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SEPARAZIONE DEI CONIUGI BOLOGNA, ADDEBITO SEPARAZIONE, MOBBING FAMIGLIARE , LUDOPATIA DEL CONIUGE
- LA SEPARAZIONE CONSENSUALE
- La separazione dei coniugi può essere consensuale o giudiziale. Ai sensi dell’articolo 150 del codice civile come modificato dall’articolo 32 della Legge del 19.05.1975 n. 151 la separazione tra i coniugi può essere consensuale o giudiziale.
- La separazione consensuale si basa sull’accordo dei coniugi.
- Optare per una separazione consensuale è indubbiamente la strada più veloce ed economica per porre fine al proprio rapporto matrimoniale.
- Si tratta di un accordo tra i coniugi che viene manifestato in un apposito atto (ricorso) davanti al Tribunale competente.
- L’accordo di separazione consensuale dei coniugi viene consacrato in un ricorso (chiamato ricorso per separazione consensuale), all’interno del quale debbono essere indicate le condizioni alle quali i coniugi intendono separarsi. Ci riferiamo in particolare all’accordo sull’assegnazione della casa coniugale, sull’affidamento dei figli, sul mantenimento e sulle modalità di frequentazione degli stessi, sulla somma periodica da corrispondere eventualmente al coniuge più debole.
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La pronuncia di addebito postula in ogni caso:
1) la violazione, da parte di uno dei coniugi, di uno dei fondamentali e più rilevanti obblighi o doveri nascenti dal matrimonio;
2) l’accertamento che il comportamento contrario ai doveri coniugali abbia causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (cosiddetto “accertamento del nesso eziologico”) e si sia determinato nel perdurare della convivenza. Quindi, in genere non si può addebitare la separazione sulla base di comportamenti successivi alla cessazione della convivenza. Tuttavia, possono essere considerati rilevanti i fatti eventualmente accaduti dopo il provvedimento del presidente del Tribunale che autorizza i coniugi a vivere separatamente, nello specifico caso in cui posseggano autonomo e concreto rilievo causale in ordine alla produzione dell’effetto dell’improseguibilità della convivenza e dell’addebito (Cass. Civ. Sent. 6621 del 14.7.1994).
3) La riferibilità dell’atto contrario ai bona matrimonii al comportamento volontario e cosciente di uno dei due coniugi, ovvero a persona capace di intendere e di volere. Ne consegue la non addebitabilità della separazione al coniuge che abbia posto in essere comportamenti contrari ai doveri coniugali a causa di uno stato di malattia mentale.
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Corte di Cassazione, sentenza n. 13983 del 19 giugno 2014 della Cassazione
Uno degli aspetti più frequenti nella condizione di disagio intrafamiliare che può sfociare nella separazione (anche se allo stesso tempo può costituirne un freno inibitore) è quello relativo al così detto mobbing familiare o coniugale.
Il Mobbing coniugale consiste in attacchi e accuse, svolte in modalità sistematiche nei confronti del partner, cercando di colpirlo nelle sue parti più deboli e di umiliarlo. Per riconoscerlo dovranno essere presenti tentativi di sminuire il suo ruolo nell’ambito familiare, emarginazioni, continue provocazioni e prevaricazioni anche senza motivo, pressioni affinchè il coniuge lasci il letto coniugale, o il tetto coniugale, o la gestione economica nelle mani del mobber.
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Pertanto il giudice, al fine di stabilire se l’assegno sia dovuto, deve prioritariamente valutare il suddetto tenore di vita, e quindi stabilire se il coniugo richiedente sia in grado di mantenerlo in regime di separazione con i mezzi propri, essendo la mancanza di tali mezzi condizione necessaria per avere diritto all’assegno (Cass. 4 aprile 1998, n. 3490; 14 agosto 1997, n. 7630; 27 giugno 1997, n. 5762; 27 febbraio 1995, n. 2223).
Il tenore di vita matrimoniale deve, poi, essere accertato in via presuntiva, sulla base dei redditi complessivamente goduti dai coniugi durante la convivenza matrimoniale, con particolare riferimento al momento della sua cessazione, tenendosi conto non solo dei redditi di lavoro di ciascun coniuge, ma anche dei redditi di ogni altro tipo, nonché delle utilità derivanti dai beni immobili di loro proprietà, ancorché improduttivi di reddito.
