REATO DI BANCAROTTA, NON E’ UNA DIFESA FACILE, OCCORRE AVERE UN AVVOCATO CON ESPERIENZA, CREDIMI
I reati di bancarotta sono disciplinati dalla Legge Fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267) e successive modifiche.
L’elemento soggettivo differenzia la Bancarotta semplice dalla Fraudolenta intercorre tra bancarotta semplice (artt. 217 e 224 L. Fall.) e bancarotta fraudolenta (artt. 216 e 223 L. Fall.), relativa ad una differente intensità della gravità oggettiva e soggettiva.
Quando è integrato il reato di bancarotta per distrazione ?
l’operazione di scissione di una societa’, successivamente dichiarata fallita, a favore di altra societa’ alla quale siano conferiti beni di rilevante valore, qualora tale operazione – astrattamente lecita – sulla base di una valutazione in concreto che tenga conto della effettiva situazione debitoria in cui operi la societa’ poi fallita al momento della scissione, nonche’ di ulteriori operazioni poste in essere a danno della societa’ poi fallita, si riveli volutamente depauperatoria del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori nella prospettiva della procedura concorsuale, non essendo le tutele previste dall’articolo 2506 c.c. e seg. di per se’ idonee ad escludere ogni danno o pericolo per le ragioni creditorie (Sez. 5, n. 20370 del 10/04/2015, Piscedda, Rv. 264078), va dunque sottolineato che, ai fini del giudizio sulla configurabilita’ del reato, e’ necessaria “una valutazione in concreto”, che tenga conto della “effettiva situazione debitoria in cui versava la societa’ poi fallita al momento della scissione”, essendo pacifico, ai fini penalistici, che uno schema civilisticamente lecito (come la scissione) possa essere utilizzato per realizzare uno scopo penalmente illecito.
I reati fallimentari sono fattispecie penali che sanzionano condotte poste in essere in danno della società e dei creditori sociali: in sostanza si rimprovera all’imprenditore o all’amministratore di aver cagionato il dissesto finanziario e patrimoniale della società.
La bancarotta fraudolenta è il reato fallimentare ascrivibile sia l’imprenditore dichiarato fallito (art. 216 L. Fall.), sia agli organi delle società (art. 223 L. Fall.). La bancarotta fraudolenta può essere patrimoniale – laddove siano state compiute condotte di distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione sui beni dell’impresa ovvero vi sia stata l’esposizione di passività inesistenti (art. 216 n. 1) L. Fall.) – ovvero documentale – laddove siano stati occultati o distrutti i libri e le scritture contabili (art. 216 n. 2) L. Fall.).
La bancarotta commessa da un imprenditore individuale fallito, o da un soggetto diverso dal fallito, viene definita come propria;
Se la Bancarotta sia commessa da un amministratore, un direttore generale, un sindaco o un liquidatore di una società commerciale viene delineata come impropria.
Le condotte criminose relative a fattispecie sia di bancarotta semplice che di bancarotta fraudolenta possono essere commessi su beni o su libri o scritture contabili: nei primi casi si parla di bancarotta patrimoniale (o bancarotta in senso stretto), mentre nell’ultima ipotesi si parla di bancarotta documentale.
Ai fini della affermazione della responsabilita’, ai sensi dell’articolo 40 c.p., comma 2, degli amministratori senza deleghe gestorie a titolo di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione commesso dal presidente del consiglio di amministrazione delegato e’ necessaria, previa specifica ricostruzione delle relazioni fra fatti distrattivi e concreto funzionamento del consiglio di amministrazione della societa’, alla luce delle clausole di organizzazione delle funzioni gestorie rispettivamente recate dallo statuto sociale e, eventualmente, da successive deliberazioni di organizzazione della gestione sociale adottate dall’assemblea ovvero dal consiglio di amministrazione, la prova: che gli stessi amministratori siano stati informati delle distrazioni ovvero che delle stesse abbiano comunque avuto conoscenza; oppure che vi sia stata la presenza di segnali peculiari di distrazione aventi carattere di anormalita’ di questi sintomi per tali amministratori, dai quali e’ dato desumere la consapevole accettazione del rischio dell’evento illecito, in base allo statuto e secondo i, principi affermati in relazione al dolo eventuale da Cass. S.U., n. 38343 del 24 aprile 2014, Espenhahn. Solo la prova della conoscenza del fatto illecito, ovvero della concreta conoscibilita’ dello stesso anche mediante l’attivazione del potere informativo di cui all’articolo 2381 c.c., u.c., in presenza di segnali specifici di distrazione, comporta l’obbligo giuridico degli amministratori privi di deleghe gestorie di intervenire per impedire il verificarsi dell’evento illecito: la volontaria, da dolo indiretto, mancata attivazione di tali soggetti in presenza di tali circostanze determina l’affermazione della penale responsabilita’ avendo la loro omissione contribuito a cagionare l’evento dannoso.
Articolo 216
Bancarotta fraudolenta
- E` punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che:
1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
- La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.
- E’ punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
- Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacita` per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
ELEMENTO SOGGETTIVO
Quanto all’elemento soggettivo, rappresentato – secondo l’espressa previsione normativa – dal dolo specifico, cioè dalla necessità che la condotta sia finalizzata allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, in previsione della possibilità del fallimento, (cfr. Cass., sez. V, 17.12.2008, n. 1137, V; Cass., sez. V, 13.10.1993, n. 11329), deve condividersi la statuizione della Suprema Corte (Cass. pen. Sez. V, Sent., 08.01.2013, n. 769) secondo cui “proprio il mancato deposito ed il mancato rinvenimento delle menzionate scritture contabili obbligatorie assumono valore pregnante per dimostrare l’esistenza del dolo specifico, cioè della volontà di arrecare un pregiudizio ai creditori in previsione del possibile fallimento” che, peraltro, emerge dalla concomitante indisponibilità manifestata da (…) a fornire al curatore spiegazioni in merito alla sorte del patrimonio della fallita.
Rileva in definitiva la Suprema Corte che elementi sintomatici della direzione intenzionale della condotta di sottrazione documentale alla causazione di un pregiudizio ai creditori in previsione del possibile fallimento sono, per l’appunto, il mancato o incompleto deposito di libri e scritture contabili agli organi della procedura fallimentare nonché l’impossibilità di ricostruzione della situazione patrimoniale della ditta fallita, trattandosi di elementi senz’altro idonei a rivelare l’intenzione dell’imprenditore o legale rappresentante della società di pregiudicare il futuro soddisfacimento delle ragioni creditorie attraverso la sottrazione delle informazioni desumibili con carattere di certezza da quelle scritture.
Reati fallimentari – Società – Bancarotta impropria da falso in bilancio – Riforma dell’art. 2621 c.c. – Bancarotta patrimoniale per distrazione – Concorso – Aggravamento del dissesto patrimoniale – Accertamento delle responsabilità – Prova – Sussistenza – Travisamento della prova – vizio di motivazione – Controllo di legittimità – Limiti
La distinzione tra dolo generico e dolo specifico non attiene all’intensita’, ma alla struttura del dolo; e l’intenzione di rendere impossibile o estremamente difficile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari dell’impresa fallita “cela, di per se’, sul piano pratico lo scopo di danneggiare i creditori o di procurarsi un vantaggio”
TIPI BANCAROTTA
Invero, i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e quello di bancarotta impropria di cui all’art. 223, co. 2, n. 2, L.f. hanno ambiti diversi. Il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto. Il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività – né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite scritture contabili – ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 L.f., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali, concretandosi in abuso od infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta od in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società, siano stati causa del fallimento (Cass. pen. Sez. I, 19-04-2018, n. 19789).
I fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Questo in quanto, ai fini della commissione del reato, la condotta si perfeziona con la distrazione mentre la sua punibilità è subordinata alla dichiarazione di fallimento la quale, essendo rappresentata da una pronuncia giudiziaria, si pone come evento successivo ed esterno alla condotta stessa.
I reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, L.F.) e quello di bancarotta impropria di cui all’ art. 223 comma secondo, n. 2, L.F. hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività – né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili – ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 L.F., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento.
In tema di reati fallimentari, la vendita di merce sottocosto, realizzando scopi funzionali all’attività della società, attraverso operazioni economiche, comunque, coerenti con l’attività aziendale, integra il reato di bancarotta per distrazione ove ricorra l’ulteriore elemento della sistematica e preordinata vendita sottocosto o, comunque, in perdita di beni aziendali.
Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – In genere – Scissione della società in stato di dissesto – Sottrazione delle attività patrimoniali della originaria società, incidendo sul definitivo dissesto di quest’ultima – Integrazione del reato di bancarotta per distrazione – Ragioni.
Integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione la scissione di una società, successivamente dichiarata fallita, mediante conferimento dei beni costituenti l’attivo alla società beneficiaria, qualora detta operazione sulla base di una valutazione in concreto, avuto riguardo alla situazione di dissesto dell’originaria società al momento della scissione, si riveli avulsa dalle finalità dell’impresa fallita, volutamente depauperativa del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori nella prospettiva della procedura concorsuale, non essendo in tal caso le tutele previste dagli artt. 2506 e seg. cod. civ. di per sé idonee ad escludere il danno o il pericolo per le ragioni creditorie.
Bancarotta – Concordato preventivo – Soggetto attivo del reato – Liquidatore dei beni del concordato preventivo – Non sussiste
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUPO Ernesto – Presidente
Dott. DE MAIO Guido – Consigliere
Dott. AGRO’ Antonio – Consigliere
Dott. ROTELLA Mario – Consigliere
Dott. CORTESE Arturo – rel. Consigliere
Dott. GALBIATI Ruggero – Consigliere
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere
Dott. CASSANO Margherita – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Co. Lo. , nato a (OMESSO);
avverso la sentenza emessa il 10/06/2009 dalla Corte di appello di Firenze;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Arturo Cortese;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Generale Aggiunto Giovanni Palombarini, che ha concluso per il ripristino dell’originaria qualificazione giuridica per quel che concerne i reati di cui ai capi G e H e l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ordine a detti reati e a quello di cui al capo N per essere gli stessi estinti per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili;
udito il difensore dell’imputato, avv. SGUBBI FILIPPO, che ha concluso riportandosi integralmente al ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Co.Lo. venne chiamato a rispondere dinanzi al Tribunale di Firenze:
– di cinque reati – capi A, B, E, F, G della rubrica – di interesse privato in procedure di concordato preventivo con cessione di beni (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 228, e articolo 236, comma 2, n. 3: d’ora innanzi L.F.) commessi tra il (OMESSO) nella sua veste di commissario giudiziale e liquidatore del concordato, consistiti, da un lato, nella liquidazione di alcuni crediti al valore nominale dopo il loro acquisto dagli originari creditori, attraverso l’interposizione di societa’ di comodo, a un valore inferiore, con conseguente lucro diretto o indiretto della differenza e danno per i creditori cedenti e le imprese concordatarie, frustrate nell’aspettativa del residuo della liquidazione (capi A, B, E, F), e, dall’altro, nella sottrazione di cespiti (un ramo d’azienda e risorse di diversa natura) dall’attivo di una delle procedure attraverso la stipulazione di accordi fraudolenti con una societa’ terza a lui riconducibile, previo inganno del consulente nominato dal giudice delegato ai fini della stima dell’impresa concordataria (capo G);
– di un reato di truffa (capo C) connesso al capo A e dei reati di appropriazione indebita (capo H) e falsa perizia (capo I) connessi al capo G;
– di un reato di interesse privato commesso nella qualita’ di curatore di una procedura fallimentare (capo L) e di un connesso reato di truffa (capo M);
– di un reato di tentata sottrazione (articoli 56 e 334 c.p.), mediante cessione, di quote sociali (della S.r.l. Re. ) sottoposte a sequestro preventivo (capo N);
– di altri due reati di truffa e sottrazione di beni (capi A e B della contestazione suppletiva).
2. Con sentenza del 6 dicembre 2006 il Tribunale di Firenze condannava il Co. alla pena complessiva di anni sei di reclusione ed euro 3.900 di multa, cosi’ ripartita: – anni quattro di reclusione ed euro 3000,00 di multa per i reati, riuniti ex articolo 81 c.p., comma 2, di cui ai capi F (relativamente solo ad alcuni episodi, tra cui quello inerente al credito vantato dalla Ca. di. Ri. di. Fi. ), G, H (limitatamente ai fatti commessi dopo il (OMESSO)), I; – anni due di reclusione ed euro 900,00 di multa per i reati, riuniti ex articolo 81 c.p., comma 2, di cui al capo N e ai capi A e B della contestazione suppletiva. Condannava inoltre il Co. al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Ce. Co. Le. (in relazione al capo G) e Ca. di. Ri. di. Fi. (in relazione al capo F), attribuendo loro, rispettivamente, provvisionali per euro 50.000,00 ed euro 20.000,00. Assolveva l’imputato dall’imputazione di truffa aggravata di cui al capo M per insussistenza del fatto e dichiarava non doversi procedere in ordine alle rimanenti contestazioni (capi A, B, C, E, F residuo, H residuo, L) per essere i reati estinti per prescrizione.
3. Avverso la sentenza proponeva appello il Co. e la Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 10 giugno 2009: – assolveva l’imputato dai reati di cui al capo I e ai capi A e B della contestazione suppletiva per insussistenza del fatto e dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo F perche’ estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili in favore della Ca. di. Ri. di. Fi. ; – riqualificava i fatti descritti nei capi G e H come unico reato di bancarotta fraudolenta impropria distrattiva aggravata commessa dal liquidatore concordatario, ai sensi della L.F., articolo 216, comma 1, n. 1, articolo 219, comma 2, n. 1, articoli 223 e 236, rideterminando la relativa pena in anni tre e mesi quattro di reclusione; – confermava la responsabilita’ del prevenuto per il reato di cui al capo N, rideterminando la relativa pena in mesi tre di reclusione ed euro 250 di multa; – eliminava le statuizioni civili in favore del Ce. Co. Le. S.r.l.; – eliminando le precedenti pene accessorie, dichiarava l’imputato interdetto dai pubblici uffici per anni cinque e inabilitato per anni dieci all’esercizio di un’impresa commerciale e incapace per la stessa durata a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
La riqualificazione dei fatti di cui ai capi G e H veniva operata dalla Corte fiorentina sulla scorta della decisione di Sez. 5, n. 22956, dell’11/04/2003, dep. 26/05/2003, Ancona, secondo la quale puo’ essere soggetto attivo dei delitti previsti nella L.F., articolo 236, anche il liquidatore del concordato preventivo con cessione dei beni, da ritenersi compreso nella locuzione “liquidatori di societa’”, contenuta in tale disposizione.
4. Avverso la sentenza ha proposto ricorso la difesa del Co. , articolando sette motivi di impugnazione.
Il primo, quarto e quinto motivo riguardano l’operata riqualificazione dei fatti di cui ai capi G e H.
Con il primo motivo si deduce la errata applicazione della legge penale con riferimento all’interpretazione – ritenuta analogica in malam partem – della L.F., articolo 236, comma 2, n. 1, con cui la Corte territoriale ha fatto rientrare nella nozione di liquidatore di societa’ anche la figura del liquidatore del concordato preventivo con cessione di beni, a dispetto delle differenze strutturali esistenti fra i due organi.
