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MALASANITÀ’ DIFETTOSA TENUTA CARTELLA CLINICA studio legale bologna

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MALASANITA’ DIFETTOSA TENUTA CARTELLA CLINICA

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RAVENNA MALASANITA’ DANNO

BOLOGNA MALASANITA’ DANNO 

VICENZA MALASANITA’ DANNO

FORLI MALASANITA’ DANNO

TREVISO MALASANITà DANNI

ROVIGO MALASANITA’ DANNO 

 

 

  1. 1) OBBLIGHI DEL MEDICO RIGUARDO CARTELLE CLINICHE

il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176 c.c., comma 2 e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”; conformi, p. es., Cass. 26/01/2010 n. 1538; Cass. 05/07/ 2004 n. 12273

 

2) L’incompletezza della cartella clinica

L’incompletezza della cartella clinica avrebbe ridondato negativamente sui danneggiati in contrasto con l’orientamento di questa Corte che, al contrario, ritiene, in ossequio al principio di prossimità della prova, che l’incompletezza della cartella clinica costituisce un indizio da cui dedurre presuntivamente non solo la prova del nesso causale a carico del medico ma anche il riconoscimento della sua responsabilità, dovendo “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibili alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” ricorrersi alle presunzioni. Il motivo è infondato. E’ vero che il CTU non è stato in grado di individuare la causa del decesso della paziente e che, in risposta al quesito specificamente postogli dal giudice circa se la causa della morte fosse da imputarsi alla neoplasia o all’intervento chirurgico mal eseguito, ha attribuito tale incertezza “sia all’assenza di riscontro diagnostico che ne potesse definire con certezza i momenti patogenetici sia per l’assenza nella cartella clinica di un diario cui potersi riferire circa le ipotesi diagnostiche avanzate dai professionisti ed il percorso che li aveva portati ad un intervento chirurgico” (p. 8 della sentenza).

 

 

La Corte d’Appello, tuttavia, non ha errato nel collocare sui ricorrenti tale incertezza eziologica. In primo luogo, occorre partire dalla premessa che nell’ambito della responsabilità contrattuale spetta a chi si assume danneggiato fornire la prova del nesso di causa fra l’inadempimento ed il pregiudizio alla salute, giacchè se così non fosse dalla fattispecie costitutiva del diritto verrebbe espunto l’elemento della causalità materiale (così Cass. 11/11/2019, n. 28991), con la conseguenza che se la causa dell’evento di danno, in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie, resta ignota, in applicazione delle regole del riparto dell’onus probandi, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale (Cass. 11/11/2019, n. 28992). E quanto al rilievo da attribuirsi alle omissioni della cartella clinica sull’impossibilità di individuare il nesso di causalità materiale, deve precisarsi che le omissioni della cartella clinica non conducono automaticamente a ritenere adempiuto l’onere probatorio da parte di chi adduce di essere danneggiato, pur dovendosene tener conto, perchè diversamente l’incompletezza verrebbe a giovare proprio a colui che con inadempimento al proprio obbligo di diligenza (Cass. 18/09/2009 n. 20101 precisa che “il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176 c.c., comma 2 e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”; conformi, p. es., Cass. 26/01/2010 n. 1538; Cass. 05/07/ 2004 n. 12273), tale incompletezza ha creato. Il rilievo della difettosa tenuta della cartella clinica è tale da far ritenere provato il nesso di causalità materiale solo quando proprio l’incompletezza della cartella clinica abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (così Cass. 14/11/2019, n. 29498).

LA SENTENZA PER ESTESO 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 24 febbraio – 8 luglio 2020, n. 14261 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente – Dott. SESTINI Danilo – Consigliere – Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere – Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere – Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 28991/2017 proposto da: C.A.E., S.F., C.M., C.L., ST.FL., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati MAURIZIO DIOCIAIUTI, ANDREA ROSSINI; – ricorrenti – contro T.F., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE DEI QUATTRO VENTI 162, presso lo studio dell’avvocato LAURA LUCIDI, rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO BENVENUTO; – controricorrente – e contro ASUR AZIENDA UNICA SANITARIA REGIONALE MARCHE, MILANO ASSICURAZIONI SPA; – intimati – avverso la sentenza n. 992/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 29/06/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’Avvocato MAURIZIO DIOCIAIUTI; udito l’Avvocato RODOLFO BERTI. Svolgimento del processo S.F. e Fl., C.A., L. e M. ricorrono per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Ancona, n. 992/2017, pubblicata il 29/06/2017, avvalendosi di tre motivi. Resistono con autonomo controricorso T.F. e ASUR – Azienda Unica Sanitaria Regionale Marche.