Proprio a tali principi si è attenuta la Corte di appello, la quale ha preso in esame non soltanto i redditi di lavoro di ciascuno dei coniugi, ma anche il loro patrimonio immobiliare, pervenendo alla conclusione non contestata dal M. che sussisteva un notevole squilibrio tra le due posizioni economiche posto che i redditi di quest’ultimo erano almeno tre volte superiori a quelli della moglie; per cui a nulla rileva che la B. fosse comproprietaria (con il marito) della casa coniugale perché tale circostanza, costituendo un’utilità valutabile in misura pari al risparmio di spesa che occorrerebbe sostenere per godere di quell’immobile a titolo di locazione, è stata apprezzata dal giudici di merito proprio per determinare l’entità dello squilibrio sussistente tra le loro rispettive posizioni economiche, nonché di conseguenza la misura dell’assegno posto a carico del ricorrente. E perché d’altra parte anche il patrimonio immobiliare della richiedente e gli eventuali suoi redditi patrimoniali non erano in grado di assicurarle il raggiungimento di detto equilibrio e, quindi, il mantenimento del pregresso tenore di vita; per cui del tutto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che il bilanciamento del rispettivi interessi, nel quadro di quelli della famiglia nel suo insieme, potesse conseguirsi attesa la più elevata posizione economica del coniugo obbligato, solo attraverso la corresponsione di un assegno di mantenimento, anche perché consentiva alla B. di conservare il pregresso tenore di vita senza intaccare il suo patrimonio immobiliare (Cass. 5492/2001).
Eguali considerazioni valgono in ordine: a) ai debiti asseritamente contratti dal M. e nuovamente menzionati in modo del tutto generico in questa sede di legittimità, ritenuti dalla sentenza impugnata inidonei a modificare l’accertata sproporzione tra le condizioni economiche dei coniugi, a prescindere dal fatto (perciò non considerato determinante, né decisivo) che non vi era neppure la prova che essi fossero stati contratti per provvedere ai bisogni della famiglia; b) alla quota della casa paterna ereditata dalla B. ; in relazione alla quale costei, pur onerata della prova di impossidenza di sostanze o di redditi, non era tenuta a dante dimostrazione specifica e diretta, ed aveva assolto all’onere su di lei gravante, dimostrando che essa versava in una situazione patrimoniale inidonea a consentirle il precedente tenore di vita. Sicché spettava all’altro coniugo di contestare la pretesa inesistenza o insufficienza di redditi o sostanze, indicando beni o proventi idonei ad evidenziare l’infondatezza della domanda; e su di lui gravava l’onere di fornire la prova che in realtà la moglie possedeva cespiti immobiliari di tale entità e redditività da escludere il diritto all’assegno. Laddove la sentenza impugnata ha correttamente osservato che tale prova non poteva ritenersi raggiunta, non avendo il M. neppure indicato la tipologia di immobile ereditata dalla moglie e, trattandosi di acquisto di quota ereditaria, neppure se lo stesso fosse da lei direttamente utilizzabile ed in quale misura: perciò escludendone l’idoneità a compensare lo squilibrio patrimoniale esistente tra le parti (Cass. 17136/2004; 7061/1986; 5970/1981).
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Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (v., tra le altre, Cass., sez. lav., n. 3785/2009; anche n. 18093/2013). La nozione di mobbing è particolarmente utile per fotografare quelle situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in posizione di costante inferiorità rispetto ad un’altra o ad altre persone, e ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione.
In ambito familiare, invece, vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.); l’unità familiare (art. 29 Cost.), che in passato aveva consentito di giustificare l’autorità del marito, è oggi affidata all’accordo dei coniugi che, come notato da acuta dottrina, condiziona la costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. La ricorrente sollecita l’applicazione della nozione di mobbing anche ai rapporti familiari tra coniugi, valorizzandone la natura di comportamento contrario ai doveri che derivano del matrimonio e idoneo a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c.), nei casi in cui un coniuge assuma atteggiamenti persecutori nei confronti dell’altro al fine di costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale o ad accettare separazioni consensuali a condizioni inadeguate. Si ipotizza, in sostanza, che il comportamento del coniuge mobber integri di per sé una violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale e di collaborazione previsti dall’art. 143 c.c., ma questa conclusione non è condivisibile.
