MATRIMONI GAY : In data 1 giugno 2002, A.G. e O.M. – entrambi cittadini italiani contrassero matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi).
l’interpretazione della Corte Europea – secondo cui “la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto” -, sta nell’aver fatto cadere il postulato implicito, il requisito minimo indispensabile a fondamento dell’istituto matrimoniale, costituito dalla diversità di sesso dei nubendi e, conseguentemente, nell’aver ritenuto incluso nell’art. 12 della CEDU anche il diritto al matrimonio omosessuale (cfr., supra, n. 2.2.2.). La Corte Europea, in altri termini, sulla base della ricognizione delle differenze, anche profonde, delle legislazioni nazionali in materia, “che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto”, ha (soltanto) rimosso l’ostacolo – la diversità di sesso dei nubendi appunto – che impediva il riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, riservando tuttavia la garanzia di tale diritto alle libere opzioni dei Parlamenti nazionali.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 4 novembre 2011 – 15 marzo 2012, n. 4184 (Presidente Luccioli – Relatore Di Palma)
Svolgimento del processo
- – In data 1 giugno 2002, A.G. e O.M. – entrambi cittadini italiani contrassero matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi).
Successivamente, in data 12 marzo 2004, gli stessi chiesero al Sindaco del Comune di Latina – ove avevano stabilito la loro residenza – la trascrizione dell’atto del predetto matrimonio. Il Sindaco, interpellato quale ufficiale del Governo e dello stato civile, con atto dell’11 agosto 2004, rifiutò la trascrizione richiesta, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, essendo detto atto di matrimonio, formato all’estero, non suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico.
1.1. – Avverso il provvedimento di rifiuto della trascrizione il G. e l’O. proposero ricorso al Tribunale ordinario di Latina che – in contraddittorio con il Sindaco del Comune di Latina e con il Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale -, con decreto del 10 giugno 2005, respinse il ricorso.
1.2. – I medesimi odierni ricorrenti proposero reclamo avverso tale decreto dinanzi alla Corte d’Appello di Roma che – in contraddittorio con il Sindaco del Comune di Latina e con il Procuratore generale della Repubblica presso la stessa Corte, i quali chiesero entrambi la reiezione del reclamo e la conferma del decreto impugnato -, con decreto del 16 luglio 2006, rigettò il reclamo.
La Corte di Roma ha motivato tale decisione nei termini che seguono.
- A) Quanto al motivo di reclamo – con il quale si sosteneva che la trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero, avendo, ai sensi dell’art. 17 del citato d.P.R. n. 396 del 2000, natura meramente certificativa e dichiarativa, è atto dovuto ed “automatico”, ove sia data la prova della sua celebrazione secondo la lex loci – la Corte ha ritenuto che: Al) sulla base di quanto stabilito dall’art. 63, comma 2, lettera c), del d.P.R. n. 396 del 2000, sia l’ufficiale dello stato civile sia il giudice, adito ai sensi dell’art. 95 dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000, debbono verificare che l’atto di cui si chiede la trascrizione, sia esso formato in Italia ovvero all’estero, abbia le “connotazioni proprie, nel nostro ordinamento, degli atti di matrimonio assoggettati a trascrizione negli archivi di cui all’art. 10” del medesimo d.P.R. n. 396 del 2000; A2) la trascrizione dell’atto di matrimonio formato all’estero – anche a voler condividere la tesi della sua natura meramente certificativa e dichiarativa e non costitutiva – non può tuttavia considerarsi “atto dovuto”, in quanto la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il principio “della ininfluenza della trascrizione ai fini della validità ed efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani, validità ed efficacia per le quali si richiede, secondo le vigenti norme di diritto internazionale privato, la sussistenza dei requisiti di validità previsti dalla lex loci quanto alle forme di celebrazione e di quelli previsti dalla legge italiana quanto allo stato ed alla capacità delle persone”, ciò in forza del disposto di cui agli artt. 27 e 28 della legge 31 maggio 1995, n. 218; A3) il carattere “automatico” della trascrizione non può desumersi neppure da quanto dispongono gli artt. 65 e 66 della stessa legge n. 218 del 1995 – circa l’efficacia immediata in Italia dei provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone e all’esistenza dei rapporti di famiglia ed ai provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione -, dal momento che l’atto di matrimonio celebrato all’estero, “sebbene soggetto a determinate forme solenni che prevedono la ricezione della volontà dei nubendi da soggetti investiti di un pubblico ufficio, non è certo assimilabile ad un provvedimento proveniente dall’autorità amministrativa o giurisdizionale, ma resta un atto negoziale e come tale deve essere considerato ai fini della individuazione delle norme che ne disciplinano gli effetti nell’ordinamento interno”.
- B) Ciò premesso, la Corte ha individuato lo specifico thema decidendum della controversia nell’accertamento, secondo il disposto di cui all’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, “se sussistano o meno le condizioni per procedere alla trascrizione richiesta dalle parti” e, “a questo limitato fine”, ha ritenuto “non solo legittima, ma necessaria ed imprescindibile, la preliminare verifica se l’atto di cui si chiede la trascrizione possa o meno essere considerato atto di matrimonio, verifica che, proprio avuto riguardo alla funzione ed agli effetti di natura pubblicistica connessi alla trascrizione nei registri dello stato civile, non può che essere condotta con rigore alla stregua del diritto vigente e applicabile alla specie”.
