ebbe errato perché ha liquidato il danno biologico con criteri diversi da quelli elaborati dal Tribunale di Milano, e generalmente applicati dai giudici di merito: criteri che, secondo la giurisprudenza di legittimità, devono invece essere necessariamente applicati, al fine di garantire la parità di trattamento a parità di danni.
Il c.d. ‘danno psicologico’ non è che una particolare ipotesi di lesione (permanente o transeunte) della salute psichica. In quanto tale, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado di invalidità permanente. Non si dirà, ad esempio, che Tizio ha una invalidità biologica del 25% ed un danno psichico del 10%, ma si dirà che Tizio ha postumi permanenti nella misura del 35%. La stessa espressione ‘danno psichico’, a ben vedere, non ha concettualmente alcuna ragion d’essere, a meno di non volere creare una categoria di danno per ogni distretto corporeo attinto dalle lesioni: e dunque danno ortopedico, danno craniofacciale, danno osteoarticolare, e via dicendo.
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato perché ha liquidato il danno biologico con criteri diversi da quelli elaborati dal Tribunale di Milano, e generalmente applicati dai giudici di merito: criteri che, secondo la giurisprudenza di legittimità, devono invece essere necessariamente applicati, al fine di garantire la parità di trattamento a parità di danni.
L’ipotesi più semplice è quella in cui il danno patito dalla vittima sia, al momento di costituzione in mora dell’impresa designata, inferiore al massimale, e resti tale anche al momento del pagamento.
In questo caso l’assicuratore del responsabile deve versare al danneggiato il medesimo importo a questi dovuti dall’assicurato.
Tuttavia il debito del responsabile verso la vittima è una obbligazione di valore, fa sorgere la mora ex re dal giorno dell’illecito (art. 1219, comma 2, n. 1, c.c.), e produce i c.d. interessi compensativi da calcolarsi secondo i criteri stabiliti da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480. Ora, l’assicuratore della r.c.a. deve tenere indenne la vittima di tutti i danni provocati dal responsabile: e dunque sia dei danni emergenti, sia del danno da ritardato adempimento.
Ne consegue che, quando il debito è inferiore al massimale sia al momento dell’illecito che al momento della solutio, la mora dell’assicuratore della r.c.a. produrrà i medesimi effetti della mora del responsabile: dunque l’assicuratore della r.c.a. sarà tenuto a pagare gli interessi (c.d. compensativi), ad un saggio scelto in via equitativa secondo le circostanze del caso, applicato su un capitale pari alla media (semisomma) tra il valore del credito risarcitorio espresso in moneta dell’epoca del fatto, e lo stesso importo espresso in moneta dell’epoca della liquidazione, ovvero – il risultato è analogo – applicato per il primo anno sul credito espresso in moneta dell’epoca del fatto, e poi per ogni anno successivo sul credito via via rivalutato (per tutti questi principi si veda la fondamentale decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480).
12.4.2. La seconda ipotesi è che l’importo del danno patito dalla vittima già al momento della costituzione in mora ecceda il massimale.
Quando il debito dell’assicuratore della r.c.a. eccede il massimale si applicano le regole sulla mora nelle obbligazioni pecuniarie: si è detto infatti che l’obbligazione dell’assicuratore della r.c.a. ha ad oggetto non il risarcimento del danno, ma l’adempimento del debito altrui. Essa è, dunque, una obbligazione di valuta e non di valore.
Ciò vuoi dire che l’assicuratore della r.c.a. sarà tenuto a pagare un capitale pari al valore nominale del massimale, ai sensi dell’art. 1277, comma 1, c.c..
Su tale importo però l’impresa debitrice dovrà corrispondere gli interessi legali moratori di cui all’art. 1224, comma 1, c.c., anche in eccedenza rispetto ai massimale.
Ove, poi, la vittima deduca e dimostri anche il maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, c.c., l’assicuratore della r.c.a. sarà tenuta al pagamento – in luogo degli interessi moratori – di quest’ultimo danno, che potrà ovviamente consistere anche nella svalutazione monetaria, se il saggio di questa sia stato superiore a quello degli interessi legali e la vittima dimostri, anche con presunzioni semplici, che un tempestivo adempimento le avrebbe consentito di investire il denaro in attività tali che l’avrebbero preservata dagli effetti dell’inflazione.
12.4.3. Può accadere infine, che il credito risarcitorio della vittima, inferiore al massimale all’epoca di costituzione in mora dell’assicuratore, con l’andare del tempo lieviti sino ad eccedere il massimale al momento della liquidazione: vuoi a causa della svalutazione monetaria, vuoi per qualsiasi altra ragione.
Anche in questo caso l’assicuratore è ovviamente tenuto al pagamento degli interessi di mora ex art. 1224, comma 1, c.c., sull’importo nominale del massimale, salvo il maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c..
La particolarità di questa terza ipotesi sta nel fatto che il ‘maggior danno’ di cui all’art. 1224, comma 2, c.c., potrebbe in teoria consistere anche nella differenza tra il valore del danno all’epoca della mora ed il valore del danno all’epoca del pagamento, ove la vittima deduca e dimostri che, in caso di tempestivo adempimento, ella avrebbe potuto ottenere un ristoro integrale, precluso invece a causa del ritardato adempimento dell’assicuratore.
In questo caso, pertanto, la vittima ottiene un ristoro integrale del danno sia in conto capitale, sia in conto interessi: non già perché venga meno il limite del massimale, ma perché l’eccedenza del danno rispetto al massimale in conto capitale viene ascritto all’assicuratore a titolo di ‘maggior danno’ ex art. 1224, comma 2, c.c..
12.5. Il giudice del rinvio, pertanto, dovrà provvedere a rideterminare l’obbligazione dell’impresa assicuratrice del responsabile, tenendo conto del passaggio in giudicato del capo di sentenza che ha accertato la mala gestio della Unipol SAI, ed alla luce dei principi che precedono, e quindi:
(a) determinerà l’importo nominale del massimale all’epoca del sinistro;
(b) stabilirà se alla data del sinistro il danno patito dagli attori era superiore od inferiore al massimale;
(c) calcolerà gli interessi legali sull’importo sub (a) a far data dallo spirare dello spatium deliberandi di cui all’art. 22 l. 990/69, salvo che sia stato chiesto e dimostrato dai creditori il maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c., da determinare come indicato supra, nei pp. 12.4 e ss.;
(d) imputerà al risultato finale gli acconti pagati dalla Unipol SAI, secondo i criteri stabiliti dall’art. 1194 c.c. (prima agli interessi maturati alla data di pagamento, poi al capitale);
(e) in caso di incapienza, ripartirà il massimale tra i tre danneggiati col criterio proporzionale imposto dall’art. 27 I. 24.12.1969 n. 990 (applicabile ratione temporis), e quindi stabilirà il capitale spettante a ciascun danneggiato moltiplicando il massimale per il danno del singolo, e dividendo il risultato per il danno complessivo.
- Il quinto ed il sesto motivo del ricorso Unipol SAI.
13.1. Anche il quinto ed il sesto motivo del ricorso incidentale della Unipol SAI possono essere esaminati congiuntamente.
Con essi si lamenta la violazione di legge, ai sensi all’art. 360, n. 3, c.p.c.;
ed il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espone la Unipol SAI, al riguardo, che la sentenza d’appello sarebbe erronea nella parte in cui, confermando integralmente quella di primo grado, ha liquidato alla vittima sia il danno biologico, sia una ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno alla vita di relazione, estetico, sessuale, esistenziale.
13.2. Ambedue i motivi sono fondati.
Il nostro ordinamento non conosce che una distinzione in materia di danni aquiliani: quella tra danni patrimoniali e non patrimoniali.
Ciascuna di queste categorie giuridiche è unitaria.
Così come, sotto il profilo giuridico, non vi è alcuna differenza tra il danno patrimoniale consistito nella perdita d’un credito e quello consistito nella perdita d’un raccolto, allo stesso modo sotto il profilo giuridico non vi è alcuna differenza ontologica – come si usa dire – tra una lesione della salute ed una dell’onore.
Ovviamente, tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale possono assumere infinite forme, perché possono incidere su infiniti beni od interessi.
Il danno non patrimoniale pertanto, che è categoria unitaria, si differenzia nei criteri di accertamento e di liquidazione, a seconda dell’interesse concreto su cui vada a cadere.
La proclamata natura unitaria del pregiudizio tuttavia non può restare un mero ossequio formale alla dogmatica: e dunque non è consentito moltiplicare le voci di danno chiamando con nomi diversi pregiudizi identici.
Tutti questi principi sono stati affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008).
13.2. Applichiamo ora i suddetti principi alla materia del danno alla persona derivante da una lesione permanente della salute.
Nella liquidazione di tale pregiudizio, occorre in astratto tenere conto:
(a) dell’invalidità permanente causata dalle lesioni (danno biologico permanente), la cui liquidazione comprende necessariamente tutti i pregiudizi normalmente derivanti da quei tipo di postumi;
(b) delle sofferenze che, pur traendo occasione dalle lesioni, non hanno un fondamento clinico (la medicina parla, al riguardo, di ‘dolore non avente base nocicettiva’): si tratterà, ad esempio, della vergogna, della prostrazione, del revanchismo, della tristezza, della disperazione.
Per ‘tenere conto’ di tutte queste circostanze il giudice di merito deve:
(-) liquidare il danno alla salute applicando un criterio standard ed uguale per tutti, che consenta di garantire la parità di trattamento a parità di danno;
(-) variare adeguatamente, in più od in meno, il valore risultante dall’applicazione del criterio standard, al fine di adeguare il risarcimento alle specificità del caso concreto (c.d. ‘personalizzazione del risarcimento’).
L’una e l’altra di tali operazioni vanno compiute senza automatismi risarcitori, juxta alligata et probata, e soprattutto sulla base di adeguata motivazione che spieghi:
– quali pregiudizi sono stati accertati;
– con quali criteri sono stati monetizzati;
– con quali criteri il risarcimento è stato personalizzato.