Il liquidatore nominato dai soci, alla luce di quanto disposto dagli articoli 2275 e 2276 c.c., e L.F., articolo 146, svolge infatti una funzione equivalente a quella dell’amministratore nell’ultima fase dell’esistenza della societa’, tanto da essere assoggettato, ai sensi dell’articolo 146 legge fall., ai medesimi obblighi stabiliti per il fallito dall’articolo 49 della stessa legge; laddove il liquidatore concordatario, per come delineato dalla L.F., articolo 182, non e’ organo sociale, essendo nominato non gia’ dai soci, bensi’ dal giudice con il decreto di omologazione del concordato, e soggiace alle regole stabilite per il curatore fallimentare quanto ai requisiti di nomina, all’accettazione e alla revoca dell’incarico, al compenso e all’obbligo di rendiconto. Piu’ in generale, mentre ai liquidatori sociali e’ attribuita la responsabilita’ della conservazione della garanzia dei creditori, quello concordatario sarebbe piu’ semplicemente preposto alla vendita dei beni del debitore secondo le modalita’ fissate nel provvedimento giudiziario, dal quale ripete i suoi poteri, venendo investito in tal modo di una funzione ausiliaria che costituirebbe un vero e proprio munus publicum, atto ad assimilarlo alla figura del curatore (non annoverato, come noto, tra gli autori tipici, tutti caratterizzati dall’intraneita’ alla persona giuridica, dei reati previsti dagli articoli 223 e 224 richiamati dalla L.F., articolo 236, comma 2, n. 1).
Con il quarto motivo si denuncia la violazione della legge processuale, alla stregua dei canoni del diritto ad un processo equo sanciti dall’articolo 6 della Cedu. Fra questi, invero, secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo, si annovera anche quello alla tempestiva informazione dell’imputato sulla qualificazione giuridica del fatto addebitato, che la Corte territoriale avrebbe violato, attribuendo officiosamente ai fatti una diversa e piu’ grave qualificazione giuridica in sede di deliberazione della sentenza, senza previa instaurazione del contraddittorio sul punto.
Con il quinto motivo si lamenta la violazione del divieto di reformatio in peius, in relazione sia al calcolo della pena base e dell’aumento per l’aggravante del reato sub G, riqualificato come sopra precisato previo assorbimento in esso del reato di appropriazione indebita di cui al capo H, sia all’utilizzo della sanzione per il piu’ grave reato di bancarotta, quale base per il piu’ sfavorevole computo dei termini di prescrizione.
Con il secondo e terzo motivo di ricorso si deduce, in ordine alla confermata responsabilita’ per il reato di cui al capo N, che la contestata cessione delle quote sociali non poteva per se’ compromettere il vincolo cautelare oggetto di tutela della norma incriminatrice, e cio’ a fortiori’ nel caso di specie, in cui la cessione stessa era inopponibile all’autorita’ sequestrante in forza dei pregressi adempimenti della iscrizione del vincolo cautelare nel registro delle imprese e della sua annotazione nel libro soci, non potendosi, come inaccettabilmente fatto dalla Corte di merito, da un lato, considerare superata la riconosciuta prova documentale relativa alla detta annotazione sulla base di una mera risultanza orale e, dall’altro, ritenere irrilevante la menzionata inopponibilita’ del vincolo agli effetti della configurabilita’ del tentativo punibile.
Con il sesto motivo di ricorso si denunzia vizio di motivazione e violazione di legge in ordine al diniego delle attenuanti generiche. In proposito il ricorrente lamenta come la Corte territoriale, nel fondare il suo convincimento anche in riferimento al numero “considerevole” di illeciti contestati al Co. , non abbia tenuto in considerazione l’intervenuta assoluzione del medesimo per molti di essi, la declaratoria di prescrizione pronunciata per altri e la risalenza dei fatti per i quali e’ comunque intervenuta condanna, rilevando altresi’ come la consumazione di piu’ illeciti fosse circostanza che gia’ i giudici d’appello avevano valutato ai fini della configurazione dell’aggravante di cui alla L.F., articolo 219, comma 2, n. 1, e che dunque non potevano prendere nuovamente in considerazione per ricavarne ulteriori determinazioni sfavorevoli all’imputato.
Il ricorrente evidenzia inoltre come la sentenza impugnata inaccettabilmente valorizzi, ai fini della negazione delle menzionate attenuanti, la mancata resipiscenza dell’imputato e la violazione della fiducia accordatagli con il conferimento degli incarichi, a fini di arricchimento personale, ricordando, quanto al primo elemento, come in sostanza la Corte abbia valutato sfavorevolmente la mancata confessione degli addebiti e, quanto al secondo, che esso e’ connaturato alla struttura del reato proprio contestato sub G.
Con il settimo ed ultimo motivo il ricorrente denunzia l’assoluta mancanza della motivazione della sentenza d’appello in ordine alle doglianze avanzate con l’atto d’appello circa le statuizioni civili relative alla parte civile Ca. di. Ri. di. Fi. . In proposito il ricorso ricorda come all’udienza del 29 giugno 2009 la Corte, su istanza della difesa, dispose l’acquisizione di una sentenza del Tribunale civile di Firenze dalla quale si evinceva come la suddetta parte civile aveva incardinato identica domanda risarcitoria in sede civile. Conseguentemente la stessa difesa aveva richiesto la revoca delle statuizioni civili adottate con la sentenza di primo grado e in particolare della condanna al pagamento di una provvisionale. Profili che il ricorrente lamenta siano stati completamente ignorati nel provvedimento impugnato, con conseguente configurabilita’ del vizio lamentato.
Con ulteriore memoria la difesa dell’imputato ha ripreso e sviluppato il motivo circa la non assimilabilita’ del liquidatore del concordato preventivo al liquidatore della societa’, insistendo in particolare sull’essenziale elemento del rapporto organico con l’organismo sociale, caratterizzante la seconda figura ma non la prima.
5. La Sez. 5 di questa Corte, assegnataria del ricorso, con ordinanza del 6/11 maggio 2010, n. 17979, lo ha rimesso alle Sezioni Unite ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., in quanto ha apertamente dissentito dal citato precedente della sentenza Ancona, posto a base della riqualificazione dei fatti di cui ai capi G e H operata dalla Corte territoriale, sottolineando al riguardo le profonde differenze esistenti, a suo avviso, fra il liquidatore di societa’ e il liquidatore concordatario.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione rimessa al Collegio delle Sezioni Unite, costituente l’oggetto del primo motivo di ricorso, concerne la “sussumibilita’ o meno nelle fattispecie di bancarotta delle condotte distrattive o fraudolente poste in essere dal liquidatore di un concordato preventivo con cessione di beni”.
2. Nell’unica occasione in cui se ne e’ occupata in passato la giurisprudenza di legittimita’ ha concluso per la tesi favorevole a identificare il liquidatore nominato L.F., ex articolo 182, con uno dei soggetti attivi del reato di bancarotta fraudolenta nel concordato preventivo. Trattasi della gia’ citata Sez. 5, n. 22956, dell’11/04/2003, dep. 26/05/2003, Ancona, secondo la quale la locuzione “liquidatori di societa’” di cui alla L.F., articolo 236, comma 2, n. 1, non identificherebbe soltanto la figura soggettiva del liquidatore nominato dai soci ex articolo 2275 c.c., ma altresi’ quella del liquidatore investito del compito di procedere alla realizzazione del patrimonio ceduto dal debitore nell’ambito della procedura di concordato preventivo.