- C) La Corte, al fine di decidere tale specifica questione, ha proceduto secondo i seguenti passaggi argomentativi, concernenti il metodo ermeneutico seguito, il quadro normativo di riferimento e l’efficacia delle norme applicabili dal giudice italiano: C1) “[…] il fatto che il matrimonio, sebbene ricopra un ruolo centrale nel sistema normativo che disciplina i rapporti di famiglia, non sia “definito” nella Costituzione, né nel codice civile e neppure nelle leggi speciali che nel tempo hanno regolamentato l’istituto, deve indurre l’interprete chiamato ad individuarne il contenuto essenziale ad un’attenta considerazione della evoluzione che l’istituto possa avere avuto nel costume sociale oltre che nella sua disciplina positiva e a doverosamente utilizzare tutti i criteri di interpretazione di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, fra i quali il criterio evolutivo”; C2) dal momento che lo Stato italiano fa parte “di una comunità internazionale che si è data regole e principi comuni, che ha proprie istituzioni e che con i suoi organi di giustizia si pone come autonomo referente per la tutela dei diritti dei singoli appartenenti alle varie comunità nazionali, deve essere considerato ai fini menzionati anche il contesto sovranazionale entro il quale l’ordinamento italiano si inserisce. L’ambito del sindacato richiesto è tuttavia pur sempre delimitato per l’interprete nella sede giurisdizionale dal rispetto degli ambiti di competenza di altri poteri dello Stato”; C3) a quest’ultimo riguardo, conseguentemente, “compete al legislatore dare attuazione, nelle forme che risulteranno conformi alla volontà parlamentare, quale espressione delle istanze provenienti dalla società, all’interno della quale è già da tempo presente il dibattito sull’argomento”, alle Risoluzioni del Parlamento Europeo dell’8 febbraio 1994, del 16 marzo 2000, del 14 luglio 2001 e del 4 settembre 2003, sul tema dei diritti degli omosessuali e delle unioni tra gli stessi, rivolte agli Stati membri dell’Unione Europea, “raccomandazioni a contenuto meramente programmatico alle quali non può essere riconosciuto alcun effetto vincolante per l’interprete chiamato ad applicare la normativa nazionale che si assume con esse configgente”; C4) “egualmente priva di obbligatorietà negli ordinamenti interni dei paesi UE” è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il cui art. 9 “garantisce […] il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia, ma “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, relativamente al quale il testo delle spiegazioni che accompagna la Carta precisa che “L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Questo diritto è pertanto simile a quello previsto dalla CEDU [art. 12], ma la sua portata può essere più estesa qualora la legislazione nazionale lo preveda”; C5) è ben vero che numerosi Stati Europei hanno già introdotto nei rispettivi ordinamenti forme diverse, con effetti diversificati, di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso – alcuni Stati sancendo un vero e proprio diritto al matrimonio -, ma “ciò è avvenuto all’esito di un lungo ed elaborato processo, nell’ambito del quale ogni comunità nazionale ha dovuto affrontare un’approfondita ricognizione delle libertà individuali meritevoli di tutela istituzionale in ambito familiare ed individuare i modelli normativi più rispondenti alla evoluzione delle realtà di questo tipo presenti nelle rispettive società”; processo che, invece, in Italia “è ancora in corso e presenta aspetti di tale delicatezza e complessità da non consentire alcuna anticipazione dell’interprete sulla base di una evoluzione della normativa esistente verso un nuovo assetto degli istituti interessati, evoluzione che non è allo stato rinvenibile nell’ordinamento nazionale, né perseguibile in via di interpretazione sistematica, analogica o estensiva delle norme di diritto interno, peraltro le uniche applicabili nella specie ai sensi dell’art. 27 della legge n. 218/95 e dell’art. 115 cod. civ., essendo i reclamanti entrambi cittadini italiani”; C6) “È dunque corretto ritenere […] che, mancando a livello Europeo ed extra Europeo una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni di tipo coniugale tra persone dello stesso sesso, non si possa prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelti nei vari Stati agli istituti dell’ordinamento nazionale, non potendo attuarsi con lo strumento invocato dai reclamanti e attraverso la forzosa esportazione delle scelte operate da altre comunità nazionali il riconoscimento di nuove realtà di tipo familiare che deve trovare ingresso nella sede e nelle forme istituzionali proprie”.
- D) Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’atto di matrimonio contratto dal G. e dall’O. non può essere trascritto nei registri dello stato civile, “perché non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno, la diversità di sesso tra i coniugi”. Al riguardo, la Corte ha sottolineato che: D1) dottrina e giurisprudenza – in forza del letterale disposto dell’art. 107 cod. civ., il quale prevede che l’ufficiale dello stato civile “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” – considerano la diversità di sesso dei nubendi, unitamente al consenso delle parti ed alla celebrazione, come requisiti per la stessa esistenza del matrimonio; D2) tale requisito della diversità di sesso dei nubendi è presupposta anche da altre disposizioni del codice civile (ad esempio, dagli artt. 108, 143, 143 bis, 143 ter, 156 bis) e dallo stesso art. 64, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 396 del 2000; D3) nessun argomento contrario può desumersi dall’art. 84 e seguenti cod. civ., i quali non menzionano la diversità di sesso dei nubendi tra le condizioni necessarie per contrarre matrimonio, dovendo accogliersi la distinzione tra requisiti di esistenza e requisiti di validità dell’atto, dei quali “i primi vengono ad essere presupposti dalle norme che disciplinano, con elencazione ritenuta tassativa, le cause di invalidità del matrimonio”; D4) a quest’ultimo riguardo, appare “decisivo il rilievo che per il legislatore del 1942, così come per il legislatore costituzionale, non sussisteva l’esigenza di alcuna specificazione in merito alla diversità di sesso dei coniugi, essendo questa insita nella comune accezione e nella tradizione sociale e giuridica dell’istituto matrimoniale e non essendosi all’epoca neppure profilata l’ipotesi di un’estensione dell’istituto all’unione affettiva tra persone dello stesso sesso”; D5) quanto alla “tutela costituzionale invocata dai reclamanti”, il riferimento dell’art. 29 Cost. alla famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” consente di affermare che “Il criterio di rapporto tra il legislatore e la realtà sociale indicato dalla Costituzione, […] mentre non costituisce di per sé ostacolo alla ricezione in ambito giuridico di nuove figure alle quali sia la società ad attribuire il senso ed il valore della esperienza famiglia, induce invece a ritenere illegittimo perseguire detto fine attraverso una forzatura in via interpretativa dell’istituto matrimoniale, essendo le connotazioni essenziali di questo saldamente ancorate al diritto positivo e alla concezione sociale di cui questo costituisce tuttora univoca espressione”.
- – Avverso tale sentenza A.G. e O.M. hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura, illustrati con articolata memoria.