13.3. Questi criteri non sono stati rispettati dalla Corte d’appello di Bologna. Infatti il Tribunale di Forlì, giudice di primo grado, nella aestimatio del danno patito da B.F. aveva così provveduto:
(a) liquidò il danno biologico;
(b) poi liquidò il danno morale;
(c) poi aumentò l’uno e l’altro per tenere conto delle specificità del caso concreto;
(d) quindi liquidò una ulteriore somma per tenere conto del danno alla vita di relazione, sessuale, estetico ed esistenziale.
13.4. La Corte d’appello ha ritenuto corretta questa liquidazione, così argomentando:
(a) B.F. , di anni 26 all’epoca del sinistro, riportò in conseguenza di esso una paraplegia completa, che lo rese invalido al 95%;
(b) il Tribunale pertanto correttamente ha liquidato questo danno opportunamente aumentando il criterio standard di risarcimento, ‘prendendo in considerazione non solo le conseguenze lesiv[e] di carattere clinico ma anche quelle di carattere psicologico, estetico, relazionale, riferibili tutte al danno alla salute (…)’. In questa liquidazione il Tribunale avrebbe, secondo la Corte d’appello, dato atto di aver considerato ‘la gravità della situazione (…), il danno estetico, la completa compromissione della sfera sessuale, relazionale ed affettiva del soggetto’ (così la sentenza, pp. 22-23).
13.5. La motivazione appena trascritta è erronea in diritto, ed insufficiente sul piano dell’argomentazione.
13.6. È erronea in diritto perché ha liquidato non due, ma più volte pregiudizi identici, chiamandoli con nomi diversi.
In rerum natura, il danno alla salute non consiste in un numero percentuale. Esso consiste invece nel complesso delle privazioni che la vittima dovrà subire nella vita quotidiana, lavorativa e sociale per effetto della menomazione. Così, ad esempio, lo zoppicare è un danno biologico; la perduta possibilità di curare da sé la propria persona è un danno biologico; lo sfregio permanente del volto è un danno biologico.
È solo per convenzione, e per garantire un minimo di obiettività nella liquidazione del danno, che questi pregiudizi vengono quantificati in misura percentuale, ipotizzando per fictio iuris che sia pari a ‘100’ la validità d’una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età della vittima.
Ciò vuoi dire che la somma di denaro accordata alla vittima di lesioni personali a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente è necessariamente intesa a ristorare la perdita delle attività che quella menomazione necessariamente ha comportato per la vittima, ed avrebbe comportato comunque quale che fosse stata la persona che l’avesse subita. Così, per fare un esempio: a chi riporti uno sfregio permanente del viso corrispondente ad una invalidità permanente del 10%, la liquidazione del danno biologico permanente non lascia spazio alcuno per la successiva liquidazione di un preteso ‘danno estetico’: in questo caso il danno biologico è il danno estetico, e la liquidazione dell’invalidità permanente ristorerà le conseguenze fisiche ordinariamente derivanti da quel tipo di postumi.
Allo stesso modo, alla vittima di una frattura d’anca guarita con coxartrosi non sarebbe possibile liquidare una somma di denaro a titolo di ristoro del danno biologico, ed una ulteriore somma di denaro a titolo di ristoro della ‘perduta possibilità di camminare’. Anche in questo caso la perduta possibilità di camminare è essa stessa il danno biologico, e ne costituisce – per così dire – il contenuto.
Nel caso di specie il Tribunale (e la Corte d’appello che ne ha condiviso l’operato), dopo aver accertato la sussistenza d’una invalidità permanente del 95%, ed avere già solo per questo fatto personalizzato il risarcimento del danno biologico elevandone l’ammontare rispetto alla misura standard, ha liquidato alla vittima una ulteriore somma dichiarando che con essa intendeva risarcire:
– il danno psicologico;
– il danno estetico;
– il danno relazionale;
– la compromissione della sfera sessuale;
– la compromissione della sfera affettiva.
Nessuna delle suddette voci di danno, tuttavia, è in teoria esclusa dalle conseguenze d’una lesione della salute.
È tuttavia pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che l’assicuratore della r.c.a., ove ritardi colposamente il pagamento della somma dovuta a titolo di risarcimento al terzo danneggiato, può essere tenuto alla corresponsione degli interessi sul massimale ed, eventualmente, del maggior danno ex art. 1224, comma secondo, cod. civ. (che può consistere anche nella svalutazione monetaria), ma nulla di più: deve,, in particolare, escludersi che l’assicuratore possa essere condannato, a causa di mala gestio, al pagamento in conto capitale di una somma eccedente il massimale, (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 19919 del 18/07/2008, Rv. 604904).
V’è solo da aggiungere che al presente giudizio non si applica la norma inserita nell’art. 83 c.p.c. dall’art. 45, comma 9, lettera (a), della l. 18 giugno 2009, n. 69, che consente il rilascio della procura anche al margine di atti diversi da quelli sopra indicati.
Infatti, per espressa previsione dell’art. 58, comma 1, della legge 69/09, “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore’, avvenuta il 4 luglio 2009.
Essendo il presente giudizio iniziato in primo grado nel 1992, ad esso non può applicarsi la nuova disposizione, come già ritenuto da questa Corte con le decisioni pronunciate – ex aliis – da Sez. 3, Sentenza n. 12831 del 6/6/2014; Sez. 5, Ordinanza n. 7241 del 26/03/2010, Rv. 612212).
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – SENTENZA 7 novembre 2014, n.23778 – Pres. Russo – est. Rossetti |
Motivi della decisione
- Questioni preliminari.
1.1. Con atti datati 27.9.2012 e depositati nella Cancelleria di questa Corte, denominato ‘comparsa di costituzione di nuovo difensore’, sia B.F. , sia B.V. e V.G. , hanno dichiarato di volere nominare nuovo difensore l’avv. Fabrizio Gizzi, in sostituzione dell’avv. Guido Pettino.
I suddetti atti recano al margine una procura alle liti a favore del suddetto avv. Fabrizio Gizzi, con sottoscrizione autenticata dall’avv. Carlo Zauli nel caso dei coniugi B. -V. , e dall’avv. Menotto Zauli nel caso di B.F. .
1,2. I suddetti atti sono nulli.
Nel giudizio di cassazione, infatti, la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poiché l’art. 83, terzo comma, cod. proc. civ., nell’elencare gli atti in margine o in calce ai quali può essere apposta la procura speciale, indica, con riferimento al giudizio di cassazione, soltanto quelli suindicati. Pertanto, se la procura non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal secondo comma del citato articolo, cioè con un atto pubblico o una scrittura privata autenticata che facciano riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata.
A tale regola non si fa eccezione nemmeno nel caso in cui sopraggiunga la sostituzione del difensore (Sez. 3, Sentenza n. 23816 del 24/11/2010, Rv. 615160).
V’è solo da aggiungere che al presente giudizio non si applica la norma inserita nell’art. 83 c.p.c. dall’art. 45, comma 9, lettera (a), della l. 18 giugno 2009, n. 69, che consente il rilascio della procura anche al margine di atti diversi da quelli sopra indicati.
Infatti, per espressa previsione dell’art. 58, comma 1, della legge 69/09, “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore’, avvenuta il 4 luglio 2009.
Essendo il presente giudizio iniziato in primo grado nel 1992, ad esso non può applicarsi la nuova disposizione, come già ritenuto da questa Corte con le decisioni pronunciate – ex aliis – da Sez. 3, Sentenza n. 12831 del 6/6/2014; Sez. 5, Ordinanza n. 7241 del 26/03/2010, Rv. 612212).
- I motivi primo, quarto, settimo ed ottavo del ricorso di B.F. .
2.1. I motivi primo, quarto, settimo ed ottavo del ricorso principale proposto da B.F. possono essere esaminati congiuntamente, perché pongono questioni analoghe.
Con tutti e quattro i suddetti motivi il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.. Lamenta, in particolare, l’omessa pronuncia sulla propria domanda di risarcimento:
(a) delle spese mediche future di riabilitazione e cura;
(b) della spesa ‘per adeguamento automezzi’.
2.2. Tutti e quattro i motivi sono infondati.
Il giudice di primo grado espressamente prese in esame e liquidò le spese di cura e riabilitazione, anche future. La Corte d’appello ha ritenuto tale liquidazione congrua: e dunque una pronuncia vi è stata. Stabilire, poi, se essa sia stata anche corretta e motivata era questione da prospettare invocando o la violazione di legge, ex art. 360 n. 3, c.p.c.; ovvero il vizio di motivazione, ex art. 360, n. 5, c.p.c..
2.3. Quanto alla doglianza secondo cui la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno rappresentato dalle spese di ‘adeguamento automezzi’ alle esigenze dell’attore, è anch’essa infondata.
È vero, infatti, che in effetti la sentenza impugnata non si occupa di questa voce di danno, ma è altresì vero che l’allegazione dei fatti costitutivi di esso è del tutto mancata nell’atto di citazione introduttivo del primo grado di giudizio, come correttamente rilevato in udienza dal Procuratore Generale ed eccepito da tutti i controricorrenti.
- Il secondo motivo del ricorso di B.F. .
3.1. Col secondo motivo di ricorso di B.F. lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.. Si assumono violati gli artt. 1223, 2056, 2057 e 2059 c.c..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato perché ha liquidato il danno biologico con criteri diversi da quelli elaborati dal Tribunale di Milano, e generalmente applicati dai giudici di merito: criteri che, secondo la giurisprudenza di legittimità, devono invece essere necessariamente applicati, al fine di garantire la parità di trattamento a parità di danni.
3.2. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente è nel vero allorché ricorda che le tabelle uniformi adottate dal Tribunale di Milano sono state indicate da questa Corte come il parametro equitativo preferibile, in linea generale, per la liquidazione del danno alla salute ove la legge non disponga altrimenti.
Tale principio è stato affermato per la prima volta dalla sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, Rv. 618048, e più volte ribadito in seguito: da ultimo, da Sez. 3, Sentenza n. 5243 del 06/03/2014, Rv. 630077.
3.3. Nella ricordata sentenza 12408/11, cit., tuttavia, questa Corte si è posta il problema della ricorribilità per cassazione di decisioni di merito che, pur liquidando il danno biologico con criteri diversi da quelli appena indicati, siano state però depositate prima della suddetta sentenza 12408/11.
