AVVOCATO AMMINISTRATORE SOSTEGNO PECULATO
Premesso che nella specie l’avv. I., quale delegato del Sindaco, operava negli ambiti di diverse “amministrazioni di sostegno e tutele”, va subito rilevato:
- a) che, agli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., la pubblica funzione o il pubblico servizio prescindono da un rapporto di impiego con lo Stato o l’ente pubblico, occorrendo privilegiare la verifica della reale attività esercitata e degli scopi perseguiti, per stabilire se l’attività dell’agente sia imputabile al soggetto pubblico (Cass. pen. sezione 6, C.C. 17 ottobre 2012, De Caro);
- b) che va considerato pubblico ufficiale, non solo colui che, con la sua attività, concorre a formare quella dello Stato o di altri enti pubblici, ma anche chi è chiamato a svolgere attività accessorie o sussidiarie ai fini istituzionali di tali enti, in quanto in questi casi si verifica, attraverso l’attività svolta, una partecipazione, sia pure in misura ridotta, alla formazione della volontà della pubblica amministrazione: ne consegue che, per rivestire la qualifica di pubblico ufficiale, non è indispensabile svolgere un’attività che abbia efficacia diretta nei confronti di terzi, giacché ogni atto preparatorio, propedeutico o accessorio, che esaurisca nell’ambito del procedimento amministrativo i suoi effetti certificativi, valutativi o autoritativi, seppure destinato a fini interni alla Pubblica amministrazione, comporta l’attuazione completa e connaturale dei fini dell’ente pubblico e non può essere artificiosamente isolato all’interno dell’intero contesto delle funzioni pubbliche (cfr. cass. pen. sezione, 6, u.p. 11 aprile 2014 Lo Cricchio);
- c) che, per ormai consolidata giurisprudenza, va ritenuto pubblico ufficiale il tutore dell’incapace (cfr. da ultimo: Cass. pen. sezione 6, u.p. 4 febbraio 2014, Mameli), con la conseguente integrazione del delitto di peculato laddove il tutore dell’interdetto si appropri di somme di denaro appartenenti a quest’ultimo e ricevute, in ragione dell’ufficio rivestito (sez. 6, Sentenza n. 27570/2007 Rv. 237604).
. Orbene l’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della legge 9 gennaio 2004, n. 6, ha la finalità di offrire, a chi si trovi nella impossibilità anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi, nella minor misura possibile, la capacità di agire, distinguendosi, appunto per tale sua specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 del codice civile.
2.4. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno è stato individuato, dalla dottrina e giurisprudenza, con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi della persona carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (cfr. in termini: Cass. Civ. sezione. 1 sentenza n. 13584 del 12/06/2006 Rv. 589525 e Cass. civ. sezione 1 sentenza 4866 del 1 marzo 2010, Rv. 611912)).
2.5. Si tratta quindi di un istituto che, nell’ambito delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, persegue l’obbiettivo della minor limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno, temporaneo o permanente, nel quadro quindi di un servizio di utilità collettiva, essenziale per la salvaguardia degli interessi di soggetti con problemi minore gravità di quelli residualmente tutelabili con gli istituti della interdizione e della inabilitazione (cfr. sul punto: Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 4866 del 01/03/2010 Rv. 611912
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 12 novembre – 3 dicembre 2014, n. 50754
(Presidente Di Virginio – Relatore Lanza)
Ritenuto in fatto
- I.G.M., avvocato, ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 25 marzo 2013 della Corte di appello di Milano, che, in parziale riforma della sentenza 24 maggio 2011 del G.I.P. presso il Tribunale di Milano, ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 4 di reclusione in relazione all’accusa del capo a), consistita nella violazione degli artt. 81 cpv 314, 61 n. 7 cod. pen., perché, nella sua qualità di delegato ad operare, per conto del Comune di (omissis) nell’ambito dell’amministrazione di sostegno e della tutela di numerose persone, incapaci di provvedere ai propri interessi e, in particolare, avendo poteri di gestione, sui conti bancari di M.E., P.M., Pe.Iv., P.L.A.R.E., R.F., Ru.Ar. e T.G., si appropriava di ingenti somme di denaro, a lui affidate, mediante plurime operazione bancarie effettuate sui conti correnti intestati alle persone incapaci sopra indicate e consistite in bonifici accreditati su propri conti correnti, prelievi per cassa ed emissioni di assegni in suo favore, operazioni tutte risultate prive di giustificazione o con causale fittizia, per un ammontare complessivo pari ad Euro. 328.377,54.