Resiste, con controricorso il Sindaco del Comune di Latina.
Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma, benché ritualmente intimato, non si è costituito né ha svolto attività difensiva.
- – All’esito dell’odierna discussione, il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
- – Con il primo motivo (con cui deducono: “Sulla trascrivibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero e sulla presunta contrarietà all’ordine pubblico internazionale di tale negozio matrimoniale. Violazione degli artt. 2, 3, 10, 11 Cost.; artt. 9, 21 Carta di Nizza; art. 18 D.P.R. 396/2000”), i ricorrenti criticano il decreto impugnato, sostenendo che: a) l’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 – secondo il quale “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico” – deve essere interpretato nel senso che l’“ordine pubblico” ivi menzionato, “trattandosi di norma di relazione con ordinamenti estranei al nostro, deve intendersi come ordine pubblico internazionale e non interno”; b) ciò premesso, “occorre verificare: 1) se l’omosessualità sia un comportamento contrario all’ordine pubblico nel nostro Paese; 2) se sposarsi rientri tra i diritti fondamentali dell’individuo; 3) se dare pubblicità ad un atto negoziale come quello per cui è causa sia idoneo a stravolgere i valori fondamentali su cui si regge il nostro ordinamento”; c) quanto al primo quesito, si impone la risposta negativa sia perché altrimenti si determinerebbero effetti palesemente discriminatori in base all’orientamento sessuale, sia perché disposizioni comunitarie ed interne vietano esplicitamente discriminazioni fondate su tale orientamento; quanto al secondo quesito, si impone invece la risposta affermativa sia perché il diritto a contrarre matrimonio appartiene al novero dei diritti fondamentali, sia perché opinare diversamente comporterebbe negare il rispetto della dignità della persona e delle sue scelte di vita; quanto al terzo quesito, si impone nuovamente la risposta negativa sia in ragione del rilievo che “la clausola dell’ordine pubblico non ha uno scopo protezionistico, poiché al contrario consente di arricchire il nostro sistema con norme straniere, non confliggenti con i caratteri portanti dell’ordinamento del foro”, sia perché non esiste una espressa norma interna che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sia infine perché esistono atti politici (Risoluzione del Parlamento Europeo dell’8 febbraio 1994, sulla parità dei diritti delle persone omosessuali; Risoluzione del Parlamento Europeo del 16 marzo 2000, sul rispetto dei diritti umani nell’Unione Europea) e norme dell’Unione Europea (Regolamento CE n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003, “relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento CE n. 1347/2000”, il cui art. 22, lettera a, introduce una nozione di ordine pubblico attenuato; art. 69-11 della Costituzione per l’Europa, che riproduce l’art. 9 della carta di Nizza, il quale riconosce il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia, senza fare alcun riferimento alla diversità di sesso tra i nubendi) che consentono, invece, di ritenere un matrimonio siffatto non collidente con l’ordine pubblico italiano e di evitare fenomeni di discriminazione; d) “Se il matrimonio omosessuale fosse contrario all’ordine pubblico, dovremmo revocare in dubbio la compatibilità del nostro ordinamento con quello comunitario, mentre giuridicamente si dovrebbe rendere ragione di come sia possibile al giorno d’oggi che il loro stare insieme sia ritenuto una minaccia per l’esistenza della società italiana”; e) il rifiuto di riconoscere la legittimità del matrimonio di persone dello stesso sesso collide con il principio di laicità dello Stato, che comporta il divieto di imporre regole tratte da una particolare morale di fonte religiosa.
Con il secondo motivo (con cui deducono: “Sulla nozione di matrimonio e sugli effetti giuridici nel nostro ordinamento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Violazione degli artt. 2, 3, 29 Cost.; art. 12 disp. prel.; 107, 108, 143, 143-bis, 143-ter, 156-bis cod. civ.; art. 28 L. n. 218/1995”), i ricorrenti criticano ancora il decreto impugnato – nella parte in cui afferma che è da considerare “inesistente” il matrimonio tra persone dello stesso sesso – sostenendo che: a) di fronte ad un fenomeno sociale del tutto nuovo, è errato fare riferimento alla tradizione interpretativa e al suo carattere vincolante, nonostante l’assenza di una norma espressa che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso; b) “Non applicare le norme dell’istituto matrimoniale ad una coppia gay e lesbica lede il principio fondamentale del nostro sistema di diritto privato del rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali (tra cui rientra senz’altro il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia). In secondo luogo, contrasta con il principio di non discriminazione, ricavabile a livello sistematico a partire dall’art. 3, 2 co. Cost. Viola, infine, il principio di libertà e di autodeterminazione sancito dall’art. 13 Cost., in base al quale lo Stato non può interferire nelle scelte di vita dei cittadini”.
Con il terzo motivo (con cui deducono: “Sul contrasto con la Costituzione e con i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario di un’interpretazione delle norme italiane che escluda la possibilità per le persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. Violazione degli artt. 9 Carta di Nizza; artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo; artt. 2, 3, 10, 2 co., Cost.; 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ.”), i ricorrenti criticano infine il decreto impugnato, sostenendo che un’interpretazione della vigente disciplina che escluda le coppie omosessuali dal matrimonio collide con la Costituzione e con il diritto comunitario. In particolare – dopo aver premesso che l’impossibilità di procreazione non è causa di nullità del vincolo matrimoniale, bensì, soltanto in certi casi (impotentia coeundi), di annullabilità per errore essenziale – essi sottolineano che: a) “La scelta della Corte d’Appello di Roma di non interpretare evolutivamente le norme in materia di matrimonio crea […] – a fronte di una situazione sul piano oggettivo (vita in comune) e soggettivo (reciproco affetto e scelta di condividere le proprie esistenze) assolutamente identica sia che si tratti di una coppia eterosessuale sia che si tratti di una coppia omosessuale una disparità di trattamento assolutamente irragionevole e ingiustificata alla luce dell’art. 3 Cost. Anzi, in spregio a questa norma, l’orientamento sessuale, condizione personale su cui non si può fondare alcun trattamento deteriore, è assunto dalla Corte territoriale a presupposto per un’evidente discriminazione”; b) una interpretazione dell’art. 29 Cost. – asistematica, restrittiva e storicamente cristallizzata -, sulla quale si fondasse la legittimità costituzionale del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui riconoscono e garantiscono ad ogni essere umano il diritto di costituire una famiglia, fondandola sul matrimonio, e il diritto di autodeterminazione del singolo; c) contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici a quibus, l’art. 9 della Carta di Nizza ha una vera e propria efficacia precettiva, a séguito del suo inserimento nel trattato costituzionale per l’Europa.