A tale problema si è dato risposta stabilendo che la ricorribilità per cassazione d’una sentenza pronunciata prima del 7.6.2011 (data di pubblicazione della sentenza 12408/11), la quale non abbia utilizzato le tabelle milanesi per la liquidazione del danno biologico, è subordinata a due condizioni:
(a) che la parte interessata abbia espressamente invocato, nel grado di appello, l’applicazione delle c.d. ‘Tabelle di Milano’;
(b) che copia delle suddette tabelle sia stata depositata al più tardi in appello (così la ricordata sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, Rv. 618048, § 3.2.6 dei ‘Motivi della decisione’).
Nel nostro caso, la prima di tali condizioni non ricorre.
Il ricorrente, infatti, il quale ai fini del rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, aveva l’onere di indicare in che termini ed in quale atto avesse invocato nei gradi di merito l’applicazione delle tabelle milanesi, ha adempiuto tale onere riferendo di avere dedotto, nell’atto d’appello, quanto segue: ‘si ritiene congrua [a titolo di risarcimento del danno alla salute] l’ulteriore somma di ulteriori 150.000 Euro’.
Tale formula, tuttavia, in nessun modo può ritenersi manifestazione inequivoca della volontà di invocare l’applicazione, da parte del giudice di merito, del criterio di liquidazione del danno elaborato dal Tribunale di Milano.
- Il terzo, quinto e sesto motivo del ricorso di B.F. .
4.1. Con il terzo, il quinto ed il sesto motivo del proprio ricorso B.F. allega che la sentenza avrebbe violato la legge, nella parte in cui ha determinato la misura del danno c.d. ‘morale’, ritenuta dal ricorrente sottostimata rispetto alla reale entità del pregiudizio sofferto; e sarebbe comunque sorretta da una motivazione non sufficiente, nella parte in cui ha esposto i criteri adottati per la liquidazione del danno estetico, sessuale, alla vita di relazione ed esistenziale.
4.2. Tutti e tre questi motivi sono logicamente subordinati, ai sensi dell’art. 276, comma 2, c.p.c., all’esame del quinto e del sesto motivo del ricorso della Unipol SAI s.p.a., nella parte in cui lamenta che la Corte d’appello avrebbe duplicato il risarcimento accordato alla vittima, liquidando due volte il medesimo pregiudizio, chiamato però con nomi diversi.
E poiché, per quanto si dirà ai pp. 13 e ss., il ricorso incidentale della Unipol SAI in parte qua deve essere accolto, l’esame del terzo, quinto e sesto motivo del ricorso principale resta assorbito.
- Il nono motivo del ricorso principale.
5.1. Col nono motivo del proprio ricorso B.F. sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c..
Espone, nella sostanza, che la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sulla richiesta di condanna dei convenuti al risarcimento del danno da mora.
5.2. Il motivo è manifestamente infondato.
Il Tribunale condannò i debitori al pagamento di rivalutazione ed interessi, e la Corte d’appello ha confermato la sentenza.
La Corte dunque si è pronunciata sugli effetti del colposo ritardo nell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria.
- Il decimo motivo del ricorso principale.
6.1. Col decimo motivo del proprio ricorso B.F. sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.).
Espone, al riguardo, di avere depositato in grado di appello vari documenti attestanti molteplici ricoveri dell’attore avvenuti tra ottobre 2000 e maggio 2004.
In conseguenza di tali depositi, la Corte d’appello avrebbe dovuto disporre una nuova consulenza tecnica d’ufficio. Non avendolo fatto, essa è pervenuta ad una sottostima della reale entità del danno.
6.2. Il motivo è inammissibile.
Nella parte in cui lamenta il mancato esercizio dei poteri officiosi istruttori da parte della Corte d’appello, esso si duole infatti di una scelta riservata a giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità.
Nella parte, invece, in cui lamenta l’omessa valutazione di documenti ritenuti decisivi, il ricorso è invece inammissibile per più motivi.
In primo luogo, perché il ricorrente lamenta un aggravamento delle condizioni del proprio assistito avvenuto successivamente al giudizio di primo grado, ma non indica quando ed in che termini abbia sollevato in appello la relativa questione, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.
In secondo luogo, il motivo in esame è inammissibile perché il ricorrente non illustra a quale diversa conseguenza la Corte d’appello sarebbe dovuta pervenire, ove avesse preso in esame i documenti che si assumono trascurati.
Quei documenti, infatti, per come descritti nel ricorso non sono altro che cartelle cliniche relative a vari ricoveri.
Il ricorrente ha lamentato che, se essi fossero stati esaminati, il giudice d’appello avrebbe potuto accertare l’esistenza d’un danno più grave di quello liquidato dal giudice di primo grado. E tuttavia la mera circostanza che una persona sia ricoverata non è di per sé idonea a ritenere che la causa o la conseguenza del ricovero sia stata un aggravamento della invalidità di cui il paziente era portatore.
Aggiungasi che la Corte d’appello ha condiviso la valutazione del giudice di primo grado, con la quale si accertò che l’odierno ricorrente patì, in conseguenza del sinistro, una invalidità permanente del 95%: a fronte di una patologia così gravemente invalidante, pertanto, non era sufficiente dedurre di avere prospettato al giudice d’appello che il danneggiato si era dovuto più volte ricoverare (ricoveri sempre possibili per una persona dalla salute così gravemente compromessa, senza che ciò necessariamente costituisca prova di un ulteriore aggravamento), ma sarebbe stato necessario indicare quali ulteriori postumi permanenti erano comparsi dopo lo svolgimento della consulenza tecnica in primo grado.
- I motivi da 1 a 5 del ricorso incidentale B. -V. .
7.1. I primi cinque motivi del ricorso incidentale di B.V. e V.G. possono essere esaminati congiuntamente: tutti, infatti, hanno ad oggetto la parte della decisione d’appello con la quale si è statuito sull’esistenza e sull’entità dei danni non patrimoniali patiti dai genitori di B.F. , in conseguenza della grave invalidità da quest’ultimo sofferta.
In particolare:
(a) col primo sì lamenta la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., per non avere il giudice di merito adeguatamente valutato, nella liquidazione del danno non patrimoniale, il forzoso mutamento delle abitudini di vita dei coniugi B. -V. ;
(b) col secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., per non avere il giudice di merito adeguatamente ‘personalizzato’ il risarcimento del danno alla salute liquidato a V.G. ;
(c) col terzo e col quarto motivo si lamenta l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione con la quale è stato liquidato il danno morale a B.V. ;
(d) col quinto motivo si lamenta la violazioni degli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., per avere il giudice di merito liquidato il risarcimento del danno morale spettante a B.V. in misura sottostimata.
7.2. Tutti e cinque i motivi sono inammissibili.
Essi infatti, pur formalmente invocando la violazione di legge o il vizio di motivazione, nella sostanza pretendono da questa Corte una nuova valutazione delle prove, e sollecitano un giudizio di fatto diverso da quello cui pervenne il giudice di merito: attività che come noto esula dai poteri concessi alla Corte di cassazione.
- Il sesto ed il settimo motivo del ricorso incidentale B. -V. .
8.1. Il sesto ed il settimo motivo del ricorso incidentale proposto dai coniugi B. -V. possono essere esaminati congiuntamente.
Con essi si allega che la sentenza impugnata sia affetta contemporaneamente sia da nullità per omessa pronuncia, sia da insufficiente motivazione, nella parte in cui non ha provveduto sulla domanda di risarcimento formulata da V.G. , ed avente ad oggetto il pregiudizio patrimoniale consistito nella forzosa rinuncia al proprio lavoro per potere accudire il figlio.
8.2. Ambedue i motivi sono infondati.
Il vizio di nullità per omessa pronuncia non sussiste, in quanto la Corte d’appello ha provveduto sulla domanda in esame a pag. 27 della sentenza.
Nemmeno sussiste il vizio di motivazione.
Com’è noto, il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione,
denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.
Non basta, dunque, per integrare il suddetto vizio, che la motivazione adottata sia sintetica o possa in astratto non essere l’unica possibile, ma è necessario che essa sia logicamente insostenibile.
Aggiungasi che al fine di adempiere all’obbligo della motivazione il giudice del merito non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, ma è sufficiente che dopo avere vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Nel caso di specie, risulta dagli atti che il Tribunale liquidò in primo grado a B.F. la somma di Euro 181.902,24 per ‘spese di assistenza’.
Ora, un danno patrimoniale consistente nella necessità di dovere retribuire personale medico od infermieristico per l’assistenza ad una persona invalida non può ovviamente essere patito sia dall’assistito (chi riceve assistenza) che dall’assistente (chi presta assistenza).
La liquidazione alla vittima primaria d’una somma di denaro per spese di assistenza futura, pertanto, rende teoricamente inconcepibile la necessità di assistenza da parte dei familiari, e di conseguenza l’esistenza d’un danno patrimoniale da forzosa rinuncia al lavoro a carico di questi ultimi.
A meno che, ovviamente, non si deduca e dimostri, nelle forme e nei tempi debiti, che per ragioni particolari nel caso di specie l’assistenza materna era ineliminabile e non surrogabile da terzi: e tuttavia in questo caso il risarcimento del danno spetterebbe all’assistente ma non all’assistito, a meno che non si deduca e dimostri la inverosimile circostanza che questi retribuisca un familiare per l’assistenza ricevuta.
La motivazione della sentenza impugnata, pertanto, non è affatto illogica né carente, perché nella sostanza ha escluso che il danno patrimoniale per spese di assistenza fosse liquidato due volte: una alla vittima primaria, sotto forma di danno emergente futuro (le spese che dovrà sostenere per essere assistito), e l’altra alla madre della vittima, sotto forma di lucro cessante (la perdita del reddito lavorativo per potere dedicarsi all’assistenza del figlio).
- Il ricorso incidentale Unipol SAI. Questioni Preliminari.
9.1. Sia B.F. , sia i coniugi B. -V. , hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso incidentale proposto dalla Unipol SAI, per due ragioni generali:
(a) l’omessa allegazione al ricorso di copia autentica della sentenza impugnata;
(b) la nullità della procura, perché non riferibile con certezza al presente giudizio.
9.2. Ambedue le eccezioni sono manifestamente infondate.
Quanto alla prima, basterà ricordare il dettato dell’art. 371, comma 5, c.p.c., a mente del quale ‘se il ricorrente principale deposita la copia della sentenza o della decisione impugnata, non è necessario che la depositi anche il ricorrente per incidente’.