E cio’ per due ordini di motivi:
a) il tenore letterale della norma (apparentemente riferito al solo liquidatore “privato”) non assumerebbe carattere decisivo nella soluzione della questione, atteso che ripetutamente la formulazione della L.F., articolo 236, e’ stata fatta segno di critiche da parte della dottrina proprio per la sua incongruenza e farraginosita’, risultando sostanzialmente in contrasto con la ratio che la sottende, individuata dalla Corte nell’esigenza di tutelare l’integrita’ del patrimonio dell’impresa a garanzia dei creditori “in vista della mera eventualita’ del loro non pieno soddisfacimento”; in tal senso, dunque, il dato normativo non consentirebbe interpretazioni restrittive che tradirebbero in definitiva l’intenzione legislativa di predisporre un’ampia tutela del patrimonio sociale anche nelle procedure concorsuali minori ed a prescindere dal fatto che la stessa esiti nella dichiarazione di fallimento (alla quale, agli effetti penali, la sentenza Ancona ricorda deve essere assimilato il decreto di ammissione al concordato preventivo, richiamando quanto osservato in proposito da Corte Cost., ord. n. 268 del 1989, seppure in riferimento a un profilo diverso della fattispecie incriminatrice evocata);
b) la sostanziale assimilabilita’ delle figure del liquidatore di societa’ e del liquidatore nominato L.F., ex articolo 182 – al di la’ delle differenze che ne caratterizzano la funzione, ma che la sentenza Ancona giudica marginali e determinate dalle peculiarita’ dei rispettivi ruoli -, atteso che entrambi assumono la disponibilita’ dei beni societari in vista della definizione dei rapporti giuridici della persona giuridica; e in proposito la Corte precisa che il liquidatore concordatario opera, nei limiti delle modalita’ stabilite con la sentenza di omologazione del concordato, senza necessita’ di ulteriori autorizzazioni, diventando a tutti gli effetti titolare del potere di disposizione dei beni “ceduti” a nome del debitore e per conto dei creditori, con facolta’ dunque di compiere in autonomia tutti gli atti strumentali e necessari alla liquidazione dei medesimi ed alla ripartizione del ricavato, esattamente come il liquidatore nominato dai soci ai sensi del codice civile.
La Corte evoca infine un ulteriore possibile argomento a sostegno delle conclusioni rassegnate, evidenziando come un’interpretazione piu’ “restrittiva” del dato normativo determinerebbe un inaccettabile vuoto di tutela, atteso che l’eventuale condotta fraudolenta del liquidatore (che nel caso di specie era costituita dalla dissipazione dei beni immobili della societa’, venduti a prezzo vile con danno dei creditori) “non potrebbe essere sussunta nell’ambito dell’appropriazione indebita”.
Tale pronuncia e’ stata nettamente contestata dalla stessa Sez. 5 con la succitata ordinanza di rimessione 6/05/2010, n. 17979, in cui si sono sottolineate le profonde differenze esistenti fra il liquidatore di societa’ e il liquidatore concordatario, in particolare sotto i profili: a) delle modalita’ di nomina, privata nel primo caso, giudiziale nel secondo; b) dell’esercizio dei poteri, comprendente, per il primo, tutti gli obblighi e le responsabilita’ previsti per gli amministratori, con il solo limite (dettato dall’articolo 2279 c.c.) dell’intrapresa di nuove operazioni, delle quali altrimenti e’ chiamato a rispondere “personalmente e solidalmente”; e svolto, dal secondo, sotto la vigilanza del commissario giudiziale, con un mandato limitato alla liquidazione dei beni ceduti al debitore.
Secondo il collegio rimettente, poi, l’interpretazione accolta dalla sentenza Ancona presupporrebbe la responsabilita’ per il reato di bancarotta anche nel caso in cui il liquidatore abbia operato in un concordato preventivo con cessio bonorum promosso da un imprenditore individuale e non da una societa’, atteso che la natura collettiva o individuale dell’imprenditore insolvente non condiziona il profilo della procedura e dunque il profilo del ruolo ricoperto dal liquidatore medesimo. Ma tale conclusione – che l’ordinanza di rimessione ritiene per l’appunto logicamente imposta dalle premesse assunte nella precedente decisione della Sezione quinta – ancor di piu’ risulterebbe in contrasto con il tenore letterale della L.F., articolo 236, che espressamente si riferisce ai “liquidatori di societa’” e al fine di attribuire loro la responsabilita’ solo per i reati di bancarotta impropria e cioe’ per le fattispecie che gli articoli 223 e 224 della stessa legge riservano ai titolari di cariche sociali.
Quanto al possibile vuoto di tutela, che deriverebbe dalla negazione dell’assimilabilita’ del liquidatore concordatario al liquidatore di societa’, i giudici rimettenti osservano che le condotte fraudolente di cui puo’ rendersi protagonista il liquidatore concordatario agevolmente potrebbero essere ricondotte nello schema del delitto di appropriazione indebita (come per l’appunto aveva ritenuto nel procedimento in oggetto il giudice di primo grado) ovvero, qualora si attribuisse allo stesso liquidatore la qualifica di pubblico ufficiale, in quello delle fattispecie incriminatici riservate a quest’ultimo e che risultassero in concreto integrate dal suo comportamento.
La dottrina non ha particolarmente approfondito la questione oggetto di rimessione ma appare prevalentemente orientata nel senso dell’esclusione dell’applicabilita’ al liquidatore concordatario della L.F., articoli 223 e 224, richiamati nel citato articolo 236, comma 2, n. 1.
3. La risoluzione della questione richiede una, pur rapida, ricognizione normativa dell’istituto del concordato preventivo, con riferimento in particolare alla disciplina vigente all’epoca della consumazione dei reati contestati al Co. .
Trattasi di procedimento articolato in diverse fasi, identificabili in: ammissione, deliberazione (votazione), omologazione ed esecuzione. Per la L.F., articolo 160, l’ammissione alla procedura dipendeva dall’iniziativa dell’imprenditore che si trovava in stato d’insolvenza ed era subordinata al possesso da parte del medesimo di alcuni requisiti soggettivi di meritevolezza e affidabilita’ e ad alcune condizioni oggettive di soddisfacimento delle pretese dei creditori (garanzia del pagamento – anche attraverso la cessio bonorum – di una percentuale minima predeterminata dei chirografari). La prima fase si concludeva (L.F., articolo 163) con un decreto del Tribunale che, ritenuta l’ammissibilita’ della proposta, segnava il momento genetico della procedura concorsuale e provvedeva, tra l’altro, alla nomina del giudice delegato e del commissario giudiziale, organo cui la L.F., articolo 164, espressamente attribuiva la qualifica di pubblico ufficiale “per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni”. Ai sensi della L.F., articolo 167, in seguito all’ammissione alla procedura, il debitore conservava l’ordinaria amministrazione dei suoi beni, mentre per gli atti eccedenti necessitava dell’autorizzazione del giudice delegato. Per contro, la L.F., successivo articolo 168, paralizzava, fino al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato, le azioni esecutive dei creditori “anteriori” (per causa o titolo) alla data del decreto.
Nella seconda fase, previa convocazione e delibazione da parte del giudice delegato dei crediti contestati, si svolgeva l’adunanza dei creditori, chiamati a discutere e approvare la proposta concordataria. L’adesione a quest’ultima (L.F., articoli 177 e 178) veniva siglata dal voto favorevole della maggioranza dei creditori partecipanti, comunque rappresentativa dei due terzi della totalita’ dei crediti ammessi al voto.
A questo punto si apriva la terza fase del procedimento, dedicata all’omologazione del concordato da parte del Tribunale (L.F., articoli 179 – 181). In sede di omologazione il collegio giudicante decideva sulle eventuali opposizioni presentate dai creditori dissenzienti e, previo accertamento delle condizioni di ammissibilita’ del concordato e della regolarita’ della procedura, procedeva a una valutazione sul merito della proposta, verificandone, tra l’altro, la convenienza economica e la meritevolezza del proponente. Mancando le condizioni per l’omologazione il Tribunale dichiarava il fallimento del debitore; mentre, in caso contrario, fissava le modalita’ per l’esecuzione dell’accordo intervenuto con i creditori.
Per l’ipotesi di concordato con cessione dei beni la L.F., articolo 182, prevedeva che con la sentenza di omologazione il Tribunale nominasse uno o piu’ liquidatori e un comitato di creditori per assistere alla liquidazione, di cui fissava le modalita’. La norma da ultima citata non imponeva peraltro la nomina del liquidatore in ogni caso, ma solo nell’ipotesi che non fosse disposto altrimenti (come ad esempio nel caso in cui il progetto di concordato accettato dai creditori e ritenuto meritevole di omologazione attribuisse direttamente al debitore il compito di liquidare il proprio patrimonio).
