comma 2, 219, comma 2, n. 1 legge fall, (capo A) e del reato di cui all’art. 10 quater d.lgs. 10/3/2000 n. 74 (capo B) e l’aveva perciò condannato alla pena di anni 2 e mesi 2 di reclusione, previa unificazione dei due reati sotto il vincolo della continuazione e con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti, con le pene accessorie di legge.
Con il capo A) era stato imputato allo Z., nella sua qualità di socio accomandatario illimitatamente responsabile e di amministratore della società A.Z.M. di Z. A. & C., dichiarata fallita in data 16/11/2011, di aver sottratto e distrutto libri e scritture contabili della società allo scopo di procurarsi ingiusto profitto e di danneggiare i creditori e comunque di aver tenuto libri e scritture in guisa tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, nonché di aver cagionato il fallimento della società con operazioni dolose, in particolare omettendo sistematicamente il pagamento delle obbligazioni tributarie e delle obbligazioni contributive verso gli enti previdenziali con la maturazione di un debito complessivo di € 1.818.914.
Con il capo B) era stato contestato allo Z. di non aver versato l’IVA per l’anno di imposta 2009 entro il termine per il versamento dell’acconto per l’anno successivo, utilizzando in compensazione crediti non spettanti per € 62.005,00.
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Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 20 maggio 2019, n. 34812
Presidente: Sabeone – Estensore: Tudino
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 26 aprile 2018, la Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione del Tribunale in sede del 13 dicembre 2016, con la quale era stata affermata, all’esito del giudizio abbreviato, la responsabilità penale di Maria Assunta C. per i reati di bancarotta semplice e fraudolenta patrimoniale e documentale in riferimento alle vicende di Cerioli & Figlio s.r.l., dichiarata fallita con sentenza dell’11 marzo 2014, di cui l’imputata era stata nominata, il 9 luglio 2009, liquidatore.
I fatti riguardano le vicende traslative di beni strumentali e del know-how della società, ceduti a CR Meccanica s.r.l., riferibile alla stessa compagine sociale della cedente e fallita il 18 giugno 2013, trasferiti ad un prezzo complessivo pari ad euro 600.00,00, rimasto nella gran parte impagato.
La liquidatrice si era astenuta dal richiedere il fallimento, non aveva agito per l’adempimento, pur in presenza di una clausola risolutiva espressa, né aveva presentato istanza di insinuazione al passivo.
Le scritture contabili erano risultate, inoltre, tenute in guisa tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.
2. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano ha proposto ricorso l’imputata, affidando le proprie censure a quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge in riferimento al concorso tra i reati di bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta, ritenuto pur in presenza della medesima condotta materiale, essendo l’evento distrattivo cronologicamente ravvicinato e causalmente collegato alle condotte assunte ad elemento costitutivo del primo reato, in quanto la consapevolezza dell’aggravamento del dissesto accomuna tanto il presupposto del reato sub a) che il fine della fattispecie patrimoniale.
2.2. Con il secondo motivo, si deduce violazione della legge penale e correlato vizio di motivazione in riferimento alla valutazione probatoria, avendo la corte territoriale, quanto alla bancarotta patrimoniale:
– omesso di censurare la congruità dell’operazione di cessione dei beni strumentali e dei vantaggi in ipotesi conseguiti dalla cessionaria, limitandosi a sindacare indebitamente l’opportunità della stessa vendita, a valorizzare l’identità della compagine sociale delle parti ed a ritenere la simulazione dell’atto alla stregua delle sole conclusioni del curatore ed in modo apodittico e congetturale;
– travisato la natura dissipativa dell’operazione e la qualificazione del[l]’atto in termini di cessione d’azienda, trascurando di considerare come la società fosse inattiva sin dal 2009, nonché di prendere atto dell’estinzione di posizioni debitorie, specie nei confronti dei dipendenti che, per tale motivo, non si erano insinuati al passivo, con conseguente assenza di indici di fraudolenza in concreto ed indebito sindacato delle scelte imprenditoriali, come sottolineato con l’atto d’appello rimasto, sul punto, ignorato
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La mancata valutazione complessiva degli elementi indicati a discarico, ed il travisamento anche delle iniziative recuperatorie – non giudizialmente azionate per non esporre la società ai relativi costi legali – comporta la violazione dell’art. 192 c.p.p. in riferimento:
– all’elemento soggettivo del reato sub b), di cui la sentenza impugnata omette ogni giustificazione, trascurando di rilevare come tutte le somme incassate siano state destinate al ripianamento della esposizione debitoria;
– al reato di bancarotta semplice, in presenza di una strategia di liquidazione ben delineata e sostanzialmente travisata, nella positiva prognosi che ha giustificato la cessione dei beni strumentali ad un valore di mercato, peraltro, di gran lunga inferiore al prezzo pattuito, e nella ragionevole previsione di definizioni fiscali agevolate, con conseguente irragionevole e presuntiva enucleazione dello stato di dissesto;
– all’elemento soggettivo di tale ultima imputazione, apoditticamente asserito ignorando come il progetto di liquidazione fosse stato approvato dal Tribunale di Monza.