Quanto alla seconda, essa rasenta la temerarietà e forse l’oltrepassa: a pag. 50 del ricorso incidentale proposto dalla Unipol SAI si legge infatti che quest’ultima società conferisce agli avvocati Tommaso Spinelli Giordano e Riccardo Mollame la procura ad essere difesa nel giudizio ‘promosso con ricorso notificato il 22.12.2008, a richiesta dell’avv. Guido Pottino, avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 1325/08 del 24.6.2008’.
Indubitabile, quindi, è la riferibilità della procura alla vicenda che ci occupa.
- Il primo motivo del ricorso Unipol SAI.
10.1. Col primo motivo di ricorso la Unipol SAI lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. Si assume violato l’art. 343 c.p.c..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto tardiva l’eccezione di incapienza del massimale, sollevata dalla Unipol SAI nella comparsa di costituzione e risposta in appello.
10.2. Prima di esaminare il motivo nel merito deve rilevarsi come l’erronea qualificazione come tardive di domande od eccezioni tempestive, o viceversa, costituisce a rigore un error in procedendo censurabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., non un error in iudicando denunciabile ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c..
Tuttavia nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. ‘vizio di sussunzione’ (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può per questa sola ragione essere dichiarato inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole.
Depongono in tal senso sia il generale principio di validità degli atti processuali idonei al conseguimento dello scopo (art. 156 c.p.c.); sia il generale principio jura novit curia, in virtù del quale è compito del giudice individuare la norma applicabile alla fattispecie (anche processuale), a nulla rilevando l’eventuale erronea indicazione compiuta dalla parte; sia, soprattutto, i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali – componendo i precedenti contrasti – hanno stabilito che l’erronea indicazione del motivo di ricorso resta ininfluente, quando la motivazione del ricorso contenga comunque un ‘inequivoco riferimento’ al vizio di cui la parte intende effettivamente dolersi (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).
Nel caso di specie, nonostante il non pertinente richiamo della Unipol SAI al vizio di violazione di legge, ed all’art. 343 c.p.c., l’illustrazione del motivo è inequivoca nel lasciar intendere che ciò di cui ci si duole al cospetto di questa Corte è la sanzione di tardività di una eccezione in senso lato (fatto modificativo della pretesa attorea): e dunque un tipico error in procedendo.
10.3. Nel merito, il motivo è fondato.
Il presente giudizio ha avuto inizio con atto notificato il 28.4.1992, e quindi è soggetto alla disciplina degli artt. 343 e 345, risultante dal testo precedente le modifiche apportate dalla l. 26.11.1990 n. 353, applicabile solo ai giudizi iniziati a decorrere dal 30.4.1995 (art. 90, comma 1, l. 353/90).
In quel sistema processuale, non era inibito alle parti sollevare in appello eccezioni nuove (art. 345, comma 2, nel testo previgente).
L’eccezione di cui si discorre, pertanto, doveva ritenersi tempestiva.
- Il secondo motivo del ricorso Unipol SAI.
11.1. Col secondo motivo del proprio ricorso la Unipol SAI sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una di violazione di legge, ai sensi all’art. 360, n. 3, c.p.c. (si assumono violati gli artt. 112 e 345 c.p.c.); in subordine, soggiunge che la sentenza è affetta quanto meno da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Nell’illustrazione dei motivo, la ricorrente denuncia in realtà tre diversi vizi della sentenza impugnata:
(a) avere condannato la Unipol SAI a risarcire i danneggiati anche oltre il limite del massimale assicurato, senza che questi avessero allegato i fatti materiali concretanti una responsabilità ultramasstmale (e cioè una mora colpevole) della Unipol SAI, ovvero (nel caso dei coniugi B. -V. ) avessero mai formulato la relativa domanda;
(b) avere ritenuto sussistente una mora colpevole dell’assicuratore (c.d. mala gestio impropria) in assenza di colpa;
(c) avere calcolato il limite del massimale sommando i singoli massimali degli assicuratori dei due corresponsabili;
(d) in ogni caso, non avere motivato sulla sussistenza della mala gestio.
11.1. Il motivo è in parte inammissibile, ed in parte infondato.
È inammissibile nella parte in cui lamenta l’insussistenza della mora colpevole a carico della Unipol SAI, in quanto prospetta in tal modo una questione di merito.
È, altresì, inammissibile, nella parte in cui prospetta il vizio indicato sub (c) al p. che precede, in quanto la relativa doglianza non trova riscontro nel quesito di diritto formulato a pag. 41 del ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis al presente giudizio).
Nella restante parte il motivo è infondato.
È principio ormai divenuto unanime, nella giurisprudenza di questa Corte, che in tema di assicurazione della r.c.a. “la domanda di mala gestio (impropria) da parte del danneggiato non deve essere formulata
espressamente’.
Questo il ragionamento che sorregge il principio:
(a) il limite del massimale è invalicabile quanto al capitale, non già quanto agli interessi od al maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c.;
(b) se l’assicuratore della r.c.a. ritarda colpevolmente l’adempimento della propria obbligazione nei confronti del danneggiato, egli può essere condannato quindi solo agli interessi sul massimale, ovvero al maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c. (che può consistere anche nella rivalutazione del massimale, se nel tempo della mora il saggio di inflazione monetaria ha ecceduto quello degli interessi);
(c) pertanto, “per ottenere la corresponsione degli interessi e rivalutazione, oltre il limite del massimale, non è necessario (…) che il danneggiato proponga già in primo grado (per non incorrere in preclusioni) nell’ambito dell’azione diretta anche una domanda di responsabilità dell’assicuratore per colpevole ritardo, ma è sufficiente che egli, dopo aver dato atto di aver costituito in mora l’assicuratore, richieda anche gli interessi ed il maggior danno da svalutazione ex art. 1224 c.c.’ (così Sez. 3, Sentenza n. 14248 del 28/07/2004, Rv. 575689, in motivazione; nello stesso senso si veda anche la sentenza ‘capostipite’ dell’orientamento in esame, ovvero Sez. 3, Sentenza n. 10725 del 08/07/2003, Rv. 569258).
Nel caso di specie, sia B.F. che i suoi genitori, nel formulare le rispettive domande di risarcimento, hanno chiesto la condanna dei convenuti al risarcimento del danno ‘oltre interessi e rivalutazione’: e tanto basta, alla stregua dei principi appena riassunti, per ritenere validamente formulata una domanda di condanna ultramassimale quanto agli effetti della mora.
11.2. Infine, per quanto riguarda il denunciato vizio di motivazione, esso non sussiste, perché la ratio decidendi si ricava implicitamente dai fatti per come narrati nella sentenza impugnata: a fronte di un danno gravissimo, ed in un contesto in cui proprio la mancanza di prove certe in ordine alla responsabilità, lungi dall’escludere la responsabilità dell’assicurato Unipol SAI, doveva far scattare l’applicazione dell’art. 2054, comma 2, c.c., e quindi la presunzione di colpa dell’assicurato stesso, la società oggi ricorrente attese tredici mesi, in luogo dei sessanta giorni accordatile dalla legge, per adempiere una prima tranche della propria obbligazione, e solo per ordine del giudice; ed altri 21 mesi prima di pagare una seconda tranche (e quindi quasi tre anni dal sinistro: un’attesa del tutto incoerente col modello di diligenza imposto all’assicuratore dall’art. 1176, comma 2, c.c.).
- Il terzo ed il quarto motivo del ricorso Unipol SAI.
12.1. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso incidentale della Unipol SAI possono essere esaminati congiuntamente.
12.2. Col terzo motivo del proprio ricorso la Unipol SAI sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c..
Espone, al riguardo, di essere stata condannata al risarcimento del danno senza limite alcuno, mentre la domanda si sarebbe dovuta contenere – anche nel caso di mala gestio – entro il limite degli interessi o della rivalutazione. Soggiunge che la relativa doglianza, proposta come motivo d’appello, non è stata esaminata dalla Corte d’appello di Bologna.
12.2. Col quarto motivo di ricorso la Unipol SAI sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.).
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello di Bologna ha ritenuto che la Unipol SAI potesse essere condannata a risarcire l’intero danno patito dai tre danneggiati, poiché tale danno era comunque inferiore al cumulo dei massimali garantiti dagli assicuratori dei due corresponsabili: sicché non essendovi eccedenza di danno rispetto a tale sommatoria, la Unipol SAI potesse essere condannata per l’intero.
12.2. I due motivi sono fondati.
Per anteriorità logica ex art. 276, comma 2, c.p.c., va esaminato per primo il quarto motivo del ricorso incidentale: è infatti evidente che solo nel caso a in cui il danno risarcibile ecceda il massimale assicurato diventa necessario stabilire se esistano e quali siano i limiti dell’obbligazione dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti della vittima d’un sinistro stradale.
L’assicuratore della r.c.a. è debitore nei confronti della persona danneggiata dall’assicurato di una obbligazione scaturente direttamente dalla legge: all’epoca dei fatti, dall’art. 18 l. 24.12.1969 n. 990; ed oggi dall’art. 144 cod. ass..
Questa obbligazione di fonte legale nasce limitata: è la stessa legge, infatti, che ne fissa l’importo massimo in misura pari al massimale minimo previsto dalla legge o, se superiore, dalla polizza.
12.3. Il limite del massimale è invalicabile, salvo due casi: per le spese di soccombenza o per le conseguenze della mora.
Queste due deroghe si spiegano con la considerazione che l’assicuratore della r.c.a., nell’indennizzare la vittima, non risponde d’un fatto proprio, ma d’un fatto altrui: e proprio per questo la sua obbligazione è limitata.
Ma quando, per contro, l’assicuratore della r.c.a. resti soccombente nel giudizio contro di lui promosso dalla vittima, ovvero ritardi colposamente l’adempimento della propria obbligazione, tiene due condotte lato sensu illegittime, delle cui conseguenze egli dovrà rispondere per l’intero, perché si tratta di conseguenze del fatto proprio, non del fatto altrui.