La nozione di mobbing in materia familiare è utile in campo sociologico, ma in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli (v., tra le tante, Cass. n. 25843/2013, n. 2059/2012, n. 14840/2006). Questa impostazione, la quale esclude ogni facilitazione probatoria per il coniuge richiedente l’addebito, neppure scalfisce (ed è anzi coerente con) il principio secondo cui il rispetto della dignità e della personalità dei coniugi assurge a diritto inviolabile la cui violazione può rilevare come fatto generatore di responsabilità aquiliana (v. Cass. n. 5652/2012, n. 9801/2005) anche in mancanza di una pronuncia di addebito della separazione (v. Cass. n. 18853/2011).
Il secondo motivo del ricorso principale, in tema di affidamento del figlio, è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo egli raggiunto la maggiore età nell’anno 2013.
Venendo al ricorso incidentale del F., il primo motivo (per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e insufficiente motivazione) riguarda il mancato addebito della separazione alla moglie, in quanto considerata responsabile di una continua e reiterata condotta aggressiva verso il marito consistita in numerose iniziative assunte in varie sedi processuali (quali la proposizione del gravame avverso la sentenza del tribunale, di un ricorso urgente nel giudizio di appello e del ricorso per cassazione in esame, nonché per avere proposto una querela nei suoi confronti, rifiutato una proposta transattiva e introdotto altra causa civile per il rimborso delle spese di ristrutturazione dell’abitazione coniugale). Il motivo è infondato in quanto basato su comportamenti del coniuge in parte diversi da quelli fatti valere nel giudizio di merito (dove il F. aveva dedotto il carattere intollerante della moglie, la sua ostilità verso la famiglia di origine del marito, l’insofferenza verso la casa coniugale) e in parte successivi alla proposizione della domanda di separazione e, quindi, intrinsecamente privi di ogni influenza ai fini della intollerabilità della convivenza e, conseguentemente, della pronuncia di addebito (v. Cass. n. 8512/2006, n. 3098/1995).
ASSEGNO MANTENIMENTO: rispettive condizioni patrimoniali non risultano neppure indicate, e che, soprattutto, manca una ricostruzione attendibile del tenore di vita dei coniugi
TESTO DELLE SENTENZA
Suprema Corte di Cassazione I Sezione Civile
Sentenza 29 aprile – 19 giugno 2014, n. 13983
Presidente Luccioli – Relatore Lamorgese
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Torino, giudicando nella causa di separazione personale tra i coniugi G.M. e G.F., rigettò le reciproche domande di addebito, dispose l’affidamento condiviso del figlio minore con collocazione abitativa presso la madre, disciplinando le modalità dei rapporti con il padre, e pose a carico del F. un contributo al mantenimento del figlio e della moglie.
La Corte di appello di Torino, con sentenza 1 giugno 2012, ha rigettato l’appello principale della M. e quello incidentale del F. Per quanto ancora interessa in questa sede, con riguardo alle domande di addebito, la corte ha condiviso la valutazione del tribunale che aveva ritenuti che i fatti da lei addebitati al marito (tra cui comportamenti assimilabili a mobbing familiare, atteggiamenti prepotenti e sprezzanti, villane espressioni indirizzate alla moglie, ecc.) non fossero causa ma effetto di un progressivo deterioramento del rapporto coniugale già in atto e che ciò giustificasse la decisione di non ammettere le istanze probatorie della M. in quanto attinenti a fatti temporalmente prossimi alla richiesta di separazione o generici e irrilevanti; analoga condivisione è stata espressa dalla corte con riguardo al rigetto della domanda di addebito proposta dal marito in relazione a fatti che non dimostravano la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e non rilevanti come causa della crisi matrimoniale. La corte ha inoltre ritenuto che non vi fossero ragioni di opportunità per modificare il regime di affidamento condiviso del figlio, che era in vigore dal 2006 con risultati positivi, anche tenuto conto del fatto che egli era prossimo alla maggiore età e che entrambi i genitori erano adeguati a tal fine.