La fase esecutiva era disciplinata dalla L.F., articolo 185, il quale affidava al commissario giudiziale la sorveglianza sull’adempimento del concordato secondo le modalita’ stabilite nella sentenza di omologazione. Infine il successivo articolo 186 mutuava dalla disciplina del concordato fallimentare le ipotesi di risoluzione e annullamento della procedura anticipatoria, stabilendo che in tal caso il Tribunale procedesse alla dichiarazione di fallimento dell’imprenditore. Ancora va ricordato come la L.F., articolo 173, contemplasse un meccanismo di conversione del concordato in fallimento per il caso che il commissario giudiziale accertasse nel corso del suo svolgimento comportamenti fraudolenti del debitore.
4. Alla stregua della descritta disciplina, la ratio dell’istituto e’ stata tradizionalmente ravvisata nell’esigenza di evitare il fallimento dell’imprenditore attraverso la riduzione del passivo concordata con i creditori nell’ottica della conservazione, anziche’ della distruzione, dell’impresa. Nel tempo tale concezione e’ mutata, essendo emersi, dalla prassi applicativa, il perseguimento di un fascio piu’ composito di interessi (non escluso quello pubblico ad evitare le ripercussioni del dissesto) e la non centralita’ della finalita’ conservativa. Il difficile e ambiguo equilibrio tra l’esigenza di risanamento dell’impresa e le finalita’ liquidazione ed esdebitative, si e’ inevitabilmente riflettuto sul dibattito relativo alla natura della procedura anticipatoria, che ha visto costantemente confrontarsi due teorie: l’una ispirata allo schema privatistico-negoziale e l’altra a quello pubblicistico-processuale.
Per la prima il concordato sarebbe un accordo di natura negoziale – ovvero specificamente transattiva – tra il debitore e i creditori, intesi come unita’ collettiva (assorbente anche la minoranza dissenziente), rispetto al quale l’omologazione giudiziaria rappresenterebbe una mera condizione di efficacia.
Per i fautori della tesi processualistica, invece, il concordato preventivo sarebbe un processo giurisdizionale, nel senso che la sentenza di omologazione – della quale l’accordo tra debitore e creditori sarebbe sostanzialmente un mero presupposto – produrrebbe come effetto l’espropriazione del diritto degli stessi creditori a vantaggio della collettivita’ attraverso l’intervento di organi statuali sul diritto di disposizione del debitore.
Per superare i limiti inerenti alle due riferite teorie (derivanti, reciprocamente, dalla presenza di elementi piu’ consoni all’altra), sono state elaborate ricostruzioni non unitarie dell’istituto, ispirate alla segmentazione della procedura concorsuale in diverse fasi, ovvero alla individuazione della coesistenza in essa di un momento “negoziale” ed uno “giudiziale”, esplicanti ruoli diversi e autonomi, ancorche’ inscindibili e interdipendenti.
La giurisprudenza di legittimita’, che inizialmente aveva dimostrato di aderire alla concezione contrattualistica, a partire dagli anni sessanta si e’ orientata verso una costruzione della natura del modello concorsuale in termini essenzialmente pubblicistici, ponendo in particolare l’accento sul penetrante controllo di merito esercitato dal tribunale sull’accordo, la cui obbligatorieta’ per coloro che vi rimangono estranei non potrebbe che costituire un effetto della sentenza di omologazione.
5. La compresenza nell’istituto di componenti privatistiche e pubblicistiche non puo’ dirsi superata neppure a seguito delle sensibili modifiche della sua disciplina intervenute in anni recenti (in forza, in particolare, del Decreto Legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito in Legge 14 maggio 2005, n. 80, e del Decreto Legislativo 12 settembre 2007, n. 169).
Le principali novita’ progressivamente introdotte sono innanzi tutto costituite dalla modificazione del presupposto di accesso alla procedura, ora individuato nello stato di crisi dell’impresa, la cui nozione non e’ stata peraltro definita dal legislatore se non per la precisazione contenuta nell’inedito comma 2, del nuovo testo della L.F., articolo 160, introdotto dal Decreto Legge n. 273 del 2005 (convertito in Legge n. 51 del 2006), secondo il cui ultimo comma “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.
Lo stato d’insolvenza e’ rimasto dunque presupposto della procedura concorsuale, ancorche’ le ambigue formule normative lascino intendere che alla stessa puo’ accedere anche l’imprenditore che versa in una situazione di difficolta’ non ancora identificabile con quella di dissesto.
In secondo luogo la riforma ha provveduto all’eliminazione, nell’articolo 160, dei requisiti di meritevolezza per l’ammissione alla procedura, nonche’ all’esclusione di qualsiasi sindacato giudiziale sul merito della proposta di concordato preventivo, la cui omologazione, ai sensi del nuovo articolo 180, avviene ora per decreto sulla base della mera verifica del raggiungimento delle maggioranze prescritte nell’adunanza dei creditori e della regolarita’ formale della procedura seguita.
Al debitore viene concessa una piu’ ampia autonomia nella scelta dei contenuti del piano concordatario e la possibilita’ di suddividere i creditori in classi omogenee (all’interno delle quali devono essere raggiunte autonome maggioranze in sede di deliberazione del concordato) cui proporre anche trattamenti differenziati e viene invece richiesto dal nuovo testo dell’articolo 161 di asseverare la proposta attraverso la relazione di un professionista che attesti la veridicita’ dei dati aziendali e la fattibilita’ del piano concordatario.
La continuita’ tra concordato e fallimento, in qualche modo spezzata dal mutamento del presupposto per l’instaurazione della concorsualita’, e’ stata poi ulteriormente ridimensionata. Infatti, il Decreto Legge n. 35 del 2005, e la Legge n. 80 del 2005, hanno eliminato dalla L.F., articolo 180, qualsiasi riferimento all’automatismo della conversione del concordato preventivo in fallimento (facendo pero’ salve le ipotesi in qualche modo “sanzionatorio” tuttora previste dalla L.F., articolo 173), affidando la stessa conversione all’iniziativa dei creditori o del pubblico ministero, nonche’ alla previa verifica dello stato d’insolvenza.
Alla luce del contenuto delle modifiche illustrate non v’e’ dubbio che la riforma si sia mossa nella direzione dell’esaltazione del profilo negoziale dell’accordo intervenuto tra l’imprenditore e i suoi creditori e del contestuale ridimensionamento degli aspetti processuali dell’istituto. La natura del concordato “riformato” appare connotata ormai da una prevalenza di elementi privatistici che denunciano la volonta’ di contrarre l’intervento statuale nella procedura anticipatoria, rafforzando invece il ruolo di protagonisti di debitore e creditori.
Rimane tuttavia arduo ricostruire in termini unitari l’istituto anche dopo la “svolta” impressa dalla riforma, considerando in particolare come il principio dell’autonomia privata tuttora non sia in grado di spiegare la paralisi delle azioni esecutive e la prevalenza della volonta’ della maggioranza dei creditori ovvero i residui poteri decisori attribuiti al Tribunale in sede di omologazione in presenza di opposizioni dei creditori dissenzienti o del mancato raggiungimento della maggioranza richiesta all’interno delle singole classi.
Va poi ricordato come la riforma non abbia modificato la L.F. articolo 165, che continua dunque ad attribuire l’espressa qualifica di pubblico ufficiale al solo commissario giudiziale.