Al di fuori di queste due ipotesi, il limite del massimale è invalicabile, anche nel caso di responsabilità solidale dell’assicuratore con altri corresponsabili. Ciò per l’interpretazione letterale e per quella finalistica. Dal punto di vista letterale, gli artt. 9 e art. 18, comma 2, l. 990/69 (corrispondenti agli artt. 128 e 144 cod. ass. oggi vigente) fanno espresso riferimento al massimale ‘del contratto’, senza dunque consentire alcuna possibilità che la misura di esso possa lievitare a causa della presenza di corresponsabili.
Dal punto di vista dell’interpretazione finalistica, nell’assicurazione della r.c. il massimale svolge la funzione cui assolve il ‘valore assicurato’ nell’assicurazione danni, della quale la prima è una sottospecie. Ne consegue che la certezza della misura del massimale e della sua invalicabilità è elemento indispensabile all’assicuratore per la determinazione dei premi e delle riserve, in ossequio al generale precetto di ‘sana e prudente gestione’ che, previsto dagli artt. 3, 5 e 183 cod. ass., costituisce l’asse portante della disciplina dell’impresa assicurativa.
Pertanto, a ritenere – come ha fatto la Corte d’appello di Bologna – che nel caso di sinistro concausato da più assicurati il massimale vada determinato sommando quello previsto dalle polizze di ciascun corresponsabile, si perverrebbe ad un risultato del tutto incoerente col sistema legale, ovvero impedire all’assicuratore qualsiasi seria previsione sull’andamento della sinistrosità e sulle riserve da accantonare. Riserve che, è bene ricordare, costituiscono una garanzia per la massa degli assicurati, e non un patrimonio dell’assicuratore.
12.4. La statuizione di cui a pag. 21 della sentenza impugnata deve dunque essere dichiarata erronea, in applicazione del seguente principio di diritto:
Per determinare se il danno patito dalla vittima d’un sinistro stradale sia inferiore o superiore al massimale assicurato, al fine di determinare le conseguenze della c.d. mala gestio impropria, occorre avere riguardo al solo massimale pattuito nella polizza, senza che rilevi resistenza di altri coobbligati ed il massimale dei rispettivi assicuratori della r.c.a..
12.4. Fondato è, altresì, il terzo motivo di ricorso.
La Corte d’appello, come accennato, ha confermato la sentenza di primo grado, la quale a sua volta aveva condannato la Unipol SAI al risarcimento integrale del danno, sul presupposto che questa fosse in mora colpevole nell’adempimento delle proprie obbligazioni.
È tuttavia pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che l’assicuratore della r.c.a., ove ritardi colposamente il pagamento della somma dovuta a titolo di risarcimento al terzo danneggiato, può essere tenuto alla corresponsione degli interessi sul massimale ed, eventualmente, del maggior danno ex art. 1224, comma secondo, cod. civ. (che può consistere anche nella svalutazione monetaria), ma nulla di più: deve,, in particolare, escludersi che l’assicuratore possa essere condannato, a causa di mala gestio, al pagamento in conto capitale di una somma eccedente il massimale, (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 19919 del 18/07/2008, Rv. 604904).
Da ciò discende che per determinare le conseguenze della mora dell’assicuratore della r.c.a. occorre distinguere tre ipotesi.
12.4.1. L’ipotesi più semplice è quella in cui il danno patito dalla vittima sia, al momento di costituzione in mora dell’impresa designata, inferiore al massimale, e resti tale anche al momento del pagamento.
In questo caso l’assicuratore del responsabile deve versare al danneggiato il medesimo importo a questi dovuti dall’assicurato.
Tuttavia il debito del responsabile verso la vittima è una obbligazione di valore, fa sorgere la mora ex re dal giorno dell’illecito (art. 1219, comma 2, n. 1, c.c.), e produce i c.d. interessi compensativi da calcolarsi secondo i criteri stabiliti da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480. Ora, l’assicuratore della r.c.a. deve tenere indenne la vittima di tutti i danni provocati dal responsabile: e dunque sia dei danni emergenti, sia del danno da ritardato adempimento.
Ne consegue che, quando il debito è inferiore al massimale sia al momento dell’illecito che al momento della solutio, la mora dell’assicuratore della r.c.a. produrrà i medesimi effetti della mora del responsabile: dunque l’assicuratore della r.c.a. sarà tenuto a pagare gli interessi (c.d. compensativi), ad un saggio scelto in via equitativa secondo le circostanze del caso, applicato su un capitale pari alla media (semisomma) tra il valore del credito risarcitorio espresso in moneta dell’epoca del fatto, e lo stesso importo espresso in moneta dell’epoca della liquidazione, ovvero – il risultato è analogo – applicato per il primo anno sul credito espresso in moneta dell’epoca del fatto, e poi per ogni anno successivo sul credito via via rivalutato (per tutti questi principi si veda la fondamentale decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480).
12.4.2. La seconda ipotesi è che l’importo del danno patito dalla vittima già al momento della costituzione in mora ecceda il massimale.
Quando il debito dell’assicuratore della r.c.a. eccede il massimale si applicano le regole sulla mora nelle obbligazioni pecuniarie: si è detto infatti che l’obbligazione dell’assicuratore della r.c.a. ha ad oggetto non il risarcimento del danno, ma l’adempimento del debito altrui. Essa è, dunque, una obbligazione di valuta e non di valore.
Ciò vuoi dire che l’assicuratore della r.c.a. sarà tenuto a pagare un capitale pari al valore nominale del massimale, ai sensi dell’art. 1277, comma 1, c.c..
Su tale importo però l’impresa debitrice dovrà corrispondere gli interessi legali moratori di cui all’art. 1224, comma 1, c.c., anche in eccedenza rispetto ai massimale.
Ove, poi, la vittima deduca e dimostri anche il maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, c.c., l’assicuratore della r.c.a. sarà tenuta al pagamento – in luogo degli interessi moratori – di quest’ultimo danno, che potrà ovviamente consistere anche nella svalutazione monetaria, se il saggio di questa sia stato superiore a quello degli interessi legali e la vittima dimostri, anche con presunzioni semplici, che un tempestivo adempimento le avrebbe consentito di investire il denaro in attività tali che l’avrebbero preservata dagli effetti dell’inflazione.
12.4.3. Può accadere infine, che il credito risarcitorio della vittima, inferiore al massimale all’epoca di costituzione in mora dell’assicuratore, con l’andare del tempo lieviti sino ad eccedere il massimale al momento della liquidazione: vuoi a causa della svalutazione monetaria, vuoi per qualsiasi altra ragione.
Anche in questo caso l’assicuratore è ovviamente tenuto al pagamento degli interessi di mora ex art. 1224, comma 1, c.c., sull’importo nominale del massimale, salvo il maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c..
La particolarità di questa terza ipotesi sta nel fatto che il ‘maggior danno’ di cui all’art. 1224, comma 2, c.c., potrebbe in teoria consistere anche nella differenza tra il valore del danno all’epoca della mora ed il valore del danno all’epoca del pagamento, ove la vittima deduca e dimostri che, in caso di tempestivo adempimento, ella avrebbe potuto ottenere un ristoro integrale, precluso invece a causa del ritardato adempimento dell’assicuratore.
In questo caso, pertanto, la vittima ottiene un ristoro integrale del danno sia in conto capitale, sia in conto interessi: non già perché venga meno il limite del massimale, ma perché l’eccedenza del danno rispetto al massimale in conto capitale viene ascritto all’assicuratore a titolo di ‘maggior danno’ ex art. 1224, comma 2, c.c..
12.5. Il giudice del rinvio, pertanto, dovrà provvedere a rideterminare l’obbligazione dell’impresa assicuratrice del responsabile, tenendo conto del passaggio in giudicato del capo di sentenza che ha accertato la mala gestio della Unipol SAI, ed alla luce dei principi che precedono, e quindi:
(a) determinerà l’importo nominale del massimale all’epoca del sinistro;
(b) stabilirà se alla data del sinistro il danno patito dagli attori era superiore od inferiore al massimale;
(c) calcolerà gli interessi legali sull’importo sub (a) a far data dallo spirare dello spatium deliberandi di cui all’art. 22 l. 990/69, salvo che sia stato chiesto e dimostrato dai creditori il maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c., da determinare come indicato supra, nei pp. 12.4 e ss.;
(d) imputerà al risultato finale gli acconti pagati dalla Unipol SAI, secondo i criteri stabiliti dall’art. 1194 c.c. (prima agli interessi maturati alla data di pagamento, poi al capitale);
(e) in caso di incapienza, ripartirà il massimale tra i tre danneggiati col criterio proporzionale imposto dall’art. 27 I. 24.12.1969 n. 990 (applicabile ratione temporis), e quindi stabilirà il capitale spettante a ciascun danneggiato moltiplicando il massimale per il danno del singolo, e dividendo il risultato per il danno complessivo.
- Il quinto ed il sesto motivo del ricorso Unipol SAI.
13.1. Anche il quinto ed il sesto motivo del ricorso incidentale della Unipol SAI possono essere esaminati congiuntamente.
Con essi si lamenta la violazione di legge, ai sensi all’art. 360, n. 3, c.p.c.;
ed il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espone la Unipol SAI, al riguardo, che la sentenza d’appello sarebbe erronea nella parte in cui, confermando integralmente quella di primo grado, ha liquidato alla vittima sia il danno biologico, sia una ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno alla vita di relazione, estetico, sessuale, esistenziale.
13.2. Ambedue i motivi sono fondati.
Il nostro ordinamento non conosce che una distinzione in materia di danni aquiliani: quella tra danni patrimoniali e non patrimoniali.
Ciascuna di queste categorie giuridiche è unitaria.
Così come, sotto il profilo giuridico, non vi è alcuna differenza tra il danno patrimoniale consistito nella perdita d’un credito e quello consistito nella perdita d’un raccolto, allo stesso modo sotto il profilo giuridico non vi è alcuna differenza ontologica – come si usa dire – tra una lesione della salute ed una dell’onore.
Ovviamente, tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale possono assumere infinite forme, perché possono incidere su infiniti beni od interessi.
Il danno non patrimoniale pertanto, che è categoria unitaria, si differenzia nei criteri di accertamento e di liquidazione, a seconda dell’interesse concreto su cui vada a cadere.