Avverso questa sentenza la M. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste il F. che propone ricorso incidentale affidato a due motivi. Entrambe le parti hanno presentato memorie.
Motivi della decisione
Preliminarmente va dichiarata inammissibile la corposa produzione documentale allegata alla memoria del F. ex art. 378 c.p.c., non avente ad oggetto né la nullità della sentenza impugnata né l’ammissibilità del controricorso (art. 372 c.p.c.).
Venendo ad esaminare il ricorso principale, nel primo motivo la M. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 151, comma 2, e 277 c.c., nonché insufficiente motivazione, per avere la corte del merito rigettato il motivo di appello con cui essa aveva dedotto l’erronea valutazione da parte del primo giudice delle condotte di mobbing poste in essere dal F. e consistite in provocazioni, offese e umiliazioni di vario genere e con diverse modalità al fine di indurla a lasciare la casa coniugale. Il tribunale aveva ritenuto che quelle condotte erano successive al sorgere della crisi coniugale, come dimostrato da un fax dell’avv. B. dell’8 gennaio 2006 da cui emergeva che le parti già allora erano assistite da difensori a causa di una crisi che sarebbe sfociata nel ricorso per separazione presentato il 1° dicembre 2006. Tale valutazione non sarebbe condivisibile perché inficiata da un errore materiale sulla data del fax, inviato ai difensori del F. un anno dopo (l’8 gennaio 2007), con la conseguenza che le condotte di mobbing precedevano i contatti tra i difensori di quasi un anno e, quindi, doveva ritenersi che erano state causa della crisi coniugale. Inoltre, si imputa alla corte del merito di avere, da un lato, svalutato la rilevanza di fatti accaduti sin dal 2002 e, dall’altro, attribuito improprio valore alle dichiarazioni rese dagli stessi coniugi all’udienza presidenziale.
Il motivo è infondato.
Una violazione dell’art. 115 c.p.c. è configurabile solo ove il giudice ometta di valutare le risultanze istruttorie indicate dalla parte come decisive o ponga a base della decisione circostanze non ritualmente acquisite al giudizio; inoltre, non sussiste violazione dell’art. 116 C.P.C. laddove, nell’esercizio del suo prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie, il giudice indichi con motivazione logica ed esauriente (o lasci intendere implicitamente quali siano) le ragioni della ritenuta decisività di alcune risultanze istruttorie a preferenza di altre; né integra una violazione dell’art. 2697 c.c. (richiamato nel corpo del motivo) la erronea valutazione delle risultanze istruttorie che è censurabile soltanto per vizio della motivazione (v. Cass. n. 4330/2013, n. 12968/2012).
La corte torinese, con motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha ritenuto che i comportamenti di mobbing addebitati al marito allo scopo di indurla ad abbandonare la casa coniugale non potevano dirsi causa ima conseguenza di una crisi coniugale già in atto, in quanto riferibili ad un periodo (primi mesi del 2006) in cui le parti erano già avviate sulla strada della separazione (formalizzata dal F. nel dicembre dello stesso anno), e ciò contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente che ha erroneamente addebitato alla sentenza impugnata di avere ritenuto che la crisi coniugale fosse “perdurante da anni e anni anteriormente al 2006″. La corte ha anche condiviso la non ammissione di alcune istanze probatorie della M. in quanto “da un lato generiche quanto a collocazione temporale dei fatti addebitati e dall’altro irrilevanti”, statuizione questa non espressamente censurata in questa sede mediante un apposito mezzo che avrebbe dovuto essere supportato dall’indicazione dell’atto con cui quelle istanze erano state formulate, dalla trascrizione del testo delle stesse e da un’argomentata dimostrazione della loro decisività (la quale può comunque escludersi sia con riguardo al presunto errore lamentato dalla ricorrente circa la datazione del fax, sia con riguardo alle circostanze riferite in ricorso, datate al 2002 e alla fine del 2005, che dimostrano soltanto opinioni divergenti o contrasti di natura economica sulla ristrutturazione della casa coniugale). Del resto, com’è noto, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove e anche la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (v., tra le tante, Cass. n. 17097/2010, n. 12362/2006).