- – Il ricorso – i cui tre motivi illustrati con memoria possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione – non merita accoglimento, anche se la motivazione in diritto del decreto impugnato deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384, quarto comma, cod. proc. civ.
2.1. – La fattispecie in esame è la seguente: in data 1 giugno 2002, A.G. e M.O., cittadini italiani, hanno contratto matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi) e, in quanto residenti in Latina, hanno chiesto la trascrizione del relativo atto, formato all’estero, al locale ufficiale dello stato civile, ai sensi del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. A séguito del rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di trascrivere detto atto di matrimonio in forza di precise istruzioni impartite dal Ministero dell’interno (cfr., in particolare, le circolari nn. 2 del 26 marzo 2001 e 55 del 18 ottobre 2007) – ostandovi l’art. 18 dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000 (secondo il quale “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”), per l’identità di sesso dei contraenti il matrimonio -, gli odierni ricorrenti hanno adito con esito negativo, ai sensi degli artt. 95 e 96 del medesimo d.P.R. n. 396 del 2000, prima il Tribunale ordinario di Latina e poi, in sede di reclamo, la Corte d’Appello di Roma, perché fosse accertata l’illegittimità del rifiuto di trascrizione opposto dall’ufficiale dello stato civile del Comune di Latina e, conseguentemente, ordinata la trascrizione del predetto atto di matrimonio.
Pertanto, la specifica questione che – per la prima volta – è posta all’esame di questa Corte, consiste nello stabilire se due cittadini italiani dello Vi stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero – nella specie, nel Regno dei Paesi Bassi che, con la legge 21 dicembre 2000, n. 9, sull’apertura delle posizioni matrimoniali, ha tra l’altro sostituito l’art. 30, comma 1, del codice civile, il quale dispone che “Un matrimonio può essere celebrato tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso” -, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.
È di tutta evidenza che la risposta a tale specifico quesito dipende dalla soluzione della più generale questione – anch’essa nuova per questa Corte -se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il “diritto fondamentale di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (Corte costituzionale, sentenza n. 245 del 2011, che richiama la sentenza n. 445 del 2002).
Infatti, ove la risposta a questo più generale quesito fosse affermativa, ne conseguirebbe che il matrimonio celebrato all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso, quale atto d’esercizio di tale fondamentale diritto, avrebbe immediata validità ed efficacia nel nostro ordinamento, alle condizioni che esso risultasse celebrato secondo le forme previste dalla legge straniera e, quindi, spiegasse effetti civili nell’ordinamento dello Stato della celebrazione, e che sussistessero gli altri requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana; con l’ulteriore conseguenza che la trascrizione dell’atto di matrimonio nel corrispondente registro dello stato civile italiano, non avendo natura costitutiva ma meramente certificativa e di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum, formerebbe oggetto di un vero e proprio diritto di ciascuno dei coniugi e costituirebbe, perciò, attività “dovuta” dell’ufficiale dello stato civile richiesto.
2.2. – Tanto premesso, è opportuno muovere proprio dalla questione specifica dianzi enunciata (cfr., supra, n. 2.1.), relativamente alla quale le norme, di rango primario o sub-primario, rilevanti – ancorché in prima approssimazione, come si vedrà – sono:
- A) L’art. 115, cod. civ., secondo il quale “Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”: è soggetto, cioè, alle disposizioni di cui ai precedenti articoli da 84 a 88, che disciplinano le “condizioni necessarie per contrarre matrimonio”, come recita la rubrica di detta sezione. Disposizioni queste che, stabilendo gli impedimenti al matrimonio cosiddetti “dirimenti”, pongono certamente, di regola, norme di “ordine pubblico”.
- B) L’art. 27, primo periodo, della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), il quale dispone che “La capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”; il successivo art. 28 della stessa legge n. 218 del 1995, secondo cui “Il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento”; l’art. 65 della medesima legge n. 218 del 1995, laddove, nel disciplinare l’efficacia di provvedimenti e di atti stranieri, dispone che “Hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi […] all’esistenza di rapporti di famiglia […] quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato […], purché non siano contrari all’ordine pubblico […]”.
- C) Alcune disposizioni del più volte menzionato d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), che è certamente qualificabile, sul piano delle fonti, come regolamento cosiddetto di “delegificazione”.
Al riguardo, è opportuno sottolineare immediatamente che le relative disposizioni hanno, appunto, natura e valore regolamentare, sicché l’eventuale sindacato della loro legittimità può svolgersi secondo i principi più volte enunciati dalla Corte costituzionale.
“Il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti, in particolare con riferimento a quelle di valore regolamentare adottate in sede di “delegificazione”, non è comunque pregiudicato dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale. La garanzia è normalmente da ricercare, volta a volta, a seconda dei casi, o nella questione di costituzionalità sulla legge abilitante il Governo all’adozione del regolamento [nella specie, sull’art. 2, comma 12, della citata legge n. 127 del 1997], ove il vizio sia a essa riconducibile (per avere, in ipotesi, posto principi incostituzionali o per aver omesso di porre principi in materie che costituzionalmente li richiedono); o nel controllo di legittimità sul regolamento, nell’ambito dei poteri spettanti ai giudici ordinari o amministrativi, ove il vizio sia proprio ed esclusivo del regolamento stesso” (cfr. la sentenza n. 427 del 2000, n. 4 del Considerato in diritto; cfr. anche, per un’applicazione di tali principi, la sentenza n. 251 del 2001, n. 3 del Considerato in diritto].