La proclamata natura unitaria del pregiudizio tuttavia non può restare un mero ossequio formale alla dogmatica: e dunque non è consentito moltiplicare le voci di danno chiamando con nomi diversi pregiudizi identici.
Tutti questi principi sono stati affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008).
13.2. Applichiamo ora i suddetti principi alla materia del danno alla persona derivante da una lesione permanente della salute.
Nella liquidazione di tale pregiudizio, occorre in astratto tenere conto:
(a) dell’invalidità permanente causata dalle lesioni (danno biologico permanente), la cui liquidazione comprende necessariamente tutti i pregiudizi normalmente derivanti da quei tipo di postumi;
(b) delle sofferenze che, pur traendo occasione dalle lesioni, non hanno un fondamento clinico (la medicina parla, al riguardo, di ‘dolore non avente base nocicettiva’): si tratterà, ad esempio, della vergogna, della prostrazione, del revanchismo, della tristezza, della disperazione.
Per ‘tenere conto’ di tutte queste circostanze il giudice di merito deve:
(-) liquidare il danno alla salute applicando un criterio standard ed uguale per tutti, che consenta di garantire la parità di trattamento a parità di danno;
(-) variare adeguatamente, in più od in meno, il valore risultante dall’applicazione del criterio standard, al fine di adeguare il risarcimento alle specificità del caso concreto (c.d. ‘personalizzazione del risarcimento’).
L’una e l’altra di tali operazioni vanno compiute senza automatismi risarcitori, juxta alligata et probata, e soprattutto sulla base di adeguata motivazione che spieghi:
– quali pregiudizi sono stati accertati;
– con quali criteri sono stati monetizzati;
– con quali criteri il risarcimento è stato personalizzato.
13.3. Questi criteri non sono stati rispettati dalla Corte d’appello di Bologna. Infatti il Tribunale di Forlì, giudice di primo grado, nella aestimatio del danno patito da B.F. aveva così provveduto:
(a) liquidò il danno biologico;
(b) poi liquidò il danno morale;
(c) poi aumentò l’uno e l’altro per tenere conto delle specificità del caso concreto;
(d) quindi liquidò una ulteriore somma per tenere conto del danno alla vita di relazione, sessuale, estetico ed esistenziale.
13.4. La Corte d’appello ha ritenuto corretta questa liquidazione, così argomentando:
(a) B.F. , di anni 26 all’epoca del sinistro, riportò in conseguenza di esso una paraplegia completa, che lo rese invalido al 95%;
(b) il Tribunale pertanto correttamente ha liquidato questo danno opportunamente aumentando il criterio standard di risarcimento, ‘prendendo in considerazione non solo le conseguenze lesiv[e] di carattere clinico ma anche quelle di carattere psicologico, estetico, relazionale, riferibili tutte al danno alla salute (…)’. In questa liquidazione il Tribunale avrebbe, secondo la Corte d’appello, dato atto di aver considerato ‘la gravità della situazione (…), il danno estetico, la completa compromissione della sfera sessuale, relazionale ed affettiva del soggetto’ (così la sentenza, pp. 22-23).
13.5. La motivazione appena trascritta è erronea in diritto, ed insufficiente sul piano dell’argomentazione.
13.6. È erronea in diritto perché ha liquidato non due, ma più volte pregiudizi identici, chiamandoli con nomi diversi.
In rerum natura, il danno alla salute non consiste in un numero percentuale. Esso consiste invece nel complesso delle privazioni che la vittima dovrà subire nella vita quotidiana, lavorativa e sociale per effetto della menomazione. Così, ad esempio, lo zoppicare è un danno biologico; la perduta possibilità di curare da sé la propria persona è un danno biologico; lo sfregio permanente del volto è un danno biologico.
È solo per convenzione, e per garantire un minimo di obiettività nella liquidazione del danno, che questi pregiudizi vengono quantificati in misura percentuale, ipotizzando per fictio iuris che sia pari a ‘100’ la validità d’una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età della vittima.
Ciò vuoi dire che la somma di denaro accordata alla vittima di lesioni personali a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente è necessariamente intesa a ristorare la perdita delle attività che quella menomazione necessariamente ha comportato per la vittima, ed avrebbe comportato comunque quale che fosse stata la persona che l’avesse subita. Così, per fare un esempio: a chi riporti uno sfregio permanente del viso corrispondente ad una invalidità permanente del 10%, la liquidazione del danno biologico permanente non lascia spazio alcuno per la successiva liquidazione di un preteso ‘danno estetico’: in questo caso il danno biologico è il danno estetico, e la liquidazione dell’invalidità permanente ristorerà le conseguenze fisiche ordinariamente derivanti da quel tipo di postumi.
Allo stesso modo, alla vittima di una frattura d’anca guarita con coxartrosi non sarebbe possibile liquidare una somma di denaro a titolo di ristoro del danno biologico, ed una ulteriore somma di denaro a titolo di ristoro della ‘perduta possibilità di camminare’. Anche in questo caso la perduta possibilità di camminare è essa stessa il danno biologico, e ne costituisce – per così dire – il contenuto.
Nel caso di specie il Tribunale (e la Corte d’appello che ne ha condiviso l’operato), dopo aver accertato la sussistenza d’una invalidità permanente del 95%, ed avere già solo per questo fatto personalizzato il risarcimento del danno biologico elevandone l’ammontare rispetto alla misura standard, ha liquidato alla vittima una ulteriore somma dichiarando che con essa intendeva risarcire:
– il danno psicologico;
– il danno estetico;
– il danno relazionale;
– la compromissione della sfera sessuale;
– la compromissione della sfera affettiva.
Nessuna delle suddette voci di danno, tuttavia, è in teoria esclusa dalle conseguenze d’una lesione della salute.
13.6.1. Il c.d. ‘danno psicologico’ non è che una particolare ipotesi di lesione (permanente o transeunte) della salute psichica. In quanto tale, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado di invalidità permanente. Non si dirà, ad esempio, che Tizio ha una invalidità biologica del 25% ed un danno psichico del 10%, ma si dirà che Tizio ha postumi permanenti nella misura del 35%. La stessa espressione ‘danno psichico’, a ben vedere, non ha concettualmente alcuna ragion d’essere, a meno di non volere creare una categoria di danno per ogni distretto corporeo attinto dalle lesioni: e dunque danno ortopedico, danno craniofacciale, danno osteoarticolare, e via dicendo.
Nel caso di specie il giudice di merito ha determinato nella misura del 95% il grado di invalidità permanente patito dalla vittima, senza precisare se tale percentuale fosse stata determinata comprendendo i postumi lasciati da patologie psichiche. Delle due, pertanto, l’una: o la percentuale del 95% era stata determinata includendo i postumi di natura neurologica, ed allora la Corte d’appello ha liquidato due volte lo stesso danno (una a titolo di danno biologico, l’altra a titolo di danno psichico); ovvero la percentuale del 95% di invalidità permanente era stata determinata senza tenere conto dei postumi di natura psichica, ed allora il giudice di merito prima di liquidare anche questo tipo di danno aveva il preciso dovere di descriverlo, indicare da quale prova avesse tratto il convincimento della sua esistenza, ed indicare i criteri della sua monetizzazione.
13.6.2. Stesso discorso va fatto per il c.d. ‘danno estetico’. L’alterazione dell’aspetto del volto o del corpo è una invalidità permanente, prevista e classificata secondo varie scale di intensità in tutti i più noti e diffusi baréme medico legali. Anche in questo caso, pertanto, se dell’invalidità causata dai pregiudizio estetico si tenne conto nella determinazione del grado di invalidità permanente, la Corte d’appello ha duplicato il risarcimento; se non se ne tenne conto, la sentenza impugnata avrebbe dovuto precisarlo ore rotundo, e soggiungere la descrizione del danno, la fonte di prova del proprio convincimento e la spiegazione del criterio di liquidazione prescelto.
13.6.3. Il danno che la Corte d’appello ha chiamato ‘relazionale’ non è possibile nemmeno sapere cosa sia.
È ragionevole ritenere che, con tale aggettivo, la Corte d’appello abbia inteso far propria la risalente e stereotipa formula che definisce ‘danno alla vita di relazione’ la perduta possibilità di coltivare relazioni sociali.
Ma se così è, la sentenza è erronea perché non considera che la perduta possibilità di intrattenere rapporti sociali a causa di una invalidità permanente non è che una delle ‘normali’ conseguenze della invalidità: nel senso che qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali (in questo senso, ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 21716 del 23/09/2013, Rv. 628100; Sez. 3, Sentenza n. V, 11950 del 16/05/2013, Rv. 626348; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15414 del 13/07/2011, Rv. 619223; Sez. 3, Sentenza n. 24864 del 09/12/2010, Rv. 614875; Sez. L, Sentenza n. 25236 del 30/11/2009, Rv. 611026).
Nel caso di specie, la vittima ha patito una invalidità permanente del 95%.
Una invalidità di questo tipo incide ovviamente in modo pesante sulla vita di relazione della vittima.
Sicché, quando la dottrina medico-legale elabora i propri barémes per la determinazione del grado di invalidità permanente, questa incidenza delle lesioni sulla vita di relazione è necessariamente ricompresa nel grado di invalidità permanente: diversamente opinando, non si comprenderebbe più quale dovrebbe essere il contenuto oggettivo della nozione di ‘danno biologico’.
Ovviamente, ben può accadere che nel singolo caso i postumi permanenti causati dalla lesione fisica provochino una più incisiva compromissione della vita di relazione della vittima, rispetto ai casi analoghi: ma tale circostanza deve da un lato entrare nel processo con le debite forme (e cioè essere tempestivamente allegata da chi la invoca); e dall’altro, se ritenuta esistente dal giudice, deve essere esposta nella sentenza e sorretta da una adeguata motivazione.
Nel caso di specie, né il Tribunale, né la Corte d’appello hanno minimamente indicato – al di là di stereotipe e per ciò solo insignificanti formule di stile – per quale ragione le lesioni patite dallo sventurato B.F. abbiano provocato una compromissione della vita di relazione maggiore e più significativa di quella che le medesime lesioni avrebbero provocato in un’altra persona della stessa età, e che necessariamente vengono ristorate attraverso la monetizzazione del grado di invalidità permanente col criterio standard.