2.3. Con il terzo motivo, deduce analoghe censure in relazione alla bancarotta documentale sub c), fondata sulla sola relazione del curatore, risultando invece ignorate le deduzioni difensive, fondate sul rilievo della non obbligatorietà delle scritture non aggiornate e della natura semplificata della contabilità, mentre è la stessa condizione giuridica di liquidazione che giustifica il mancato aggiornamento dei libri Iva e vendite per l’anno 2012.
2.4. Con il quarto motivo, deduce violazione mancanza di motivazione in riferimento all’esclusione dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 219 l. fall., al giudizio di bilanciamento delle circostanze ed alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato.
1. Sono tardivamente proposte e, comunque, inconducenti le censure articolate nel primo motivo di ricorso in riferimento al concorso di reati tra le fattispecie di cui agli artt. 217, comma 1, n. 4, e 216, comma 1, n. 1, l. fall.
1.1. Dall’incontestata sintesi dei motivi di gravame della sentenza impugnata non risulta che la questione del concorso di reati sia stata proposta al giudice d’appello, con conseguente inammissibilità della relativa censura.
Invero, è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di legge verificatasi nel giudizio di primo grado, se non si procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello, contenuto nella sentenza impugnata, che non menzioni la medesima violazione come doglianza già proposta in sede di appello, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (Sez. 2, n. 31650 del 3 aprile 2017, Ciccarelli, Rv. 270627, n. 9028 del 2014 Rv. 259066-01).
1.2. Va, peraltro, rilevato come la bancarotta semplice per aggravamento del dissesto e la bancarotta fraudolenta per dissipazione, rispettivamente contestati all’imputata, non siano riconducibili all’idem factum, in quanto, nel primo caso, oggetto di punizione è l’aggravamento del dissesto dipendente dal semplice ritardo nell’instaurare la concorsualità, non essendo richiesti ulteriori comportamenti concorrenti (Sez. 5, n. 28609 del 21 aprile 2017, Andriollo, Rv. 270874, n. 13318 del 2013, Rv. 254986-01), mentre la seconda fattispecie si realizza in presenza di operazioni incoerenti con le esigenze dell’impresa, tali da ridurne il patrimonio (Sez. 5, n. 34836 del 30 maggio 2017, Gironi, Rv. 270784).
Di guisa che, in presenza di fatti diversi alla stregua della verifica in concreto della triade condotta-evento-nesso causale, non rileva, nella specie, il divieto di cui all’art. 649 c.p., nella lettura costituzionalmente conforme offerta dalla Consulta con la sentenza n. 200 del 2016 (v. al riguardo Sez. 5, n. 13399 dell’8 febbraio 2019, PMT c/ Callegari, Rv. 275094; Sez. 5, n. 25651 del 15 febbraio 2018, Pessotto, Rv. 273468): l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. un., n. 34655 del 28 giugno 2005, P.G. in proc. Donati, Rv. 231799), mentre, nel caso di specie, ricorrono fatti distinti e progressivi in quanto alla condotta omissiva, ex se aggravatrice del dissesto con valutazione ex ante ed in concreto, è seguita diversa e successiva condotta dissipativa.
La coesistenza di più fatti eterogenei di bancarotta è, peraltro, sottoposta alla disciplina speciale sul concorso di reati prevista dall’art. 219, comma secondo, n. 1, l. fall. (Sez. un., n. 21039 del 27 gennaio 2011, P.M. in proc. Loy, Rv. 249667).