 

 

Entrambi hanno depositato memoria inviata dell’odierna udienza. Il Tribunale di Ancona, con sentenza n. 190/2010, riconosciutili responsabili per inadempimento contrattuale e per omissione di informazione, condannava la ASL n. (OMISSIS) di To.Fa. e F. a corrispondere ciascuno complessivi Euro 20.000,00 a favore dei figli di P.B. ( S.A., R., G., Al. e C.) ed a favore di C.A., L. e M., figli della defunta S.L., a titolo di ristoro dei danni patiti per la morte di P.B., alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese delle consulenze tecniche; dichiarava la S.P.A. Milano Assicurazioni tenuta a manlevare t.f. da ogni pregiudizio derivante dalla sentenza di condanna. S.A., C., F. e Fl., nella qualità di eredi legittimi di St.Al., nonchè C.A., L. e M., nella qualità indicata, ricorrevano per la riforma della sentenza dinanzi alla Corte d’Appello di Ancona, lamentando il mancato riconoscimento del danno non patrimoniale per responsabilità medica contrattuale, l’insufficiente liquidazione del danno, il mancato riconoscimento di rivalutazione ed interessi e l’incertezza del titolo del risarcimento e pretendendo il risarcimento

 

 

del danno loro spettante iure hereditatis. ASUR Marche, T.F. e Assicurazioni Milano S.p.a. proponevano appello incidentale; la prima lamentava l’inammissibilità per novità della domanda risarcitoria iure hereditatis e di quelle per risarcimento del danno da perdita di chance e per violazione del consenso informato nonchè l’inaccoglibilità della impugnazione relativa alla non congruità del risarcimento; il medico censurava l’errata determinazione da parte del CTU dell’efficienza causale della mancata continuità informativa e la liquidazione di un danno inesistente; la Compagnia assicurativa deduceva la novità della domanda di risarcimento sia iure proprio che iure hereditatis e l’insussistenza di ogni responsabilità dell’assicurato in esito al Black out informativo ritenuto concausa della morte di P.B..

 

 

La sentenza, oggetto dell’odierna impugnazione, facendo leva sulla CTU espletata in primo grado, riteneva che non fosse risultato provato, neppure attraverso il criterio del più probabile che non, il nesso di derivazione causale tra la morte della paziente e le omissioni attribuite ai convenuti, riformava la sentenza di prime cure, condannava gli appellanti al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio e gli appellanti e gli originari intervenuti al pagamento delle spese di CTU ed alla restituzione di quanto ricevuto in esecuzione della sentenza di prime cure. In particolare, la Corte territoriale prendeva atto che la vittima, ultraottantenne con sintomi di dolore addominale, era stata sottoposta nel periodo tra il luglio 1994 e l’aprile 1995, data del decesso, a ripetuti ricoveri, a plurimi esami diagnostici e ad un intervento di emicolectomia, prima che, tramite esame istologico, le venisse diagnostica una neoplasia; la CTU non era stata in grado di attribuire la causa della morte nè alla neoplasia nè all’intervento chirurgico, non aveva accertato se la neoplasia fosse diagnosticabile in occasione di uno dei ripetuti ricoveri ospedalieri nè se una tempestiva diagnosi avrebbe garantito la sopravvivenza della donna o una più lunga aspettativa di vita. La CTU aveva tuttavia ritenuto che un controllo di tipo assistenziale, una verifica più attenta dello stato intestinale, unita ad un controllo delle informazioni tra i professionisti che avevano seguito la paziente durante i suoi ricoveri e tra questi e il medico di base avrebbero permesso un dominio attivo e strumentale del divenire della patologia diverticolare ed una disamina del quadro clinico diverso che avrebbe portato ad un intervento chirurgico di tipo elettivo e non di urgenza. A tale comportamento omissivo il giudice di prime cure, cui si era uniformata la Corte d’Appello, aveva riconosciuto una rilevanza causale rispetto all’evento morte del 20%, quindi, ben al di sotto del richiesto più probabile che non. Si dà atto che con ordinanza interlocutoria n. 21308/19, resa all’esito della Camera di consiglio del 21 maggio 2019, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo, ritenuto che la controversia vertesse su questioni ricadenti tra quelle individuate con provvedimento del 15 gennaio 2019 del Presidente titolare della terza sezione civile come necessitanti di trattazione unitaria, onde assicurare la uniforme enunciazione dei principi di diritto. Motivi della decisione 1.ù