Di dette disposizioni rilevano, in particolare: 1) l’art. 9 (che reca la rubrica: “Indirizzo e vigilanza”), comma 1, secondo cui “l’ufficiale dello stato civile è tenuto ad uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal Ministero dell’interno” (nella specie, l’ufficiale dello stato civile, nel rifiutare la trascrizione per contrarietà dell’atto di matrimonio celebrato all’estero all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 18 dello stesso decreto, si è appunto uniformato alle istruzioni generali previamente impartite dal Ministero dell’interno, dianzi citate); 2) l’art. 16, sul matrimonio celebrato all’estero, il quale stabilisce che “Il matrimonio all’estero, quando gli sposi sono entrambi cittadini italiani o uno di essi è cittadino italiano e l’altro è cittadino straniero, può essere celebrato innanzi all’autorità diplomatica o consolare competente, oppure innanzi all’autorità locale secondo le leggi del luogo. In quest’ultimo caso una copia dell’atto è rimessa a cura degli interessati all’autorità diplomatica o consolare”; 3) l’ora menzionato art. 18, sui casi di intrascrivibilità, il quale statuisce che “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”; 4) l’art. 63, comma 2, lettera c), per il quale “Nei medesimi archivi [di cui all’art. 10] l’ufficiale dello stato civile trascrive: […] c) gli atti dei matrimoni celebrati all’estero”; 5) l’art. 64 (che reca la rubrica: “Contenuto dell’atto di matrimonio”), comma 1, lettere a), b), c) ed e), secondo cui “L’atto di matrimonio deve specificamente indicare: a) il nome e il cognome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza e la residenza degli sposi […]; b) la data di eseguita pubblicazione […]; c) il decreto di autorizzazione quando ricorra alcuno degli impedimenti di legge […]; e) la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”.
Dal complesso di tali disposizioni regolamentari emerge chiaramente che all’ufficiale dello stato civile competente – tenuto ad uniformarsi, si ribadisce, alle istruzioni impartite dal Ministero dell’interno in materia (art. 9, comma 1, cit.) – sono attribuiti penetranti poteri di controllo (anche) sulla trascrivibilità degli atti di matrimonio celebrati all’estero, come risulta inequivocabilmente, in particolare, dalle citate lettere del comma 1 dell’art. 64 che, imponendo precisi contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile, attestano l’esistenza di tali poteri e la astratta legittimità del loro esercizio: è fatto salvo infatti, conformemente ai su richiamati principi affermati dalla Corte costituzionale, il sindacato di costituzionalità sull’art. 2, comma 12, della menzionata legge n. 127 del 1997, abilitante il Governo all’adozione del regolamento, nonché il sindacato giurisdizionale di legittimità sia della norma regolamentare attributiva del potere (che può essere “disapplicata”, ove ne sussistano i presupposti, ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E), sia del concreto atto di esercizio di tale potere (nella specie, rifiuto di eseguire la trascrizione richiesta), ai sensi dell’art. 95, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000.
2.2.1. – Questo essendo il quadro normativo di riferimento rilevante, sia pure in prima approssimazione, per la soluzione della questione specifica in esame, deve essere subito rammentato che la giurisprudenza di questa Corte in materia di matrimoni civili dei cittadini italiani celebrati all’estero è ferma nell’enunciare il già menzionati principio, secondo cui, in base alle norme del codice civile e del diritto internazionale privato, tali matrimoni hanno immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell’ordinamento dello Stato straniero di celebrazione) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana, e secondo cui tale principio non è condizionato dall’osservanza delle norme italiane relative alla pubblicazione, perché la loro violazione può dar luogo soltanto ad irregolarità suscettibili di essere sanzionate amministrativamente, ovvero alla trascrizione, perché questa ha natura non costitutiva ma meramente certificativa e funzione di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 10351 del 1998, 9578 del 1993, 3599 e 1304 del 1990).
Nella specie pertanto, sulla base di tali principi, il matrimonio – ove fosse stato contratto da persone di sesso diverso – sarebbe, in assenza di (altri) impedimenti “dirimenti”, valido ed efficace nell’ordinamento italiano e comporterebbe il dovere dell’ufficiale dello stato civile richiesto di trascrivere nel corrispondente registro il relativo atto formato all’estero.
2.2.2. – Ma la diversità di sesso dei nubendi è – unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante -, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile come atto giuridicamente rilevante (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 1808 del 1976, 1304 del 1990 cit., 1739 del 1999, 7877 del 2000).
Questo requisito – pur non previsto in modo espresso né dalla Costituzione, né dal codice civile vigente (a differenza di quello previgente del 1865 che, nell’art. 55 ad esempio, stabiliva, quanto al requisito dell’età: “Non possono contrarre matrimonio l’uomo prima che abbia compiuto gli anni diciotto, la donna prima che abbia compiuto gli anni quindici”), né dalle numerose leggi che, direttamente o indirettamente, si riferiscono all’istituto matrimoniale – sta tuttavia, quale “postulato” implicito, a fondamento di tale istituto, come emerge inequivocabilmente da molteplici disposizioni di tali fonti e, in primo luogo, dall’art. 107, primo comma, cod. civ. che, nel disciplinare la forma della celebrazione del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale dello stato civile celebrante “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (si veda anche l’art. 108, primo comma).
L’inequivocabile corrispondenza di tali parole “marito” e “moglie” – utilizzate dal legislatore in modo assolutamente prevalente rispetto ad altre espressioni di analogo significato -, rispettivamente, con la parte maschile e con la parte femminile dell’atto (e del rapporto) matrimoniale è attestato anche da numerose disposizioni del diritto vigente. In particolare ed a mero titolo esemplificativo, detta corrispondenza è del tutto evidente nel secondo e nel terzo comma dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall’art. 9 della legge 6 marzo 1987, n. 74, i quali, in chiarissimo riferimento all’art. 143-bis cod. civ. secondo cui “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito […]” -, dispongono che, quando il tribunale pronuncia sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, “La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a séguito del matrimonio [secondo comma]”, e che lo stesso tribunale “può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela [terzo comma]”.