Il rilievo è, pertanto, inconducente.
2. Non colgono nel segno le doglianze svolte nel secondo motivo di ricorso in riferimento all’affermazione di responsabilità per gli stessi reati.
2.1. Alla disamina della fattispecie va premesso come la responsabilità del liquidatore nei reati fallimentari ripeta il proprio fondamento dalla violazione degli obblighi in cui si specifica la posizione di garanzia, circoscritta dal mandato liquidatorio cui è finalizzata la fase societaria.
La responsabilità del liquidatore deriva, infatti, non solo dall’art. 223 l. fall., ma anche dall’art. 2489 c.c., che rinvia alle norme in tema di responsabilità degli amministratori e, quindi, anche all’art. 2392, il quale fissa un principio di ordine generale – per il quale l’amministratore deve vigilare sulla gestione ed impedire il compimento di atti pregiudizievoli, oltre che attenuarne le conseguenze dannose – di guisa che sussiste anche per i liquidatori una posizione di garanzia del bene giuridico penalmente tutelato, con conseguente ineludibile responsabilità, ex art. 40, cpv., c.p., ove i detti obblighi siano disattesi; inoltre i liquidatori hanno l’obbligo di ricevere in consegna i libri sociali (art. 2487-bis, comma 3, c.c.) (Sez. 5, n. 36435 del 14 giugno 2011, Scuoppo, Rv. 250939).
Nella delineata prospettiva, deve affermarsi come, nella fase di liquidazione, al perseguimento dello scopo sociale si sostituisce il mandato, teleologicamente orientato, di liquidazione delle attività, finalizzata al soddisfacimento dei creditori – che, difatti, sono titolari di poteri di vigilanza, controllo e persino di veto – di cui la vendita costituisce lo strumento principale, assumendo precipua funzione di monetizzazione.
Nondimeno, ove la vendita sia eseguita con modalità tali da configurarsi quale operazione priva ex antedi qualsivoglia grado di ragionevolezza rispetto al raggiungimento dello scopo liquidatorio, la dismissione del patrimonio viene ad iscriversi a pieno titolo nel novero delle condotte che generano la responsabilità del liquidatore.
2.2. Alla luce di tali premesse, e tenuto conto dello specifico scopo dello strumento traslativo nella fase liquidatoria societaria, le argomentazioni difensive, finalizzate a contestare la natura dissipativa della cessione dei beni strumentali e del know-how della fallita in favore di altra società, costituita ad hocnell’ambito del medesimo contesto famigliare, rimasta priva di adeguate contropartite, non colgono nel segno, in presenza di un’operazione del tutto incongrua, in concreto, rispetto al fine della liquidazione.
Fermo restando il sostanziale inadempimento della cessionaria nel pagamento rateizzato del prezzo, solo in minima parte onorato e destinato alla remunerazione dei dipendenti, la sentenza impugnata ha dato conto, con ineccepibile incedere dell’argomentazione, non solo degli indicatori ex ante di fraudolenza di una vera e propria cessione d’azienda – correttamente individuati nell’oggetto della vendita, traslativa dell’intero asset aziendale; nella riconducibilità al medesimo centro di interessi delle parti del rapporto; nella mancanza di deduzioni in ordine alla valutazione di alternative, comparativamente vagliate secondo opportune valutazioni di convenienza, e nell’assenza di garanzie della dilazione – ma anche di una complessiva acquiescenza del liquidatore che, a fronte dell’inadempimento, non ha azionato la clausola risolutiva espressa, astenendosi dall’intraprendere le necessarie azioni giudiziarie a tutela dell’ingente credito, dispiegando al riguardo giustificazioni prive di credibilità razionale.
Di guisa che la natura dissipativa dell’operazione ed il dolo – generico – del liquidatore risultano, nella sentenza impugnata, argomentati secondo cadenze logiche e consequenziali, aderenti all’esito della prova, in presenza dell’accertata incoerenza, ex ante ed in concreto, delle operazioni di cessione rispetto al fine liquidatorio, tali da ridurre il patrimonio della società espressamente destinato alla liquidazione (v. Sez. 5, n. 34836 del 30 maggio 2017, Gironi, Rv. 270784; n. 47040 del 2011, Rv. 251218-01; n. 5317 del 2015, Rv. 262225-01; n. 44103 del 2016, Rv. 268206-01), con la consapevolezza dell’autore della condotta (Sez. 5, n. 5317 del 17 settembre 2014 – dep. 2015, Franzoni, Rv. 262225-01).