 

 

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, artt. 2697 e 1218 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., per avere il giudice a quo negato che gli attori avessero provato il nesso di derivazione causale nonostante la CTU avesse imputato l’incertezza circa la causa della morte alla difettosità della cartella clinica. La Corte d’Appello aveva respinto la domanda risarcitoria, perchè aveva ritenuto non provato il nesso di causalità tra la condotta omissiva contestata e il danno lamentato, senza tener conto che la CTU, alle pp. 25 e 26, aveva rilevato che non era possibile definire con certezza quale fosse stata la causa della morte, perchè la lacunosità della cartella clinica rendeva i passaggi difficilmente percorribili e l’assenza al suo interno di un diario clinico circa le ipotesi diagnostiche formulate rendeva impossibile riferire circa il comportamento dei professionisti e verificare che cosa li avesse indotti ad eseguire un intervento chirurgico d’urgenza.

 

 

L’incompletezza della cartella clinica avrebbe ridondato negativamente sui danneggiati in contrasto con l’orientamento di questa Corte che, al contrario, ritiene, in ossequio al principio di prossimità della prova, che l’incompletezza della cartella clinica costituisce un indizio da cui dedurre presuntivamente non solo la prova del nesso causale a carico del medico ma anche il riconoscimento della sua responsabilità, dovendo “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibili alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” ricorrersi alle presunzioni. Il motivo è infondato. E’ vero che il CTU non è stato in grado di individuare la causa del decesso della paziente e che, in risposta al quesito specificamente postogli dal giudice circa se la causa della morte fosse da imputarsi alla neoplasia o all’intervento chirurgico mal eseguito, ha attribuito tale incertezza “sia all’assenza di riscontro diagnostico che ne potesse definire con certezza i momenti patogenetici sia per l’assenza nella cartella clinica di un diario cui potersi riferire circa le ipotesi diagnostiche avanzate dai professionisti ed il percorso che li aveva portati ad un intervento chirurgico” (p. 8 della sentenza).

 

 

La Corte d’Appello, tuttavia, non ha errato nel collocare sui ricorrenti tale incertezza eziologica. In primo luogo, occorre partire dalla premessa che nell’ambito della responsabilità contrattuale spetta a chi si assume danneggiato fornire la prova del nesso di causa fra l’inadempimento ed il pregiudizio alla salute, giacchè se così non fosse dalla fattispecie costitutiva del diritto verrebbe espunto l’elemento della causalità materiale (così Cass. 11/11/2019, n. 28991), con la conseguenza che se la causa dell’evento di danno, in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie, resta ignota, in applicazione delle regole del riparto dell’onus probandi, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale (Cass. 11/11/2019, n. 28992). E quanto al rilievo da attribuirsi alle omissioni della cartella clinica sull’impossibilità di individuare il nesso di causalità materiale, deve precisarsi che le omissioni della cartella clinica non conducono automaticamente a ritenere adempiuto l’onere probatorio da parte di chi adduce di essere danneggiato, pur dovendosene tener conto, perchè diversamente l’incompletezza verrebbe a giovare proprio a colui che con inadempimento al proprio obbligo di diligenza (Cass. 18/09/2009 n. 20101 precisa che “il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176 c.c., comma 2 e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”;