Il diritto positivo vigente e la giurisprudenza che su di esso si è formata, del resto, non fanno che riflettere anche “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio”, come sottolinea la Corte costituzionale che, nel richiamare tale icastica espressione del Tribunale di Venezia nell’ordinanza di rimessione, conclude sul punto: “In sostanza l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi [corsivo aggiunto]” (cfr. la sentenza n. 138 del 2010, n. 6 del Considerato in diritto).
Postulato non arbitrario, ma fondato su antichissime e condivise tradizioni – culturali (l’“ordine naturale” esige la diversità di sesso dei nubendi), prima ancora che giuridiche – che il diritto, come in altri innumerevoli casi, nel rispecchiare, ordina.
Al riguardo, tra i molti esempi possibili, può menzionarsi la definizione del matrimonio data dai giuristi romani classici (che designavano l’istituto con i termini di “iustae o legitimae nuptiae” o di “iustum o legitimum matrimonium”): “Iustum matrimonium est, si inter eos qui nuptias contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt” (rituli ex corpore Ulpiani, 5, 2).
Inoltre, non è senza significato che, a distanza di quasi due millenni, la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, preveda che “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione” (art. 16, paragrafo 1); analoga previsione è contenuta nell’art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato e aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo cui “Il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia è riconosciuto agli uomini e alle donne che abbiano l’età per contrarre matrimonio”). Tutto ciò, “benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta”, come nota la Corte costituzionale nella già menzionata sentenza n. 138 del 2010, a proposito del dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente sul futuro art. 29 della Costituzione, concludendo sul punto che tale norma costituzionale “non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto [corsivo aggiunto]” (Considerato in diritto, n. 9). Ed il richiamo a tale “tradizione” è significativamente contenuto più volte anche nella sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, di poco successiva a quella della Corte costituzionale (sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria) e profondamente innovativa in materia, che verrà analizzata più oltre (cfr., infra, n. 3.3.3.) L’ordinamento giuridico italiano, perciò, ha conosciuto finora, e conosce attualmente – salvo quanto si dirà più oltre (cfr., infra, nn. 3 e 4) -, un’unica fattispecie integrante il matrimonio come atto: il consenso che, nelle forme stabilite per la celebrazione del matrimonio, due persone di sesso diverso si scambiano, dichiarando che “si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (art. 107, primo comma, cod. civ., cit.). La diversità di sesso dei nubendi è, dunque, richiesta dalla legge per la stessa identificabilità giuridica dell’atto di matrimonio. Proprio di qui la conseguenza, condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla prevalente dottrina, che l’atto mancante di questo requisito comporta la qualificazione di tale atto secondo la categoria non della sua validità, ma della sua stessa esistenza. Categoria, questa dell’inesistenza (la cui prima elaborazione risale ai canonisti medioevali, i quali consideravano appunto inesistente il matrimonio contratto da persone dello stesso sesso, perché, pur in assenza di una norma positiva, contrario al concetto “naturale” del matrimonio), che consente, sul piano pratico, di impedire il dispiegamento di qualsiasi effetto giuridico dell’atto di matrimonio, sia pure meramente interinale, a differenza dell’atto di matrimonio nullo che, invece, tali effetti può, quantomeno interinalmente, produrre (cfr. artt. da 117 a 129 cod. civ.). Categorizzazione, inoltre, del tutto coerente con la premessa che l’atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, mancando di un requisito indispensabile per la sua stessa identificabilità come tale secondo la fattispecie astratta normativamente prefigurata, non è previsto dall’ordinamento e quindi, in questo senso, “non esiste”.
2.2.3. – Pertanto – sul piano delle norme, di rango primario o sub-primario, applicabili alla fattispecie in prima approssimazione -, alla specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, deve darsi, in conformità con i su menzionati precedenti di questa Corte, risposta negativa.
Al riguardo, deve essere infine precisato che, nella specie, l’intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 – come, invece, originariamente affermato dall’ufficiale dello stato civile di Latina a giustificazione del rifiuto di trascrizione, in conformità con le menzionate circolari emanate dal Ministero dell’interno -, ma dalla previa e più radicale ragione, riscontrabile anche dall’ufficiale dello stato civile in forza delle attribuzioni conferitegli (cfr., supra, n. 2.2), della sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano. Ciò che, conseguentemente, esime il Collegio dall’affrontare la diversa e delicata questione dell’eventuale intrascrivibilità di questo genere di atti per la loro contrarietà con l’ordine pubblico.
- – Ma, già da tempo ed attualmente, la realtà sociale e giuridica Europea ed extraeuropea mostra, sul piano sociale, il diffuso fenomeno di persone dello stesso sesso stabilmente conviventi e, sul piano giuridico, sia il riconoscimento a tali persone, da parte di alcuni Paesi Europei (anche membri dell’Unione Europea, come nella specie) ed extraeuropei, del diritto al matrimonio, ovvero del più limitato diritto alla formalizzazione giuridica di tali stabili convivenze e di alcuni diritti a queste connessi, sia – come si vedrà più oltre in dettaglio (cfr., infra, nn. 3.3.1. e seguenti) – un’interpretazione profondamente “evolutiva” dell’art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Una realtà siffatta esige, quindi, che la specifica questione dianzi esaminata sia considerata nel contesto di quella più generale (cfr., supra, n. 2.1.) consistente nello stabilire se il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto a due persone dello stesso sesso dalla Costituzione italiana e/o se esso discenda immediatamente dai vincoli derivanti allo Stato italiano dall’ordinamento comunitario o dagli obblighi internazionali, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., secondo il quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
3.1. – Il Collegio ritiene che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso.
Al riguardo, com’è noto, la Corte costituzionale – chiamata a decidere, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis cod. civ., “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso” (questione sollevata in una fattispecie – analoga a quella in esame – di opposizione, ai sensi dell’art. 98 cod. civ., avverso l’atto con il quale l’ufficiale dello stato civile aveva rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesta da due persone dello stesso sesso) -, con la più volte menzionata sentenza n. 138 del 2010, ha dichiarato detta questione non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., ed inammissibile, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cfr. anche le successive ordinanze, di manifesta inammissibilità e di manifesta infondatezza di analoghe questioni, nn. 276 del 2010 e 4 del 2011).