Considerato in diritto
- Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo della affermata sussistenza del delitto di peculato, considerato che l’imputato, in relazione alle funzioni affidategli, non aveva il possesso del denaro oggetto delle successive appropriazioni, né rivestiva qualità di pubblico ufficiale.
1.1. Secondo l’assunto difensivo, il ricorrente, avvocato delegato dal tutore, Sindaco del Comune, non svolgeva alcuna funzione intesa alla tutela o all’imparzialità e al buon andamento della Pubblica amministrazione e le somme di denaro di cui egli si era appropriato “erano di soggetti privati” il cui possesso era attribuito al Sindaco nella sua qualità di tutore, tant’è che per conseguirne la materiale disponibilità l’I. fu costretto a falsificare gli estratti bancari.
- Il motivo è palesemente privo di fondamento.
2.1 Premesso che nella specie l’avv. I., quale delegato del Sindaco, operava negli ambiti di diverse “amministrazioni di sostegno e tutele”, va subito rilevato:
- a) che, agli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., la pubblica funzione o il pubblico servizio prescindono da un rapporto di impiego con lo Stato o l’ente pubblico, occorrendo privilegiare la verifica della reale attività esercitata e degli scopi perseguiti, per stabilire se l’attività dell’agente sia imputabile al soggetto pubblico (Cass. pen. sezione 6, C.C. 17 ottobre 2012, De Caro);
- b) che va considerato pubblico ufficiale, non solo colui che, con la sua attività, concorre a formare quella dello Stato o di altri enti pubblici, ma anche chi è chiamato a svolgere attività accessorie o sussidiarie ai fini istituzionali di tali enti, in quanto in questi casi si verifica, attraverso l’attività svolta, una partecipazione, sia pure in misura ridotta, alla formazione della volontà della pubblica amministrazione: ne consegue che, per rivestire la qualifica di pubblico ufficiale, non è indispensabile svolgere un’attività che abbia efficacia diretta nei confronti di terzi, giacché ogni atto preparatorio, propedeutico o accessorio, che esaurisca nell’ambito del procedimento amministrativo i suoi effetti certificativi, valutativi o autoritativi, seppure destinato a fini interni alla Pubblica amministrazione, comporta l’attuazione completa e connaturale dei fini dell’ente pubblico e non può essere artificiosamente isolato all’interno dell’intero contesto delle funzioni pubbliche (cfr. cass. pen. sezione, 6, u.p. 11 aprile 2014 Lo Cricchio);
- c) che, per ormai consolidata giurisprudenza, va ritenuto pubblico ufficiale il tutore dell’incapace (cfr. da ultimo: Cass. pen. sezione 6, u.p. 4 febbraio 2014, Mameli), con la conseguente integrazione del delitto di peculato laddove il tutore dell’interdetto si appropri di somme di denaro appartenenti a quest’ultimo e ricevute, in ragione dell’ufficio rivestito (sez. 6, Sentenza n. 27570/2007 Rv. 237604).
2.2. Tanto premesso, posto che la condotta di appropriazione dell’avv. I. ha riguardato “anche” somme di denaro appartenenti a persone oggetto di “amministrazione di sostegno”, si tratta ora di valutare se pure per tale istituto possano valere le medesime conclusioni assunte per le tutele e le curatele.
2.3. Orbene l’amministrazione di sostegno, introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 della legge 9 gennaio 2004, n. 6, ha la finalità di offrire, a chi si trovi nella impossibilità anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi, nella minor misura possibile, la capacità di agire, distinguendosi, appunto per tale sua specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 del codice civile.