La ricorrente ha censurato per incongruità e contraddittorietà l’affermazione della corte che ha ritenuto che fosse improprio il riferimento all’istituto del mobbing in ambito familiare e che nel nostro ordinamento per provocare l’allontanamento del coniuge indesiderato non sarebbe necessaria l’adozione di un comportamento di tal genere, essendo sufficiente chiedere la separazione personale, come aveva fatto il F. senza attendere i risultati del suo ipotizzato piano persecutorio. Sono necessarie alcune precisazioni.
Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (v., tra le altre, Cass., sez. lav., n. 3785/2009; anche n. 18093/2013). La nozione di mobbing è particolarmente utile per fotografare quelle situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in posizione di costante inferiorità rispetto ad un’altra o ad altre persone, e ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione.
In ambito familiare, invece, vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.); l’unità familiare (art. 29 Cost.), che in passato aveva consentito di giustificare l’autorità del marito, è oggi affidata all’accordo dei coniugi che, come notato da acuta dottrina, condiziona la costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. La ricorrente sollecita l’applicazione della nozione di mobbing anche ai rapporti familiari tra coniugi, valorizzandone la natura di comportamento contrario ai doveri che derivano del matrimonio e idoneo a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c.), nei casi in cui un coniuge assuma atteggiamenti persecutori nei confronti dell’altro al fine di costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale o ad accettare separazioni consensuali a condizioni inadeguate. Si ipotizza, in sostanza, che il comportamento del coniuge mobber integri di per sé una violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale e di collaborazione previsti dall’art. 143 c.c., ma questa conclusione non è condivisibile.
La nozione di mobbing in materia familiare è utile in campo sociologico, ma in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli (v., tra le tante, Cass. n. 25843/2013, n. 2059/2012, n. 14840/2006). Questa impostazione, la quale esclude ogni facilitazione probatoria per il coniuge richiedente l’addebito, neppure scalfisce (ed è anzi coerente con) il principio secondo cui il rispetto della dignità e della personalità dei coniugi assurge a diritto inviolabile la cui violazione può rilevare come fatto generatore di responsabilità aquiliana (v. Cass. n. 5652/2012, n. 9801/2005) anche in mancanza di una pronuncia di addebito della separazione (v. Cass. n. 18853/2011).
Il secondo motivo del ricorso principale, in tema di affidamento del figlio, è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo egli raggiunto la maggiore età nell’anno 2013.
Venendo al ricorso incidentale del F., il primo motivo (per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e insufficiente motivazione) riguarda il mancato addebito della separazione alla moglie, in quanto considerata responsabile di una continua e reiterata condotta aggressiva verso il marito consistita in numerose iniziative assunte in varie sedi processuali (quali la proposizione del gravame avverso la sentenza del tribunale, di un ricorso urgente nel giudizio di appello e del ricorso per cassazione in esame, nonché per avere proposto una querela nei suoi confronti, rifiutato una proposta transattiva e introdotto altra causa civile per il rimborso delle spese di ristrutturazione dell’abitazione coniugale). Il motivo è infondato in quanto basato su comportamenti del coniuge in parte diversi da quelli fatti valere nel giudizio di merito (dove il F. aveva dedotto il carattere intollerante della moglie, la sua ostilità verso la famiglia di origine del marito, l’insofferenza verso la casa coniugale) e in parte successivi alla proposizione della domanda di separazione e, quindi, intrinsecamente privi di ogni influenza ai fini della intollerabilità della convivenza e, conseguentemente, della pronuncia di addebito (v. Cass. n. 8512/2006, n. 3098/1995).
Il secondo motivo dell’incidentale, che deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 155 bis c.c. e 91 e 96 c.p.c., è inammissibile, avendo la corte di appello fatto uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, in considerazione della soccombenza reciproca, che è incensurabile in Cassazione (v. Cass., sez. un., n. 14989/2005).
In conclusione, entrambi i ricorsi sono rigettati. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese del giudizio di legittimità, vista la reciproca soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi; compensa le spese del giudizio. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
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