 

 

 

conformi, p. es., Cass. 26/01/2010 n. 1538; Cass. 05/07/ 2004 n. 12273), tale incompletezza ha creato. Il rilievo della difettosa tenuta della cartella clinica è tale da far ritenere provato il nesso di causalità materiale solo quando proprio l’incompletezza della cartella clinica abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (così Cass. 14/11/2019, n. 29498). L’attenzione va, dunque, focalizzata sulla condotta dei sanitari al fine di verificare se essa abbia avuto una astratta idoneità alla causazione dell’evento dannoso, essendo logicamente il primo elemento da vagliare, in quanto, se, al contrario, la condotta del sanitario fosse astrattamente inidonea a causarlo, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale.

 

 

Nel caso di specie, il CTU, in risposta al quesito se la neoplasia fosse diagnosticabile in occasione dei primi ricoveri dell’anziana paziente ed a quello circa se una diagnosi precoce ne avrebbe garantito la sopravvivenza o un’aspettativa di vita più lunga, ha risposto negativamente, escludendo che se nel dicembre 1994 fosse stato diagnosticato l’adenoma villoso l’evoluzione clinica generale della anziana sarebbe stata diversa e ritenendo estremamente difficile sostenere, a fronte di due differenti patologie che affliggevano la vittima, che una diagnosi precoce della neoplasia avrebbe evitato l’intervento chirurgico d’urgenza e/o che avrebbe consentito di aggredire la neoplasia in uno stadio di sviluppo meno avanzato. Se ne deve, dunque, concludere che la condotta dei sanitari non è stata ritenuta astrattamente idonea a cagionare l’evento di danno, per cui non essendosi superato lo stadio di indagine volto a dimostrare che la condotta sanitaria fosse astrattamente idonea a provocare l’evento di danno, risulta indifferente che l’incompletezza della cartella fosse tale da impedire la ricostruzione fattuale sul piano concreto, e in particolare nel suo nucleo centrale, identificabile nella connessione materialmente eziologica fra condotta sanitaria commissiva od omissiva ed evento (Cass. 14/11/2019, n. 29498). 2.

 

 

Con il secondo motivo la ricorrente imputa alla sentenza gravata la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 115 e 116 c.p.c., per non avere valorizzato le risultanze della CTU, trascurando i profili di responsabilità che da essa sarebbero emersi. La CTU aveva rilevato che il mancato scambio di informazioni tra i sanitari che ebbero in cura P.B. nel dicembre 1994 ed il suo medico curante e tra questi e i medici che la ebbero in cura nel 1995 aveva impossibile “un dominio attivo e strumentale dell’evoluzione della patologia (diverticolare) che avrebbe permesso la continuità della protezione della paziente”. Non era stata reperita neppure la lettera di dimissioni che avrebbe dovuto fornire al medico di medicina generale tutte le informazioni necessarie relative al ricovero, all’iter diagnostico e terapeutico, al quadro clinico al momento dell’ammissione e della dimissione, alle indicazioni sul proseguimento della terapia a domicilio, alle visite ed alle eventuali indagini strumentali di controllo da programmare. Se tale continuità informativa vi fosse stata sarebbe stato eventualmente possibile, secondo la CTU, procedere ad un intervento chirurgico elettivo e non di emergenza. L’omissione di tale condotta informativa avrebbe rappresentato l’elemento favorente (concausa preesistente) la realizzazione dell’evento (addome Acuto) con quella intensità lesiva che in via concorsuale con altre situazioni cliniche preesistenti provocarono la morte della paziente. 3.Con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere immotivatamente adottato il criterio probabilistico del giudice di prime cure nonostante fosse stato oggetto di specifica censura in appello.