2.4. Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno è stato individuato, dalla dottrina e giurisprudenza, con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi della persona carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (cfr. in termini: Cass. Civ. sezione. 1 sentenza n. 13584 del 12/06/2006 Rv. 589525 e Cass. civ. sezione 1 sentenza 4866 del 1 marzo 2010, Rv. 611912)).
2.5. Si tratta quindi di un istituto che, nell’ambito delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, persegue l’obbiettivo della minor limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno, temporaneo o permanente, nel quadro quindi di un servizio di utilità collettiva, essenziale per la salvaguardia degli interessi di soggetti con problemi minore gravità di quelli residualmente tutelabili con gli istituti della interdizione e della inabilitazione (cfr. sul punto: Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 4866 del 01/03/2010 Rv. 611912).
2.5. Pertanto, ritiene la Corte che la verifica della reale attività esercitata e degli scopi perseguiti dall’amministratore di sostegno consente di attribuirgli, negli stessi termini del tutore, la veste e qualità di pubblico ufficiale, considerato il complesso delle norme a lui applicabili ed in particolare: a) la prestazione del giuramento prima dell’assunzione dell’incarico (art. 349 Cod.civ.); b) il regime delle incapacità e delle dispense (artt. 350-353 Cod. civ.); c) la disciplina delle autorizzazioni, le categorie degli atti vietati, il rendiconto annuale al giudice tutelare sulla contabilità dell’amministrazione (artt. 374-388 Cod. civ.); d) l’applicazione, nei limiti di compatibilità, delle norme limitative in punto di capacità a ricevere per testamento (artt. 596, 599 Cod. civ.) e capacità di ricevere per donazioni (art. 779 Cod. civ.). In sostanza tutta una disciplina, formale e sostanziale, che pone l’amministratore di sostegno sullo stesso piano del tutore con gli obblighi e le ricadute penali che la sua qualità di pubblico ufficiale comporta.
2.6. Il motivo va quindi dichiarato inammissibile.
- Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione per il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
3.1. Anche questa doglianza non supera il vaglio dell’ammissibilità.
3.2. I giudici di merito hanno negato le circostanze attenuanti generiche con una motivazione che palesemente si sottrae a censure in sede di legittimità, considerato che la sussistenza di attenuanti generiche è infatti oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal Giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, per cui la motivazione, purché congrua e non contraddittoria – come nella specie – non può essere sindacata in Cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato” (Cass. Penale sez. IV, 12915/2006 Billeci).
- Con un terzo motivo si prospetta ancora vizio di motivazione per lo sproporzionato aumento inflitto per i reati in continuazione con l’irrogazione di una sanzione ex art. 81 capo verso (mesi 42 in continuazione) superiore a quella fissata come pena base.
4.1. Il motivo, manifestamente infondato, sembra ignorare innanzitutto che la norma dell’art. 81 cod. pen. prevede testualmente “l’aumento sino al triplo della pena da infliggersi per la violazione più grave” e che, nella specie, l’entità dell’aumento ha trovato ragionevole e congrua giustificazione nella ineccepibile motivazione dei giudici di merito.
- All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro. 1000,00 (mille).
- Da ultimo, va precisato che alla pronuncia di inammissibilità del ricorso non segue la liquidazione delle spese ed onorari della parte civile, oggi comparsa, la quale non ha presentato “conclusioni scritte”, ma si è limitata a depositare la nota spese priva di formali conclusioni.
5.1. Invero il codice di rito all’art.141, nel disciplinare le “dichiarazioni o le richieste orali delle parti attinenti al procedimento”, indica come pre-requisito di applicazione che la legge non imponga la forma scritta.
5.2. Orbene, nella specie, la parte civile non ha ottemperato al disposto dell’art. 523 comma 2 cod. proc. pen. laddove, nel regolare lo svolgimento della discussione, espressamente stabilisce che la parte civile “presenta conclusioni scritte”, le quali non possono, all’evidenza, essere sostituite dalle mere richieste orali, pur ritualmente verbalizzate.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro. 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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