13.6.4. Quanto appena detto con riferimento al danno alla vita di relazione vale anche per il danno alla vita sessuale e quello alla vita affettiva, che la Corte d’appello ha ritenuto correttamente liquidabili in aggiunta – si badi – non già ai danno biologico, ma al danno biologico e morale già personalizzati, cioè aumentati per tenere conto delle specificità del caso concreto.
Infatti rientra nell’ordine delle cose che una invalidità del 95% comporti di norma impotenza coeundi e generandi. Anche in questo caso, pertanto, una liquidazione del pregiudizio in esame in aggiunta alla somma liquidata a titolo di danno biologico presupponeva o la chiara indicazione che di essa non si era tenuto conto nella determinazione del grado di invalidità permanente, ovvero che nella specie ricorrevano circostanze anomale ed eccezionali che rendevano le conseguenze del danno alla sfera sessuale della vittima diverse e più gravi di quelle usualmente derivanti in casi analoghi.
13.7. Oltre che erronea in diritto, la sentenza impugnata è gravemente insufficiente sul piano della motivazione.
Ciò sotto tre aspetti. La motivazione è in primo luogo contraddittoria, perché da un lato ammette che il danno estetico, psicologico, alla vita sessuale ‘sono pur sempre ricompresi nell’ambito dei danno biologico’ (così la sentenza, p. 23), e dall’altro non spiega perché mai nel caso di specie questi pregiudizi siano stati più gravi dei consueto, avuto riguardo ai casi analoghi, sì da meritare una liquidazione maggiorata.
La motivazione è in secondo luogo insufficiente, perché come già accennato non spiega se la liquidazione dei suddetti pregiudizi in aggiunta alle somme liquidate a titolo di danno biologico e di danno morale personalizzati sia stata resa necessaria dal fatto che i pregiudizi estetici, sessuali e relazionali non fossero stati dal consulente medico legale ricompresi nel grado di invalidità permanente, ovvero sia stata resa necessaria da altre cause.
La motivazione, infine, è illogica, nella parte in cui tiene conto per due volte delle specificità del caso concreto: una prima volta aumentando l’importo del danno biologico e morale, e una seconda volta liquidando i pregiudizi sopra ricordati.
13.8. La sentenza impugnata deve pertanto essere su questo punto cassata, e rinviata alla Corte d’appello di Bologna in differente composizione che, nel liquidare il danno non patrimoniale patito da B.F. , si atterrà al seguente principio di diritto:
Il grado di invalidità permanente espresso da un baréme medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima. Pertanto, una volta liquidato il danno biologico convertendo in denaro il grado di invalidità permanente, una liquidazione separata del danno estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale, è possibile soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età. Tali circostanze debbono essere tempestivamente allegate dal danneggiato, ed analiticamente indicate nella motivazione, senza rifugiarsi in formule di stile o stereotipe del tipo ‘tenuto conto della gravità delle lesioni’.
Il giudice di rinvio, inoltre, nel valutare le circostanze di fatto sanerà le mende motivazionali da cui è affetta la sentenza impugnata, e quindi:
(a) ove intenda personalizzare il risarcimento del danno non patrimoniale, indicherà analiticamente le circostanze che giustificano la personalizzazione, spiegando per quali ragioni esse non ricorrano nei casi consimili di invalidità dello stesso grado;
(b) preciserà se la percentuale di invalidità permanente del 95% è stata determinata includendo od escludendo i pregiudizi estetici, sessuali e relazionali; in caso negativo provvedere non a liquidare a parte tali pregiudizi, ma a rideterminare correttamente il grado di invalidità permanente, tenendo conto che nel caso di lesioni plurime monocrone il grado di invalidità permanente non è necessariamente pari alla somma algebrica delle singole invalidità, ma va determinato con i criteri indicati dalla dottrina medico legale (formula scalare, formula proporzionale, regola di Balthazard e via dicendo, secondo le circostanze del caso concreto).
- Il settimo motivo del ricorso Unipol SAI.
14.1. Col settimo motivo di ricorso la Unipol SAI sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espone, al riguardo, che il Tribunale di Forlì ha liquidato al sig. B.V. , padre della vittima primaria, un risarcimento di 10.000 Euro a titolo di danno patrimoniale, ma senza indicarne la ragioni; e che la Corte d’appello di Bologna a sua volta ha rigettato l’appello proposto su tale punto dalla Unipol SAI, anch’essa senza indicarne le ragioni.
14.2. Il motivo è inammissibile.
Esso, infatti, non è concluso dalla ‘chiara indicazione del fatto controverso’, prescritta dall’art. 366 bis c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis.
- Il primo motivo del ricorso N. -M. .
15.1. Col primo motivo del loro ricorso incidentale i sigg.ri N.A. e M.A. (assicurati Unipol SAI) lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.. Si assumono violati gli artt. 2056 e 2059 c.c..
Espongono, al riguardo, la Corte d’appello liquidando separatamente il danno biologico, morale, estetico, alla vita di relazione e sessuale avrebbe duplicato il risarcimento.
15.2. Il motivo è fondato, per le medesime ragioni già indicate ai pp. 13 e ss..
- Il secondo motivo del ricorso N. -M. .
16.1. Anche col secondo motivo di ricorso i sigg.ri N. -M. lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.. In questo caso si assumono violati gli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello ha liquidato ai genitori della vittima un risarcimento del danno patrimoniale a titolo di ‘spese’ non meglio precisate, e delle quali comunque non vi era prova alcuna.
16.2. Il motivo è inammissibile.
Nonostante sia prospettato sotto il profilo della violazione di legge, con esso si censura un vero e proprio accertamento di fatto: ovvero la circostanza che il giudice di merito abbia ritenuto sussistente un danno patrimoniale dell’entità lamentata dai ricorrenti.
Accertamento, quest’ultimo, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione: vizio tuttavia non denunciato, come detto, dai ricorrenti.
- Il ricorso incidentale della Allianz.
17.1. Con l’unico motivo del proprio ricorso incidentale, la Allianz sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe motivato in modo insufficiente sul concorso di colpa di S.P. (assicurato Allianz) nella causazione del sinistro. Adduce, in estrema intesi, che una colpa di S.P. non poteva essere affermata, perché il suo veicolo urtò alcun altro mezzo (e quindi non poteva a lui applicarsi la presunzione di cui all’art. 2054, comma 2, c.c.), né vi erano prove di una sua condotta di guida imprudente.
17.2. Il motivo è inammissibile.
Sebbene le considerazioni del ricorrente siano non implausibili in astratto, esse nella sostanza prospettano una ricostruzione dell’accaduto ed una valutazione delle prove diverse rispetto a quelle condivise dalla Corte d’appello.
Tuttavia, secondo un risalente e consolidato orientamento di questa Corte, una motivazione può dirsi viziata non già per il solo fatto che le prove raccolte potevano essere valutate anche in modo diverso rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito, ma soltanto se la ricostruzione dei fatti preferita dal giudice di merito sia di per sé implausibile.
Non è questo il nostro caso, nel quale la Corte d’appello ha ritenuto in colpa S.P. per avere sorpassato un veicolo a sua volta in fase di sorpasso:
motivazione non illogica e non contraddittoria, e dunque incensurabile in questa sede.
Stabilire, poi, se quella ricostruzione fu anche corretta dal punto di vista della verità oggettiva, è questione sottratta ai poteri di questa Corte.
- Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 385, comma 3, c.p.c..
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) accoglie i motivi primo, terzo, quarto, quinto e sesto del ricorso proposto dalla Unipol SAI s.p.a.;
-) accoglie il primo motivo del ricorso proposto da N.A. e M.A. ;
-) dichiara assorbiti i motivi terzo, quinto e sesto del ricorso proposto da B.F.;
-) rigetta tutti i restanti motivi di ricorso, da chiunque proposti;
-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, in differente composizione;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito.
LA CASALINGA DEVE ESSERE RISARCITA LO DICE LA CASSAZIONE
AVVOCATO SERGIO ARMAROLI PER GRAVI INCIDENTI STRADALI IN TUTTA ITALIA.
L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI HA UNICO STUDIO A BOLOGNA IN VIA SOLFERINO 30
LA SENTENZA
Tribunale
sentenza 20324/05 del 20/10/2005
Corte di cassazione
Sezione III civile
L’IMPORTANZA DELLA CASALINGA ATTIVITA’ SUSCETTIBILE DI VALUTAZIONE ECONOMICA
Riepilogando i progressi ai quali finora è giunta la giurisprudenza di legittimità, si deve allora affermare che chi svolge attività domestica (attività tradizionalmente attribuita alla “casalinga”), benché non percepisca reddito monetizzato, svolge tuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica; sicché quello subito in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, se provato, va legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile, autonomamente rispetto al danno biologico , nelle componenti del danno emergente ed, eventualmente, anche del lucro cessante). Il fondamento di tale diritto – che compete a chi svolge lavori domestici sia nell’ambito di un nucleo familiare (legittimo o basato su una stabile convivenza), sia soltanto in favore di sé stesso – è difatti pur sempre di natura costituzionale, ma, a differenza dal danno biologico , che si fonda sul principio dalla tutela della salute (art. 32 Cost.), riposa sui principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 Cost. (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del lavoratore e della donna lavoratrice). Sul tema, cfr. Cassazione 15580/2000, nonché, più diffusamente, Cassazione 4657/2005, la quale ultima pone in evidenza: la configurabilità, in generale, di siffatto danno patrimoniale solo in relazione ai lavori domestici che il danneggiato svolge in suo stesso favore (fatte salve le eccezioni come quella ipotizzata nell’impresa familiare ex art. 230-bis c.c.), posto che, nel caso in cui detti lavori siano svolti gratuitamente in favore di altri, soggetti danneggiati possono essere considerati solo questi ultimi; la necessità che sia provata la sussistenza delle due componenti del danno patrimoniale; l’impossibilità, in via generale, di ravvisare un danno patrimoniale (salve le eventuali eccezioni) nel caso in cui il soggetto danneggiato già prima dell’incidente non svolgesse lavori domestici (espressione da intendersi in senso ampio e quindi comprensivo anche di quell’attività di coordinamento, in senso lato, della vita familiare – Cassazione 10923/1997) perché questi erano integralmente devoluti a collaboratori o per altre ragioni.