Il legislatore e’ invece intervenuto sul successivo articolo 182, dedicato al concordato con cessione dei beni. Conservata la disciplina sulla nomina del liquidatore e del comitato dei creditori, l’intervento riformatore ha aggiunto all’articolo menzionato un comma 2, che impone l’applicazione al liquidatore degli articoli 28, 29, 37, 38, 39 e 116 in quanto compatibili. Si tratta delle norme che, rispettivamente, disciplinano i requisiti di professionalita’ e le incompatibilita’ per la nomina a curatore (articolo 28), le modalita’ e i tempi di accettazione dell’ufficio di curatore (articolo 29), la revoca, la responsabilita’ ed il compenso del curatore (articoli 37, 38 e 39) e l’obbligo di rendiconto al giudice delegato imposto allo stesso al compimento del mandato (articolo 116). Un ulteriore comma aggiunto dal Decreto Legislativo n. 169 del 2007, prevede inoltre che le vendite di aziende e rami di aziende, beni immobili e altri beni iscritti in pubblici registri, nonche’ le cessioni di attivita’ e passivita’ dell’azienda e di beni o rapporti giuridici individuali in blocco debbano essere autorizzate dal comitato dei creditori. Infine l’articolo 182, nuovo u.c., estende alla liquidazione dei beni ceduti la disciplina delle vendite fallimentari contenuta nella L.F. articoli 105 – 108 – ter, e dunque anche quella di cui all’articolo 108, il quale attribuisce al giudice delegato il potere di sospendere la vendita su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati.
E’ utile rimarcare che con queste ultime disposizioni il legislatore della riforma non ha fatto altro in sostanza che recepire quegli indirizzi della giurisprudenza civile che gia’ riconoscevano (rilevando l’assimilabilita’ delle sue funzioni a quelle del curatore fallimentare) il potere dell’autorita’ giudiziaria di procedere alla revoca del liquidatore, di imporgli la redazione di relazioni e rendiconti periodici sulla liquidazione, di impartigli nella fase di esecuzione del concordato istruzioni sulle modalita’ della liquidazione, fino a quello di promuovere l’applicazione analogica proprio delle disposizioni dettate per il fallimento in tema di vendite e ripartizione dell’attivo (v. Cass. Civ. Sez. 1, n. 9178 del 09/04/2008, Rv. 602709; Sez. 1, n. 16989 del 26/08/2004, Rv. 576245; Sez. 1, n. 10693 dell’11/08/2000, Rv. 539503; Sez. 1, n. 12185 del 01/12/1998, Rv. 521290; Sez. 1, n. 6478 del 18/07/1996, Rv. 498615; Sez. 1, n. 6560 del 13/07/1994, Rv. 487370; Sez. 1, n. 7212 del 12/07/1990, Rv. 468209; Sez. 1, n. 4721 del 27/05/1987, Rv. 453364; Sez. 1, n. 3352 del 05/06/1985, Rv. 441019; Sez. 1, n. 6187 del 21/11/1981, Rv. 416966).
Se dunque nella fase iniziale del processo riformatore la marcata degiurisdizionalizzazione del modello concorsuale suscitava dubbi sulla possibilita’ di ritenere il liquidatore titolare di un munus pubblico, le modifiche apportate dal decreto “correttivo” n. 169 del 2007 – come detto riecheggianti le pregresse posizioni giurisprudenziali – si possono leggere come un passo nel senso inverso, seppure contraddittoriamente bilanciato dalla scelta di demandare l’autorizzazione della vendita di alcuni tipi di beni al comitato dei creditori. In ogni caso il rinvio alla disciplina fallimentare sembra orientato nel senso di una riduzione degli spazi di autonomia e di discrezionalita’ degli organi della procedura ed in particolare proprio del liquidatore.
In proposito va comunque sottolineato che mentre l’originario testo dell’articolo 30 e, come detto, dell’articolo 165 e’ stato conservato – e dunque tuttora al curatore fallimentare e al commissario giudiziale continua ad essere attribuita la qualifica di pubblico ufficiale -, la riforma nulla ha precisato circa la posizione del liquidatore, cui, come per il passato, continua a non essere attribuita espressamente alcuna qualifica.
Da ultimo va ricordato che la L.F., articolo 236, il cui comma 2, n. 1, estende, in caso di concordato preventivo agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di societa’ le incriminazioni di cui ai precedenti articoli 223 e 224 (relativi ai reati propri dei medesimi soggetti), non ha subito, per quanto qui interessa, modifica alcuna.
6. Dall’excursus ricognitivo che precede si puo’ comprendere come, indipendentemente dalla questione relativa alla sua esatta qualificazione giuridica, la figura del liquidatore concordatario presenta sicuramente – e cio’ ancor piu’ in riferimento alla disciplina vigente all’epoca dei fatti ascritti al Co. – connotazioni assai peculiari rispetto all’ordinario liquidatore delle societa’. Quest’ultimo, infatti, nominato dall’assemblea, resta un vero e proprio organo sociale cui sono assegnati compiti e funzioni coerenti rispetto al rapporto societario: convoca l’assemblea, redige i bilanci in corso di liquidazione e il bilancio finale ed e’ responsabile del suo operato secondo le norme in tema di responsabilita’ degli amministratori (articolo 2489 c.c., comma 2)- Il liquidatore di cui alla L.F., articolo 182, invece, per il compito che espleta e il rapporto che lo lega agli organi della procedura (in particolare, al commissario giudiziale, tenuto a vigilare sull’esecuzione del concordato, con riguardo anche al rispetto delle modalita’ di liquidazione determinate dal Tribunale in sede di omologazione), si viene a trovare in una posizione di terzieta’ rispetto al debitore, che esclude il determinarsi di un suo rapporto organico con la societa’ e circoscrive la sua sostituzione agli organi di quest’ultima nei limiti funzionali all’esecuzione del mandato (realizzazione del valore dei beni ceduti – costituenti ormai una sorta di patrimonio separato – con riparto del ricavato).
Risulta allora evidente che manca nel liquidatore concordatario proprio il tratto tipico (rappresentato appunto dal rapporto organico con la societa’) che accomuna i soggetti richiamati nella L.F., articolo 236, comma 2, n. 1 (che sono poi gli stessi che la L.F., articolo 146, indica come destinatari degli stessi obblighi del fallito in caso di fallimento di societa’), e che costituisce in sostanza la ratio stessa dell’applicabilita’ delle richiamate disposizioni della L.F., articoli 223 e 224, in una naturale estensione ad essi, ai fini penali, degli effetti dell’insolvenza dell’imprenditore. Ed e’ questa mancanza che preclude un’analoga estensione nei confronti del liquidatore di cui alla L.F., articolo 182.
A tali rilievi si puo’ aggiungere la generale considerazione che la tutela offerta dalla norma incriminatrice della L.F., articolo 236, comma 2, e’ palesemente frammentaria e legata alla configurazione delle peculiari modalita’ di offesa elette dal legislatore. Emerge cioe’ dal dato normativo l’intenzione del legislatore di non estendere in via generale la tutela offerta dalle fattispecie incriminatrici legate al fallimento ai fatti commessi nell’ambito delle procedure alternative a quest’ultimo, ma di limitarne la applicabilita’ a specifici selezionati ambiti. In questa ottica non e’ ermeneuticamente possibile ricomprendere tra le figure indicate nella L.F., articolo 236, comma 2, n. 1, e, in particolare, all’interno della nozione di “liquidatori di societa’” quella del liquidatore del concordato preventivo, cosi’ come sarebbe, su un altro versante, del tutto fuorviante estendere a quest’ultimo le incriminazioni riservate dal legislatore al commissario giudiziale.
Vero e’ che in tal modo possono determinarsi, come denunciato in dottrina, dei vuoti di tutela (peraltro relativi perche’, a seconda delle situazioni, possono comunque soccorrere – indipendentemente da possibili riflessi di stampo pubblicistico – figure criminose comuni, come in particolare l’appropriazione indebita e la truffa). Ma cio’ evidentemente non puo’ giustificare forzature interpretative incompatibili col principio di tassativita’ delle fattispecie incriminatrici.