 

 

 

La stima della percentuale di incidenza della condotta omissiva ravvisata dalla CTU sulla morte di P.B. sarebbe stata affermata dal giudice di primo grado senza alcun fondamento tecnico-scientifico e la Corte d’Appello l’avrebbe fatta propria acriticamente, senza tener conto del fatto che tale determinazione era stata oggetto di uno specifico motivo di appello. 4. I motivi numeri due e tre possono essere esaminati congiuntamente, perchè riguardano entrambi il rilievo causale della medesima omissione. Al netto dei plurimi vizi di sussunzione, i motivi non soddisfano il principio di autosufficienza: riportano solo passaggi scelti della CTU, ma non la allegano al ricorso nè forniscono elementi per individuarla all’interno del fascicolo (Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34469); si denuncia il fatto che la Corte abbia confermato la decisione del giudice di prime cure circa la quantificazione dell’efficienza causale dell’inadeguata assistenza postoperatoria e del difetto di scambio di informazioni nonostante il punto fosse stato oggetto di specifica censura, ma non viene riprodotto il motivo di appello, limitandosi ad un mero rinvio “per relationem” all’atto di appello, senza specificare i termini esatti delle statuizioni impugnate e delle censure a suo tempo mosse con l’atto di gravame e ciò impedisce alla Suprema Corte di verificare il fondamento della lamentata violazione, tenuto presente che al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione non può ottemperarsi “per relationem” mediante il richiamo ad altri atti o scritti difensivi presenti nei precedenti gradi del giudizio (Cass. 09/08/2019, n. 21244); viene dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., senza rispettarne le condizioni:

 

 

 

il vizio di violazione dell’art. 115 c.p.c., per essere accolto richiede che venga denunciato che il giudice non ha posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè che abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che, per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c. (Cass. 10/06/2016, n. 11892); la violazione del paradigma dell’art. 116 c.p.c., il quale prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi) (per tutte cfr. Cass. 10/06/2016, n. 11892). 5. Ne consegue il rigetto del ricorso. 6. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore di ciascuno dei controricorrenti, liquidandole in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 febbraio 2020. Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020.

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E’ noto, altresì, che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” (Cass. n. 11316/2003; cfr. Cass. n. 10060/2010); tali principi, che costituiscono espressione del criterio della vicinanza alla prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto sono destinati ad operare non soltanto ai fini della valutazione della condotta del sanitario (ossia dell’accertamento della colpa), ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente (cfr., oltre alle citate Cass. n. 11316/2003 e n. 10060/20109, anche Cass. n. 12218/2015).

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Suprema Corte di Cassazione

 

Sezione III Civile

 

Sentenza 11 gennaio – 31 marzo 2016, n. 6209

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

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SENTENZA

sul ricorso 17410-2013 proposto da:

M.P., (OMISSIS) in nome e per conto della figlia minore M.I., T.A. (OMISSIS), in proprio ed in nome e per conto della figlia minore M. I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FREDIANI ERMENEGILDO 48, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PROIETTI LUPI, rappresentati e difesi dall’avvocato MARINELLA ASEGLIO GIANINET giusta procura speciale del Dott. Notaio Raffaella POLI CAPPELLI, in TORINO 17/12/2015, REP. n. 20144;

afd6

– ricorrenti –

contro

GENERALI ITALIA SPA (già INA ASSITALIA SPA), in persona del suo legale rappresentante pro tempore n.q. avv. MATTEO MANDO’ elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIER FRANCO GIGLIOTTI giusta procura speciale in calce al controricorso;

AZIENDA SANITARIA ASL TO (OMISSIS) (già ASL (OMISSIS) DI CIRIE’), in persona del Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore Dott. BO. F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 294, presso lo studio dell’avvocato ENRICO FRONTICELLI BALDELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO MAJORINO giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

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B.P., EREDI COLLETTIVAMENTE ED IMPERSONALMENTE DI F.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1655/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 18/10/2012, R.G.N. 1658/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/01/2016 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;

udito l’Avvocato ASEGLIO GIANINET;

udito l’Avvocato ENRICO FRONTICELLI BALDELLI;

udito l’Avvocato MARCO VINCENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del 2 e 4 motivo p.q.r. assorbiti i restanti.

Svolgimento del processo

T.A. e M.P. agirono, in proprio e in qualità di genitori esercenti la potestà sui minori I. ed A., per il risarcimento dei danni conseguiti alle lesioni subite dalla figlia I. in occasione del parto, avvenuto presso l’Ospedale Civile di (OMISSIS), che erano esitate in tetraparesi e grave insufficienza mentale causate da asfissia perinatale.