2.3. A siffatta trama dell’argomentazione, la ricorrente oppone l’asserita preterizione di argomenti difensivi che, da un lato, risultano ampiamente vagliati e, dall’altro, non s’appalesano idonei a disarticolare il ragionamento giudiziale.
La ricorrente prospetta, in primis, l’erronea ricostruzione delle operazioni di cessione in favore di CR Meccanica s.r.l., avente, invece, funzione strategica per l’ipotizzata attenuazione della pressione debitoria; finalità effettivamente realizzata, come dimostrato dalla mancata insinuazione al passivo fallimentare dei dipendenti, progressivamente pagati attraverso la liquidità acquisita con il pagamento delle prime rate del prezzo della cessione, utilizzando un argomento che – in considerazione del rapporto tra quanto versato e quanto dovuto – introduce una valutazione postuma e non incide sulla natura dissipativa della vendita.
In tal senso, la cessione dei beni strumentali, pur costituendo lo scopo tipico della liquidazione, si è in concreto risolta in una cessione dissipativa che, sebbene abbia consentito la soddisfazione dei dipendenti, ha determinato l’affievolimento della garanzia patrimoniale dei creditori della cedente, a tutela della quale risulta che l’imputata non abbia agito, nonostante la previsione di una clausola risolutiva espressa, prospettando al riguardo giustificazioni del tutto inadeguate.
Deve, pertanto, affermarsi che costituisce condotta dissipativa la vendita, da parte del liquidatore, di beni sociali, eseguita con modalità tali da configurarsi quale operazione priva ex ante di qualsivoglia grado di ragionevolezza rispetto al raggiungimento dello scopo liquidatorio, con la consapevolezza dell’autore della condotta di diminuirne il patrimonio per scopi estranei al mandato liquidatorio.
Né risulta decisivo l’argomento, asseritamente trascurato dai giudici di merito, secondo cui il piano di liquidazione sarebbe stato approvato dal Tribunale fallimentare, a fronte della inequivoca valenza dimostrativa degli indicatori enunciati e della postuma valutazione – incidentale, cartolare e parziale – svolta in sede giudiziale.
Donde la valutazione svolta nelle conformi sentenze di merito risulta adeguatamente giustificata, nel caso di specie, innanzitutto con il riferimento alla sussistenza, già all’atto della messa in liquidazione, delle condizioni per imporre al liquidatore la richiesta di fallimento della società, in presenza di una situazione di dissesto non componibile mediante la cessione dei beni aziendali, a cui è invece seguita un’operazione, già ex ante priva di ragionevoli margini di utilità, di sostanziale trasfusione dei beni societari – momento in cui rileva la natura dissipativa dell’operazione societaria, a prescindere dalla esigibilità dei crediti in seguito alla procedura fallimentare – e, comunque, la sostanziale mancanza di iscrizioni all’attivo patrimoniale derivanti dalla cessione, se non la pretesa tacitazione dei dipendenti, che non elimina la sostanziale gratuità dell’operazione, intercorsa con altra azienda familiare e senza che il liquidatore agisse per la tutela dei crediti.
2.4. Risulta, del pari, adeguatamente giustificato l’elemento soggettivo del reato.
La bancarotta fraudolenta per dissipazione ha, infatti, natura di reato di pericolo concreto a dolo generico. In relazione a tale reato non ha, pertanto, incidenza né la finalità perseguita in via contingente dal soggetto – e pertanto sono per l’appunto manifestamente infondate le numerose censure del ricorrente tese a valorizzare tale profilo – né si richiede uno specifico intento di arrecare un pregiudizio economico ai creditori, essendo sufficiente la consapevolezza della mera possibilità di danno che possa derivare alle ragioni creditorie.