In conclusione, puo’ affermarsi il seguente principio di diritto:
“Il liquidatore dei beni del concordato preventivo di cui alla L.F., articolo 182, non puo’ essere soggetto attivo dei reati di bancarotta di cui agli articoli 223 e 224, richiamati nell’articolo 236, comma 2, n. 1, stessa legge, in quanto non puo’ ritenersi ricompreso in alcuno dei soggetti ivi espressamente indicati e, in particolare, tra i liquidatori di societa’”.
La riqualificazione dei fatti di cui ai capi G e H operata dalla Corte territoriale deve essere, quindi, disattesa, con conseguente ripristino della qualificazione originaria. I reati cosi’ ridefiniti, mancando elementi per un’immediata assoluzione ex articolo 129 c.p.p., devono peraltro essere dichiarati estinti per intervenuta prescrizione. Considerato, infatti, che i reati in questione si sono consumati non oltre il (OMESSO), il termine massimo di prescrizione, previsto per gli stessi, in base alla pena edittale, in sette anni e mezzo, alla stregua dell’articolo 157 c.p., comma 1, e articolo 161 c.p., comma 2, nel testo come modificato dalla Legge 5 dicembre 2005, n. 251, applicabile ratione temporis in relazione alla data di emanazione della sentenza di primo grado, a sensi dell’articolo 10, comma 3, della stessa legge, come emendato da Corte cost., sent. n. 393 del 2006,, risulta ormai ampiamente decorso, pur tenendo conto dei periodi di sospensione intervenuti (su cui v. articolatamente infra al par 11).
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio in ordine ai reati di cui ai capi G e H dell’imputazione nella qualificazione originaria cosi’ ripristinata, perche’ estinti per prescrizione, con conseguente eliminazione delle relative pene, principale e accessoria.
L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento del quarto e del quinto motivo.
7. Si deve ora passare all’esame del secondo e terzo motivo di ricorso, relativi al reato di cui al capo N della rubrica.
8. Al riguardo si premette anzitutto che non e’ contestato in fatto che:
– in data (OMESSO) venivano sottoposte a sequestro preventivo le quote della S.r.l. Re. (proprietaria di un immobile di cospicuo valore) appartenenti al Co. e alla moglie C. S. , rappresentanti il 50% del capitale sociale;
– in data (OMESSO) il decreto di sequestro veniva notificato al Co. , che era amministratore unico della Societa’;
– in data (OMESSO) il Co. vendeva le predette quote alla S.r.l. Os. , appositamente costituita grazie all’ausilio di C. F. .
9. I punti critici riguardano invece le circostanze, affermate dal ricorrente sulla base di specifici riferimenti probatori, dei pregressi adempimenti della iscrizione del vincolo reale nel registro delle imprese e della sua annotazione nel libro soci. Su quest’ultima la Corte di appello si pronuncia, ritenendo che la documentazione prodotta a sua comprova e’ da ritenere superata da quanto dichiarato dal notaio innanzi al quale fu perfezionata la vendita.
In via assorbente, peraltro, la Corte di merito rileva che la vendita fu comunque posta in essere per avere il Co. consegnato allo stesso notaio solo copia del libro soci da cui non risultava l’annotazione, e che l’inopponibilita’ della vendita nei confronti del sequestrante non esclude comunque la vendita stessa e la necessita’ di un’eventuale azione per fare valere l’inopponibilita’, con conseguente configurabilita’ di una condotta diretta e idonea a cagionare la sottrazione dei beni.
Tale conclusione e’ resistita dalla difesa con articolate deduzioni in diritto.
Al riguardo si osserva nel ricorso, in via generale, che la vendita di un bene sequestrato, modificandone solo la situazione di diritto, non puo’ integrare il reato di cui all’articolo 334 c.p..
Piu’ specificamente si rileva poi che l’inopponibilita’ – sussistente nella specie (alla stregua delle risultanze documentali) – della vendita al sequestrante fa degradare la condotta contestata nella figura del reato impossibile di cui all’articolo 49 c.p.. Per effetto della detta inopponibilita’, infatti, operante di diritto (senza alcun onere, quindi, di adire il giudice a carico del sequestrante), la vendita stessa doveva considerarsi inidonea, in assoluto e con valutazione ex ante, a realizzare l’evento di cui all’articolo 334 c.p..
10. Cio’ precisato, si osserva quanto segue.
La condotta di “sottrazione” costituisce, come noto, una delle condotte alternative mediante le quali puo’ realizzarsi il delitto di cui all’articolo 334 c.p., e assume anche, rispetto alle altre, un valore di chiusura improntato all’esigenza di sanzionare ogni comportamento contrassegnato dalla direzione e dall’attitudine a ledere l’interesse tutelato, che e’ quello pubblico alla conservazione del vincolo apposto su determinati beni in funzione del corretto conseguimento delle finalita’ cui per effetto di esso sono deputati. Sotto tale profilo si ritiene rilevante ogni attivita’ idonea a rendere non solo impossibile ma anche semplicemente piu’ difficoltoso il detto conseguimento (v. Sez. 6, n, 179 del 02/10/1984, dep. 10/01/1985, Tagliapietra, Rv. 167317; Sez. 6, n. 4312 del 07/02/1985, dep. 07/05/1985, Scioscia; Sez. 6, n. 49895 del 03/12/2009, dep. 30/12/2009 P.M. in proc. Ruocco).
Va da se’ poi che la condotta di sottrazione non puo’ che definirsi in ragione della natura e del regime giuridico dei beni coinvolti, assumendo corrispondentemente estrinsecazioni diverse (v. Sez. 6, n. 31979 del 08/04/2003, dep. 29/07/2003, D’Angelo, Rv. 226220; Sez. 6, n. 42582 del 22/09/2009, dep. 06/11/2009, P.M. in proc. Mazzone, Rv. 244853). E’ evidente ad es. che, in caso di immobili, la sottrazione non puo’ concretarsi nello spostamento materiale della cosa, che e’ il modo tipico di realizzazione della condotta per i beni mobili. La stessa cosa vale per la quota di societa’, non suscettibile di amotio in senso materiale. In tali casi possono venire in rilievo condotte diverse e, tra queste, merita naturalmente qui particolare attenzione quella consistente in negozi dispositivi di diritti.
L’assunto difensivo, secondo cui l’alienazione del bene, incidendo solo sul diritto di proprieta’, non puo’ per se’ concretare il delitto in esame, si scontra con quanto gia’ rilevato in ordine all’interesse, tutelato dalla norma, alla conservazione del vincolo in vista delle finalita’ ad esso sottese, suscettibili di radicale frustrazione in presenza della dominante posizione giuridica vantata dal terzo acquirente di buona fede, come dimostra la previsione di cui all’articolo 240 c.p., comma 3, (cfr. in argomento, Sez. 6, n. 2182 del 24/11/1981, dep. 03/03/1982, Terzi, Rv. 152570 e, con specifico riferimento alle quote sociali, Sez. 6, n. 3345 del 11/07/1994, dep. 09/11/1994, P.M. in proc. Molino).
Piu’ complessa e’ la situazione, rivendicata dalla difesa nel presente giudizio, in cui l’alienazione del bene sia giuridicamente inopponibile al sequestrante, in ragione dei pregressi adempimenti diretti ad assicurare la conoscenza del vincolo. Al riguardo va precisato che nel regime all’epoca vigente (anteriore all’intervento del Decreto Legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito in Legge 28 gennaio 2009, n. 2) l’iscrizione dell’atto nel registro delle imprese serviva a renderlo opponibile ai terzi, mentre l’annotazione nel libro soci esplicava i suoi effetti nei confronti della Societa’.
Su tale ultimo punto la Corte d’appello, come gia’ ricordato, ha dato preminente rilievo, rispetto alle risultanze documentali, alle dichiarazioni del notaio innanzi al quale fu perfezionata la vendita, secondo le quali l’annotazione nel libro soci non risultava effettuata, aggiungendo anche che comunque, sempre a detta del notaio, in tanto si procedette alla vendita in quanto allo stesso fu consegnata copia del libro soci da cui l’annotazione predetta non risultava. Sta di fatto che il notaio, venuto a conoscenza dell’iscrizione del vincolo presso l’ufficio del registro, ne impose al Co. l’annotazione nel libro soci prima di iscrivere la vendita nel registro delle imprese.