A tal fine, convennero in giudizio la A.S.L. n. (OMISSIS) di Ciriè e i medici B.P.G. e F.G., che resistettero alla domanda; al giudizio partecipò anche l’Assitalia s.p.a., chiamata in causa dalla A.S.L. per l’eventuale manleva.

Il Tribunale di Torino rigettò la domanda, con sentenza che è stata confermata dalla Corte di Appello.

Ricorrono per cassazione la T. ed il M., sia in proprio che in nome e per conto della figlia minore I., affidandosi a sei motivi; resistono, con distinti controricorsi, la A.S.L. TO (OMISSIS) (già A.S.L. n. (OMISSIS) di Ciriè) e la Generali Italia s.p.a. (già INA-Assitalia), mentre gli altri intimati non svolgono attività difensiva.

Motivi della decisione

  1. Premesso che gli attori avevano prospettato la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera per non aver prestato alla T. un’adeguata assistenza al parto e per non avere assicurato alla bambina un idoneo trattamento post-natale, la Corte di Appello ha ritenuto che non potesse ascriversi a responsabilità dei sanitari la mancata effettuazione del tracciato cardiotocografico in luogo della mera auscultazione del battito cardiaco fetale (giacchè le condizioni della T. non ne comportavano la necessità e, comunque, il tracciato di controllo non avrebbe potuto rilevare la presenza dell’asfissia) ed ha parimenti affermato che “la fase post- natale fu gestita con corretta predisposizione di diagnosi e terapie nel momento in cui si evidenziò il peggioramento della bambina”, rilevando altresì che “il trasferimento al reparto di rianimazione fu disposto con tempistica ragionevole, nè un suo anticipo avrebbe condotto a risultati terapeutici migliori”; ha concluso, pertanto, che non poteva ravvisarsi “la sussistenza di nesso di causalità tra attività posta in essere dai sanitari e quanto ebbe a verificarsi in danno della neonata”.

Quanto alla “posizione della struttura ospedaliera” e al “profilo di mancanza di consenso in ordine alla presenza nella stessa di strutture idonee ad intervenire per ogni emergenza che si fosse verificata dopo il parto”, la Corte ha osservato che la T. non aveva provato che, ove fosse stata messa a conoscenza dei limiti strutturali dell’Ospedale di (OMISSIS), non vi si sarebbe recata.

  1. Col primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 1218 e 2697 c.c. e si dolgono che la Corte abbia applicato ad una causa civile i criteri di accertamento del nesso di causa elaborati da questa Corte per il processo penale (ossia il c.d. criterio Franzese) in luogo del criterio della preponderanza dell’evidenza pacificamente operante in ambito civile.
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2.1. Il secondo motivo censura la sentenza – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – per “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio”, individuato nel fatto che vi erano stati “vuoti temporali” e “carenze nella tenuta della cartella clinica”, tutti ampiamente evidenziati anche in sede di appello.

2.2. Col terzo motivo (che prospetta la violazione delle “regole di governo dell’onere della prova”, in relazione all’art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c.), i ricorrenti rilevano che la c.t.u., in quanto meramente deducente, non costituiva fonte oggettiva di prova ed evidenziano come i convenuti non avessero fornito la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare l’evento, dolendosi pertanto che la Corte abbia fatto gravare sulla parte attrice l’onere della prova di fatti clinici che avrebbe dovuto ricadere sulle parti convenute.

2.3. Il quarto motivo (che prospetta la violazione di norme di diritto individuate negli artt. 1218 e 2697 c.c. e nell’art. 116 c.p.c.) censura ulteriormente la sentenza per essere “basata unicamente sulle risultanze della consulenza tecnica che ha definito corretto il comportamento dei medici, una consulenza deducente carente, illogica e contraddittoria”, in difetto di prova che i convenuti avessero fatto tutto il possibile per adempiere correttamente la loro obbligazione. In particolare, i ricorrenti evidenziano che, nonostante le difficoltà presentate alla nascita (con un indice APGAR che era salito da 4 a 7 solo a seguito di stimolazione manuale e di somministrazione di ossigeno), la neonata era stata “di fatto abbandonata a se stessa per sei ore”, ossia per l’intervallo (compreso tra le 3,00 e le 9,00 del mattino del 2.12.1996) in relazione al quale non risultavano effettuate annotazioni in cartella clinica, e stessi”, circa il fatto che la neonata non fosse stata lasciata priva di assistenza e che nelle sei ore non avesse avuto problemi.