L’argomentazione rassegnata al riguardo appare del tutto rispondente agli indicatori declinati dalla giurisprudenza più recente (Sez. 5, n. 38396 del 23 giugno 2017, Sgaramella, Rv. 270763) ai fini della delibazione tanto della concreta pericolosità della condotta dissipativa che riguardo la consapevolezza di siffatta pericolosità: si tratta di indici dotati di immediata evidenza dimostrativa, al di fuori di qualsiasi logica presuntiva, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’agente ha operato, avuto riguardo alla continuità soggettiva delle parti; nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra cessione e realizzo rispetto ai canoni di ragionevolezza imprenditoriale, rilevanti anche nella fase liquidatoria, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori e, nella specie, la liquidazione, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa.
Di guisa che la condotta ascritta all’imputata, per come ricostruita nelle sentenze di merito, appare caratterizzata da plurimi indici di fraudolenza tra quelli indicati, sia pur a titolo esemplificativo, dalla sentenza Sgaramella e da un’indubbia idoneità depressiva della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., in presenza dell’adeguata giustificazione di un previo concerto tra società unitariamente gestite, finalizzato alla sottrazione agli organi della curatela di beni aziendali e del relativo controvalore.
L’infondatezza delle censure difensive si appalesa, dunque, nella misura in cui le stesse dimostrano di non aver tenuto in considerazione le circostanze che caratterizzano la fattispecie concreta in riferimento alle quali la corte territoriale ha operato la criticata qualificazione: la natura fittizia dell’operazione, ampiamente argomentata in riferimento alla continuità soggettiva delle parti rispetto allo stato di conclamata insolvenza della cedente e dell’assenza di qualsivoglia garanzia da parte della cessionaria; la consapevole inerzia nel recupero dei crediti, pretestuosamente giustificata da esigenze di risparmio sulle spese legali; la natura meramente aleatoria dei crediti anche alla luce della diagnosi delle cause che hanno determinato il fallimento della cessionaria; il coinvolgimento della medesima famiglia nella gestione di entrambe le società; la mancanza di serie contropartite per la cedente (valutata non solo ex se, quanto in connessione alle precedenti circostanze); il risultato dell’operazione, che ha comportato la totale dismissione dei beni da liquidare, priva di utili contropartite.
Siffatte operazioni sono state, difatti, del tutto razionalmente qualificate non solo come intrinsecamente rischiose, bensì in concreto dissipative, in quanto sostanzialmente risoltesi in una cessione infragruppo rimasta priva di serie contropartite, sicché il fallimento della cedente – attualizzando l’offesa all’interesse tutelato dalle norme penali fallimentari – realizza la condizione cui è, per legge, subordinata la punibilità del trasgressore.
Destituita di fondamento alcuno è, dunque, la pretesa della ricorrente di avvalorare la tesi per cui le operazioni liquidatorie siano state stipulate a condizioni vantaggiose, solo fatalmente rimaste insoddisfatte, con conseguente esposizione dei creditori della fallita ad un pericolo derivante da quella che altro non è stata se non una ordinaria operazione di spin-off.
2.5. Sono, del pari, inconducenti le censure rivolte all’elemento soggettivo del reato di bancarotta semplice.
L’ampia rassegna degli argomenti esposti in punto di ricostruzione dell’operazione dissipativa rende ragione della natura – almeno – gravemente colposa dell’astensione dalla richiesta di fallimento (Sez. 1 civ., n. 10523 del 15 aprile 2019, Vicari c. Manferoce, Rv. 653470), su cui si è innestata un’operazione dissipativa, mentre le doglianze difensive, nel criticare siffatta ricostruzione, finiscono per ritornare sulla – infondata – tesi del concorso formale di reati.
Il secondo motivo di ricorso è, pertanto, infondato.
3. Sono infondate le doglianze svolte nel terzo motivo di ricorso riguardo la bancarotta documentale.
La ricorrente lamenta la configurazione del reato rispetto alla tenuta di scritture non obbligatorie, ovvero non necessarie in relazione alla fase liquidatoria, omettendo di confrontarsi con il principio secondo cui in tema di irregolare tenuta dei libri contabili nei reati fallimentari, a differenza del reato di bancarotta semplice in cui l’illiceità della condotta è circoscritta alle scritture obbligatorie ed ai libri prescritti dalla legge, l’elemento oggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale riguarda tutti i libri e le scritture contabili genericamente intesi, ancorché non obbligatori (Sez. 5, n. 55065 del 14 novembre 2016, Incalza, Rv. 268867); in quest’ultima ipotesi, si richiede, inoltre, il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito, elemento puntualmente esplicitato nella sentenza impugnata, che ha richiamato al riguardo la relazione del curatore, rispetto alla quale è del tutto inconducente la critica relativa alla mancata argomentazione riguardo il grado di diligenza da questi dispiegato per procedere aliunde alla ricostruzione documentale della fase liquidatoria.