Si comprende da quanto sopra che il Co. tento’ come minimo di creare le apparenze di un acquisto di quota libera da vincoli nei confronti della Societa’, con tutto quello che ne poteva conseguire, sul piano pratico della vita della Societa’ (di cui, fra l’altro, era amministratore lo stesso Co. ) e in termini di conflittualita’ (considerato anche il dato di fondo che la normativa precedente alle modifiche introdotte col Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, applicabile ratione temporis alla fattispecie di causa, non conteneva alcuna espressa disposizione volta a disciplinare l’esercizio di voto e degli altri diritti amministrativi in caso di sequestro di partecipazioni societarie), in ordine al concreto esercizio dei diritti inerenti alla qualita’ di socio (al voto, agli utili, alla liquidazione, all’opzione etc.), costituita in capo al nuovo quotista in forza della cessione, che, pur se inopponibile al sequestrante, non era inesistente o nulla ma in se’ pienamente valida.
Alla stregua di tanto, e richiamati i rilievi sopra svolti in ordine alla penale rilevanza delle condotte atte a rendere anche soltanto piu’ difficoltoso il conseguimento delle finalita’ afferenti ai beni sottoposti a vincolo, non puo’ ritenersi che la vendita delle quote sociali effettuata dal Co. , palesemente diretta alla elusione del vincolo, fosse ab origine radicalmente inidonea a creare intralcio alla realizzazione delle finalita’ ad esso sottese, e va considerata quindi corretta la conclusione della Corte di merito che ha ravvisato nel comportamento dell’imputato il tentativo punibile del reato di cui all’articolo 334 c.p..
11. Cio’ chiarito, deve rilevarsi che il reato in questione non puo’ considerarsi estinto per prescrizione. Invero, essendosi la condotta esaurita il (OMESSO), il termine massimo di prescrizione, pari a sette anni e mezzo, alla stregua dell’articolo 157 c.p., comma 1, e articolo 161 c.p., comma 2, nel testo come modificato dalla Legge 5 dicembre 2005, n. 251, applicabile ratione temporis in relazione alla data di emanazione della sentenza di primo grado, a sensi dell’articolo 10, comma 3, della stessa legge, come emendato da Corte cost., sent. n. 393 del 2006, sarebbe in astratto decorso il (OMESSO). Bisogna, pero’, al riguardo tener conto dei periodi di sospensione della prescrizione, determinati dai rinvii di udienza idonei a determinarli.
Nel corso del giudizio di primo grado vi furono i seguenti rinvii: – dal 25 novembre 2004 al 1 dicembre 2004, per adesione dei difensori all’astensione indetta dalle Camere penali; – dal 23 aprile 2005 al 23 novembre 2005, per impedimento di un difensore; – dal 18 gennaio 2006 all’8 febbraio 2006, per adesione dei difensori all’astensione indetta dalle Camere penali; – dal 21 settembre 2006 al 6 dicembre 2006, per adesione dei difensori all’astensione indetta dalle Camere penali. Nel giudizio di appello vi e’ stato il rinvio dal 12 marzo 2009 al 10 giugno 2009, per concomitante impegno professionale di un difensore. Si tratta complessivamente di 403 giorni, che vanno considerati per intero, nonostante la disposizione di cui all’articolo 159 c.p., comma 1, n. 3, nel testo come modificato dalla Legge 5 dicembre 2005, n. 251.
La detta disposizione, infatti, non puo’ applicarsi ai rinvii disposti anteriormente all’entrata in vigore della Legge n. 251 del 2005, (quale in particolare, in riferimento al caso di specie, quello disposto il 23 aprile 2005). Tale conclusione e’ imposta dalla sua natura di norma rivolta al giudice, cui e’ inibito di differire l’udienza, per impedimento delle parti o dei difensori, “oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento”, limite al cui rispetto non poteva evidentemente essere chiamato ne’ tenuto prima che la disposizione esistesse. Non si fa carico di tale decisivo rilievo e non puo’ quindi essere condivisa l’opposta conclusione seguita da Sez. 5, n. 12766 del 16/02/2010, dep. 01/04/2010, Rv. 246877.
Ancora il novellato disposto dell’articolo 159 c.p., comma 1, n. 3, non puo’ applicarsi al di fuori delle ipotesi ivi espressamente previste (“impedimento delle parti o dei difensori”) e, quindi, in particolare, per quanto rileva ai fini in discorso, ai rinvii disposti per adesione dei difensori all’astensione indetta dalle Camere penali o per concomitante impegno professionale del difensore. In tal senso si e’ gia’ coerentemente pronunciata questa Corte con specifico riferimento sia alla prima (Sez. 5, n. 18071 del 08/02/2010, dep. 12/05/2010, Rv. 247142; conformi: n. 44924 del 2007, Rv. 237914, n. 4071 del 2008, Rv. 238544, n. 20574 del 2008, Rv. 239890, n. 25714 del 2008, Rv. 240460, n. 33335 del 2008, Rv. 241387) che alla seconda ipotesi (Sez. 1, n. 44609 del 14/10/2008, dep. 01/12/2008, Rv. 242042).
12. Infondato e’ anche il sesto motivo di ricorso.
Va premesso che il riconoscimento delle attenuanti generiche risponde ad una facolta’ discrezionale del giudice, il cui esercizio – positivo o negativo che sia – deve essere motivato nei limiti atti a far emergere in misura sufficiente la ragione della concreta scelta operata (ex plurimis, Sez. 1, n. 1213 del 17/01/1984, dep. 11/02/1984, Deiana, Rv. 162568).
Nella specie il giudice del merito ha congruamente assolto a tale obbligo, col riferimento alla molteplicita’ delle condotte censurabili, che rileva ai fini in discorso anche per le imputazioni in ordine alle quali e’ intervenuta declaratoria di estinzione del reato a seguito di un sostanziale accertamento della responsabilita’.
Quanto ai rilievi della mancata resipiscenza dell’imputato e del tradimento della fiducia accordatagli col conferimento degli incarichi, trattasi di elementi legittimamente valutabili in sede di delibazione dei presupposti di concedibilita’ delle attenuanti generiche, sotto il profilo, quanto al primo, non di un diretto peso sfavorevole della mancata confessione, sibbene di un mancato possibile bilanciamento della presenza di fattori negativi e, quanto al secondo, non del mero riferimento alla natura delle fattispecie, sibbene dei significativi riflessi soggettivi della reiterazione delle condotte.
13. Relativamente, infine, al settimo motivo di ricorso, deve rilevarsi che la specifica doglianza che ne costituisce oggetto – della quale il ricorrente lamenta l’omesso esame da parte del giudice d’appello -, relativa al parallelo giudizio risarcitorio instaurato con successo in sede civile dalla Ca. di. Ri. di. Fi. , che avrebbe fatto venir meno il presupposto del diritto al risarcimento e della condanna alla provvisionale disposti in suo favore nel presente giudizio, e’ stata formulata tardivamente, in quanto dedotta solo all’ultima udienza del giudizio di appello del 10 giugno 2009, in una alla produzione della sentenza civile su cui si basava, laddove, essendo stata tale sentenza emessa in data 3 marzo 2008, ogni ragione in proposito, ricollegabile al capo, gia’ fatto oggetto di impugnazione, relativo alle statuizioni civili disposte in favore della Ca. di. Ri. di. Fi. , avrebbe potuto e dovuto essere fatta valere al piu’ tardi con memoria depositata dalla difesa entro il termine di cui all’articolo 585 c.p.p., comma 4.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi G) e H) dell’imputazione, nella qualificazione originaria cosi’ ripristinata;
perche’ estinti per prescrizione ed elimina le relative pene, principale ed accessoria. Rigetta il ricorso nel resto.
(