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2.4. Col quinto motivo (che deduce la violazione degli artt. 87, 194 e 201 c.p.c.), i ricorrenti si dolgono della mancata rinnovazione della C.T.U., che era stata chiesta con l’atto di appello sul rilievo che i consulenti d’ufficio nominati in primo grado non avevano assicurato il contraddittorio tecnico.

2.5. L’ultimo motivo (che prospetta la violazione degli artt. 1176 e 1218 c.c.) censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondato il profilo di appello relativo alla mancanza di informazione circa la carenza di attrezzature capaci di fronteggiare ogni possibile emergenza successiva al parto.

  1. Il ricorso è fondato – per quanto di ragione – in relazione ai motivi secondo, terzo e quarto.

E’ noto che -secondo i principi che governano la responsabilità contrattuale- la struttura e i sanitari che siano convenuti in giudizio per ipotesi di malpractice sono tenuti a fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c., con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale prova (compreso il mero dubbio sull’esattezza dell’adempimento) non può che ricadere a loro carico.

E’ noto, altresì, che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” (Cass. n. 11316/2003; cfr. Cass. n. 10060/2010); tali principi, che costituiscono espressione del criterio della vicinanza alla prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto sono destinati ad operare non soltanto ai fini della valutazione della condotta del sanitario (ossia dell’accertamento della colpa), ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente (cfr., oltre alle citate Cass. n. 11316/2003 e n. 10060/20109, anche Cass. n. 12218/2015).

COLPA GRAVE MEDICA- RISARCIMENTO DANNO MEDICO COLPA MEDICA- AVVOCATI A BOLOGNA-AVVOCATO SERGIO ARMAROLI
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Va inoltre considerato -in fatto- che non può dubitarsi (e non hanno mostrato di dubitarne nè i consulenti d’ufficio, nè la Corte di Appello che ha aderito alle loro conclusioni) che, nel caso in esame, le difficoltà presentate dalla neonata al momento del parto comportassero la necessità di un attento monitoraggio post-natale, al fine di cogliere tempestivamente eventuali peggioramenti delle condizioni e di assicurare un immediato intervento.

Tanto premesso, deve ritenersi che la Corte abbia errato laddove, a fronte di un vuoto di ben sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, ha ritenuto di condividere l’ipotesi -formulata dai consulenti d’ufficio- che la neonata non potesse essere stata lasciata senza assistenza e non “avesse avuto problemi, anche perchè al mattino le condizioni cliniche erano stabili”.

Tali conclusioni meritano censura sia sotto il profilo del vizio motivazionale (anche nei ristretti termini in cui esso assume rilevanza ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5) che sotto quello della violazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, alla luce della pacifica carenza di annotazioni nella cartella clinica.

Non può sfuggire, infatti, l’irriducibile antinomia esistente fra la constatazione della carenza delle annotazioni e l’affermazione della plausibilità dell’ipotesi che -ciononostante- la neonata fosse stata ben monitorata: si tratta, infatti, di una conclusione che è contraria alle effettive risultanze documentali e che viola il criterio secondo cui l’imperfetta compilazione della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente (anzichè per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile vulnus al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento.

Considerato che l’errore ora censurato attiene ad un passaggio centrale del percorso argomentativo della decisione impugnata, deve disporsi la cassazione della sentenza (con assorbimento dei profili non esaminati) e il rinvio alla Corte di Appello, per il nuovo esame della controversia alla luce dei principi sopra richiamati e delle discrasie evidenziate.

  1. La Corte di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

 

la Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa e rinvia, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2016.

ACMALMAL ACMALMALACHIAMA MED1

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2016.

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