La giustificazione addotta a fondamento del mancato aggiornamento di iscrizioni che si riferiscono, invece, all’amministrazione della società è, peraltro, del tutto superata dall’accertata indisponibilità delle scritture relativa propriamente alla fase liquidatoria.
Con conseguente infondatezza della relativa censura.
4. È, invece, generico il quarto motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta la mancata considerazione della lieve entità del danno, omettendo di rappresentare quale positivo indicatore, rilevante al riguardo e documentato dalla difesa, i giudici di merito avrebbero omesso di considerare.
Il rilievo è, pertanto, inammissibilmente formulato.
5. La sentenza impugnata deve essere, invece, annullata con rinvio in riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie, applicate all’imputato.
5.1. Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, u.c., r.d. 267/1942 nella parte in cui dispone che “la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa” e siffatta declaratoria – avente efficacia ex tunc ai sensi dell’art. 30 della l. cost. n. 87 del 1953 – trova applicazione nell’ambito del presente procedimento in quanto, sebbene questione non investita dal ricorso, la durata delle sanzioni accessorie come determinata nella sentenza impugnata si qualifica in termini di (sopravvenuta) illegalità della pena, apprezzabile ex officio in sede di legittimità (Sez. un., n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264207).
5.2. Nella sentenza additiva richiamata, la Consulta ha esplicitamente escluso l’applicabilità dello strumento di commisurazione (cor)relativa declinato dall’art. 37 c.p. che, in ipotesi di pena accessoria indeterminata, ne determina la durata nella stessa misura della pena principale, ritenendo il relativo meccanismo non adeguato ad assicurare la necessaria autonoma quantificazione in considerazione della specifica e non sovrapponibile funzione del diverso ordine di pene sia in relazione al diverso carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, che della diversa finalità.
5.3. Siffatta interpretazione non è stata ritenuta vincolante in una prima applicazione giurisprudenziale (Sez. 5, 7 dicembre 2018, in proc. 23648/2016, Piermartiri, informazione provvisoria n. 16/2018), mentre altro orientamento (Sez. 5, 13 dicembre 2018, in proc. 3703/2018, Retrosi; Sez. 5, n. 5882 del 6 febbraio 2019, Rv. 274413) si è determinato nel senso di dover rimettere al giudice del merito la determinazione discrezionale dell’entità delle pene accessorie ex art. 216, u.c.
5.4. Alla stregua di siffatto contrasto, manifestatosi nell’immediatezza della pronuncia della Consulta, è stata rimessa alle Sezioni unite (Sez. 5, Piermartiri) la questione «se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare, come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte costituzionale con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l’introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni” debbano considerarsi pena con durata non predeterminata e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 c.p. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta), con la conseguenza che è la stessa Cassazione a poter operare la detta commisurazione con riferimento ai processi pendenti; ovvero se, per effetto della nuova formulazione, la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi predeterminata entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 c.p. ma, di regola, la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p.».
5.5. Dalla relativa informazione provvisoria, risulta che, con sentenza del 28 febbraio 2019, le Sezioni unite di questa Corte hanno statuito come «le pene accessorie previste dall’art. 216 l. fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.».
Di guisa che, in applicazione dell’enunciato principio di diritto, che assegna alla discrezionalità del giudice del merito la verifica dei parametri di commisurazione della pena accessoria, in quanto sanzione predeterminata, in riferimento al carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona (libertà di iniziativa economica) ed alla finalità (non [solo] rieducativa) della medesima, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla determinazione della durata delle sanzioni accessorie di cui all’art. 216, u.c., l. fall., irrogate all’imputato nella misura di dieci anni, con rinvio al giudice di merito per nuovo esame sul punto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie di cui all’art. 216, u.c., l. fall., con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. Rigetta il ricorso nel resto.
Depositata il 30 luglio 2019.