In argomento la giurisprudenza di legittimità ha recentemente compiuto significativi progressi, i quali consentono di affermare che il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29, comma 1, Cost.) va inteso non, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione, se non annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del coniuge in relazione all’esigenza di provvedere agli straordinari bisogni dell’altro coniuge, sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti, deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela apprestata dall’art. 2059 c.c. in caso di lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto. Tale danno, siccome privo della caratteristica della patrimonialità, non può essere liquidato che in via equitativa, fermo restando il dovere del giudice di dar conto delle circostanza di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e dell’iter logico che lo ha condotto a quel determinato risultato (Cassazione 8827/2003, con riferimento al danno non patrimoniale da sconvolgimento delle abitudini di vita subito dai genitori del minore sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti e bisognoso di continua assistenza).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La D.C. ed il suo coniuge C. convennero in giudizio il F., il C. e l’Assimoco Ass.ni (conducente, proprietario ed assicuratrice di una vettura che aveva investito la donna cagionandole gravi lesioni alla persona) per il risarcimento del danno. Il Tribunale di Verona condannò i convenuti al risarcimento in favore della D.C. dei danni biologico, morale e patrimoniale; respinse, invece, la domanda proposta dal C., ritenendo che questo non aveva provato la verificazione di un danno biologico a suo carico, né il nesso causale tra la sua decisione di porsi in pensione e l’incidente subito da sua moglie. L’appello proposto sia dalla D.C., sia dal C. fu respinto dalla Corte d’appello di Venezia.
Entrambi propongono ora ricorso per cassazione. Risponde con controricorso la Assimoco Ass.ni.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso censura la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1223, 2043, 2056 e 2059 c.c., 2, 3, 4, 32, 37 Cost., r.d. 1043/1922, nonché i vizi della motivazione, ed è ripartito in un primo profilo riguardante la persona della D.C. ed un secondo profilo attinente alla persona del C.
I. – Il profilo relativo alla D.C. è a sua volta suddiviso in una prima parte, che può essere subito dichiarata inammissibile, in quanto contenente una serie di conteggi e di considerazioni in fatto (già affrontati, peraltro, dal giudice dell’appello che ha in proposito fornito una logica ed esauriente motivazione), attraverso i quali si pretende che la Corte di legittimità desuma determinate circostanze attinenti al merito della causa ed, in definitiva, pervenga ad una diversa liquidazione del danno biologico .
Ammissibile e fondata è, invece, la censura relativa al mancato riconoscimento in favore della D.C. di un danno specifico derivante – nei sensi prospettati dalla ricorrente stessa – dal fatto di non potere ella più svolgere l’attività di casalinga. Sul punto la sentenza non fornisce alcuna risposta, limitandosi ad affermare che la D.C. pretende l’attribuzione “di un non meglio precisato danno specifico, non correlato ad alcun motivo d’impugnazione”. È, invece, possibile riscontrare che il menzionato danno era stato specificamente richiesto nell’atto d’appello.
Riepilogando i progressi ai quali finora è giunta la giurisprudenza di legittimità, si deve allora affermare che chi svolge attività domestica (attività tradizionalmente attribuita alla “casalinga”), benché non percepisca reddito monetizzato, svolge tuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica; sicché quello subito in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, se provato, va legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile, autonomamente rispetto al danno biologico , nelle componenti del danno emergente ed, eventualmente, anche del lucro cessante). Il fondamento di tale diritto – che compete a chi svolge lavori domestici sia nell’ambito di un nucleo familiare (legittimo o basato su una stabile convivenza), sia soltanto in favore di sé stesso – è difatti pur sempre di natura costituzionale, ma, a differenza dal danno biologico , che si fonda sul principio dalla tutela della salute (art. 32 Cost.), riposa sui principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 Cost. (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del lavoratore e della donna lavoratrice). Sul tema, cfr. Cassazione 15580/2000, nonché, più diffusamente, Cassazione 4657/2005, la quale ultima pone in evidenza: la configurabilità, in generale, di siffatto danno patrimoniale solo in relazione ai lavori domestici che il danneggiato svolge in suo stesso favore (fatte salve le eccezioni come quella ipotizzata nell’impresa familiare ex art. 230-bis c.c.), posto che, nel caso in cui detti lavori siano svolti gratuitamente in favore di altri, soggetti danneggiati possono essere considerati solo questi ultimi; la necessità che sia provata la sussistenza delle due componenti del danno patrimoniale; l’impossibilità, in via generale, di ravvisare un danno patrimoniale (salve le eventuali eccezioni) nel caso in cui il soggetto danneggiato già prima dell’incidente non svolgesse lavori domestici (espressione da intendersi in senso ampio e quindi comprensivo anche di quell’attività di coordinamento, in senso lato, della vita familiare – Cassazione 10923/1997) perché questi erano integralmente devoluti a collaboratori o per altre ragioni.
La sentenza in commento deve essere, dunque, cassata sul punto ed il giudice del rinvio, adeguandosi ai principi sopra enunciati, provvederà ad accertare l’eventuale perdita o riduzione, da parte della D.C., della capacità lavorativa domestica, liquidando, in caso di positivo accertamento, il corrispondente danno patrimoniale.
II. – Passando alle doglianze del C., deve essere respinta quella che genericamente lamenta il vizio della motivazione nel punto in cui non gli è stato riconosciuto il danno per la contrazione degli introiti da anticipato pensionamento posto in rapporto di conseguenzialità diretta con il sinistro (il ricorrente neppure si cura di rappresentare da quali elementi sarebbe desumibile quel nesso che entrambi i giudici di merito hanno considerato come non provato). Deve essere, invece, accolta la censura relativa a quel punto della sentenza che ha escluso la possibilità di configurare il danno non patrimoniale a carico del coniuge della vittima di lesioni colpose.
In argomento la giurisprudenza di legittimità ha recentemente compiuto significativi progressi, i quali consentono di affermare che il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29, comma 1, Cost.) va inteso non, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione, se non annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del coniuge in relazione all’esigenza di provvedere agli straordinari bisogni dell’altro coniuge, sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti, deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela apprestata dall’art. 2059 c.c. in caso di lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto. Tale danno, siccome privo della caratteristica della patrimonialità, non può essere liquidato che in via equitativa, fermo restando il dovere del giudice di dar conto delle circostanza di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e dell’iter logico che lo ha condotto a quel determinato risultato (Cassazione 8827/2003, con riferimento al danno non patrimoniale da sconvolgimento delle abitudini di vita subito dai genitori del minore sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti e bisognoso di continua assistenza).
Anche sul punto va, dunque, cassata la sentenza impugnata ed il giudice del rinvio, adeguandosi agli enunciati principi, provvederà ad accertare se effettivamente il C. abbia subito un danno non patrimoniale nei sensi sopra descritti ed a liquidare il relativo risarcimento.
Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, anche perché provveda sulle spese del giudizio di cassazione.
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TI SVELO CINQUE SEGRETI!!!
Per ottenere un giusto risarcimento è importante che tu sappia quali siano i 5 passi fondamentali da seguire.
-PRIMO PASSO : rivolgersi ad un avvocato specializzato in RISARCIMENTO DANNI ALLA PERSONA. Devi sapere che anche le agenzie che si occupano di risarcimento o le associazioni a tutela degli utenti VITTIME DI GRAVI INCIDNTI O DI MALASANITA’ si rivolgono a un avvocato quando l’assecurazione o il responsabile non paga, perché solo l’avvocato puo’ patrocinare in TRIBUNALE –
SECONDO PASSO: un avvocato specializzato in GRAVI INCIDENTI MORTALI E MALASANITA’ opera una rigorosa disamina del caso, ricevendo in studio direttamente con il medico specialista nella materia d’interesse del cliente, a seconda che si tratti dell’ambito della ginecologia/ostetricia, neurochirurgia, oncologia, cardiologia, ecc.
Sol odopo un’attenta analisi, ed esclusivamente se sarà dato parere positivo sulla responsabilità, si procederà con la quantificazione del danno ad opera del medico legale.
– Terzo:ATTENZIONE ASSOLUTA AL CLIETE, MASSIMA INFORMATIVA AL CLIENTE CHEPARLA SOLO CON L’AVVOCATO .
– QUARTO PASSO :ANALIZZAR EATTENAMENT EIL TUO DANNO CON MEDICI LEGALI
– QUINTO ESSERE TEMPESTIVI,CIOE’ INTERVENIRE SUBITO CON DECISIONE PER OTTENERE IL GIUSTO RISARCIMENTO DANNI
Ecco alcuni casi rappresentativi DI INCIDENTI STRADALI GRAVI RISOLTI DALLO STUDIO AVV ARMAROLI SERGIO
Caso C TRIBUNALE DI MILANO CON GRAVE INCIDENTE SUCCESSO A NAPOLI
Si trattava di un incidente morale di un pensionato e l’assicurazione dopo la prima udienza ha liquidato ai parenti con ottocentomilaeuro !!
Caso NAP. Tribunale di Trieste (2010)
Ragazzo con incidente stradale avvenuto in motorino con danno alla gamba liquidato con sentenza con euro 350.000,00
Caso Ar liquidato stragiudizialmente
Danno alla mano e trauma cranico liquidato in euro 100.000,00 centomila
RESPONSABILITA’ MEDICA
SIGNORA RICOVERATA IN CLINICA CADE
RISARCITA CON EURO SESSANTAMILA
ATTENZIONE: prima di intentare una causa è necessario da parte nostra accertare la reale responsabilità dell’incidente e valutarne i postumi
Queste (che sono solo una parte) e molte altre sono le domande che bisogna porsi per accertare se c’è stata responsabilità. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria la consulenza congiunta di un avvocato specializzato in responsabilità medica (di un medico specialista se necessario) e di un medico legale.
Riceviamo i clienti direttamente con il medico specialista per la disamina del caso.
IMPORTANTE!
Vogliamo però segnalare che ci occupiamo solo di casi di particolare importanza cosi da poter gestire con la dovuta attenzione ogni singola posizione in tutta Italia isole comprese
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1)IL TERZO TRASPORTATO DEVE ESSERE SEMPRE RISARCITO
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