In particolare ed in estrema sintesi: 1) la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., è stata dichiarata non fondata, sia perché l’art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica “creativa”, sia perché, in specifico riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee rispetto al matrimonio; 2) la questione sollevata in riferimento all’art. 2 Cost. è stata dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata; 3) la medesima questione – sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle specifiche norme “interposte”, di cui ai già citati artt. 12 della CEDU e 9 della cosiddetta “Carta di Nizza” – è stata dichiarata del pari inammissibile, perché tali norme interposte, “con il rinvio alle leggi nazionali, […] conferma[no] che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento”.
Benché si tratti di pronuncia di inammissibilità e di non fondatezza della questione sollevata, perciò priva di efficacia vincolante erga omnes, il Collegio ritiene che non siano individuabili parametri costituzionali o ragioni, diversi da quelli già scrutinati dal Giudice delle leggi, tali da giustificare una nuova rimessione alla Corte costituzionale, tenuto anche conto che, come dianzi rilevato, successivamente alla sentenza n. 138 del 2010 sono state già pronunciate due ordinanze di manifesta infondatezza e di manifesta inammissibilità di questioni analoghe. Al riguardo, non è certamente decisiva in senso contrario l’argomentazione dei ricorrenti, secondo la quale la Corte, mutuando la nozione costituzionale di matrimonio di cui all’art. 29 Cost. dal codice civile, avrebbe arbitrariamente invertito l’ordine e l’oggetto del giudizio di costituzionalità stabilito dalla Costituzione (art. 134): da quello della “legittimità costituzionale” della legge (e degli atti aventi forza di legge) a quello, per così dire, della “legittimità della Costituzione”.
In primo luogo, infatti, la Corte – nell’affermare che “I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile”, sicché, “in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942 che […] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso” – ha inteso sottolineare con nettezza: per un verso, che il concetto di matrimonio è stato “costituzionalizzato” dall’art. 29 nel significato codicistico e che, tuttavia, esso ed anche il concetto di famiglia “non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”; ma, per altro verso, che tale interpretazione “evolutiva” “non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”, sicché “Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa” (n. 9. del Considerato in diritto).
In secondo luogo, e più in generale, la predetta argomentazione difensiva, per così dire, “prova troppo”, perché la Costituzione, non essendo stata ovviamente concepita e formulata in un “vuoto normativo”, richiama innumerevoli volte concetti, nozioni ed istituti che, elaborati nelle varie branche del diritto, acquistano, con il recepimento nel testo costituzionale, significati nuovi e diversi e, soprattutto, natura, valore e forza propri delle norme costituzionali e, quindi, l’idoneità a costituire parametri del controllo di costituzionalità (si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’art. 22 Cost., secondo il quale “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome [corsivi aggiunti]”, dove tali termini giuridici sono stati appunto mutuati dal codice civile e dalla legge ordinaria sulla cittadinanza n. 555 del 1912, allora vigente).
3.2. – Tuttavia, proprio alcune nuove ed importanti affermazioni, contenute nella stessa sentenza n. 138 del 2010 e relative allo scrutinio della questione sollevata in riferimento all’art. 2 Cost., potrebbero far sorgere il dubbio che il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso possa derivare immediatamente da tale “principio fondamentale” della Costituzione. Come sarà subito chiaro, neppure da queste affermazioni può dedursi che esse comportino, secondo la Corte, il riconoscimento costituzionale di tale diritto.
La Corte – dopo aver precisato che per “formazione sociale”, di cui all’art. 2 Cost., “deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” – ha affermato: “In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza” (n. 8. del Considerato in diritto).
Con tali espressioni, la Corte ha in definitiva affermato: a) per la prima volta, che nelle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost. deve comprendersi anche “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”, con la conseguenza che le singole persone componenti tale formazione sociale sono titolari del “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, diritto fondamentale che, derivante immediatamente dall’art. 2, discende anche dall’art. 3, primo comma, Cost., laddove questo assicura la “pari dignità sociale” di tutti (i cittadini) e la loro uguaglianza davanti alla legge, “senza distinzione di sesso”, e quindi vieta qualsiasi atteggiamento o comportamento omofobo e qualsiasi discriminazione fondata sull’identità o sull’orientamento omosessuale; b) che, fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto “inviolabile”, qualsiasi formalizzazione giuridica della unione omosessuale “necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia”, con la conseguenza che, “nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”; c) che deve essere escluso che l’aspirazione a tale riconoscimento giuridico “possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”; d) che deve, comunque, ritenersi “riservata” a se stessa “la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)”, potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
L’attenta analisi di queste nuove ed importanti affermazioni – di cui il giudice comune deve comunque tener conto nella risoluzione dei casi volta a volta sottopostigli – consente di sottolineare, per quanto in questa sede interessa: da un lato, che l’art. 2 della Costituzione non riconosce il diritto al matrimonio delle persone dello stesso sesso e neppure vincola il legislatore a garantire tale diritto quale forma esclusiva del riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale, vale a dire ad “equiparare” le unioni omosessuali al matrimonio; per altro verso, che il “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, derivante invece immediatamente dall’art. 2 Cost., comporta che i singoli (o entrambi i) componenti della “coppia omosessuale” hanno il diritto di chiedere, “a tutela di specifiche situazioni” e “in relazione ad ipotesi particolari”, un “trattamento omogeneo” a quello assicurato dalla legge alla “coppia coniugata”, omogeneizzazione di trattamento giuridico che la Corte costituzionale “può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
A quest’ultimo riguardo, la Corte richiama esplicitamente due specifici precedenti: 1) con la sentenza n. 404 del 1988, è stata dichiarata “la illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani}, nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio”, nonché la illegittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, della medesima legge n. 392 del 1978, “nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto”, per violazione del principio di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.); 2) con la sentenza n. 559 del 1989, è stata dichiarata “la illegittimità costituzionale dell’art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 (Disciplina delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell’art. 2, comma secondo, della legge 5 agosto 1978, n. 457, in attuazione della deliberazione CIPE pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 348 in data 19 dicembre 1981), nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole”, per violazione dell’art. 2 Cost. (“Questa Corte ha già altra volta riconosciuto indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione, e ha individuato in tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale: cfr. sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987”: n. 3. del Considerato in diritto).
È certo, pertanto, che la Corte costituzionale ha escluso che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto dall’art. 2 della nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso, anche se alcune delle su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti, comportano – come si vedrà più oltre (cfr., infra, n. 4.2.) – rilevanti conseguenze sul piano della tutela giurisdizionale dell’unione omosessuale.
3.3. – Con la già menzionata sentenza 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), di poco successiva a quella della Corte costituzionale dianzi richiamata, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha affrontato – per la prima volta – la questione se due persone dello stesso sesso “possono affermare di avere il diritto di contrarre matrimonio” (p.50).
3.3.1. – Al riguardo – per la migliore comprensione del successivo discorso -, è indispensabile premettere il quadro normativo di riferimento e le connesse questioni concernenti l’efficacia delle menzionate norme, convenzionale e comunitaria, nell’ordinamento italiano.
- A) L’art. 12 (che reca la rubrica: “Diritto al matrimonio”) della CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce: “Uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”.
A sua volta, l’art. 14 della stessa Convenzione (che reca la rubrica: “Divieto di discriminazione”) dispone, tra l’altro, che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza distinzione di alcuna specie, come di sesso […]” e va letto, con riferimento alla fattispecie, in relazione al precedente art. 8 (che reca la rubrica: “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”), laddove (paragrafo 1) statuisce che “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”.
- B) L’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cosiddetta “Carta di Nizza”, ivi proclamata il 7 dicembre 2000, e nuovamente proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, in vista della firma del Trattato di Lisbona) stabilisce: “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”
Tale articolo – come pure i su menzionati articoli della Convenzione Europea – debbono essere interpretati in relazione con: 1) l’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) – come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009 -, il quale stabilisce: “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati [paragrafo 1, primo comma]. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati [secondo comma]. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni [terzo comma]. L’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati [paragrafo 2]. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali [paragrafo 3]”;
2) l’art. 51 della Carta (che reca la rubrica “Ambito di applicazione” ed è compreso nel Titolo VII, concernente “Disposizioni generali che disciplinano l’interpretazione e l’applicazione della Carta” e richiamato dal su menzionato art. 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE) statuisce: “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati [paragrafo 1]. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati [paragrafo 2]”;
3) l’art. 52, paragrafo 3, della stessa Carta (che reca la rubrica “Portata e interpretazione dei diritti e dei principi” ed è parimenti compreso nel Titolo VII) dispone: “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”.
3.3.2. – Dev’essere a questo punto ancora chiarito, in riferimento alla preliminare questione se l’art. 9 della Carta sia immediatamente applicabile nella specie, che la specifica fattispecie oggetto del presente giudizio – concernente la trascrivibilità, o no, nei registri dello stato civile italiano di un atto di matrimonio di cittadini italiani dello stesso sesso celebrato all’estero – è del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell’Unione Europea ed inoltre è priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell’Unione.
Tale chiarimento si rende necessario perché i ricorrenti, con la memoria di cui all’art. 378 cod. proc. civ., hanno formulato la richiesta di “valutare la sussistenza dei presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, affinché […] chiarisca quale sia l’interpretazione più corretta da dare al disposto combinato degli artt. 9, 21, 51, 52, 53, 54 della Carta di Nizza, in considerazione del riflesso di tale interpretazione sul diritto di libertà di circolazione dei cittadini Europei nell’ambito del territorio dell’Unione”.
Il senso di tale richiesta si basa sulla non del tutto esplicitata considerazione che due cittadini dello stesso sesso di uno degli Stati membri dell’Unione, i quali abbiano contratto matrimonio in uno di tali Stati che riconosca un matrimonio siffatto, non potrebbero stabilirsi, con il medesimo status di coniugi, in altro Stato membro che non riconosca invece il matrimonio omosessuale, con conseguente lesione della loro libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri, garantita dall’art. 21, paragrafo 1 (ex art. 18, paragrafo 1, del TCE), del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), come avvenuto nella specie.
Al riguardo, deve sottolinearsi che la Corte costituzionale, proprio sulla base di un’articolata interpretazione dei su riportati artt. 6, paragrafo 1, secondo comma, del TUE e dell’art. 51 della Carta -nonché del costante orientamento seguito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea sia anteriore che successivo all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr., ex plurimis, la sentenza 29 maggio 1997, nella causa C-299/95, Kremzow; l’ordinanza 6 ottobre 2005, nella causa C-328/04, Attila Vajnai; la sentenza 5 ottobre 2010, nella causa C-400/10, Me B, L. E., nonché la più recente sentenza 15 novembre 2011, nella causa C-256/11, Dereci) – ha affermato il seguente principio: “Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è […] che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto Europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto”; con la conseguenza che tale principio esclude “che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione Europea” (n. 5.5. del Considerato in diritto; per un’applicazione esplicita di tale principio, cfr. la sentenza di questa Corte n. 22751 del 2010).
Alla luce di tali consolidati principi, è del tutto evidente, perciò, che la su specificata fattispecie, oggetto del presente giudizio, risulta del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell’Unione Europea, ed inoltre priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell’Unione.
Decisivo al riguardo è il rilievo che lo stesso art. 9 della Carta, nel riconoscere il “diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, riserva tuttavia ai singoli Stati membri dell’Unione il compito di garantirli nei rispettivi ordinamenti “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, in tal modo esplicitamente chiarendo che la disciplina generale concernente la garanzia di tali diritti è “materia” attribuita alla competenza di ciascuno degli stessi Stati membri.
Deve in ogni caso aggiungersi che, secondo la Corte di giustizia dell’Unione Europea, “Il diritto alla libera circolazione comprende sia il diritto per i cittadini dell’Unione Europea di entrare in uno Stato membro diverso da quello di cui sono originari, sia il diritto di lasciare quest’ultimo” (cfr. la sentenza 17 novembre 2011, nella causa C-434/10, Aladzhov), sicché appare chiaro che l’impedimento denunciato dai ricorrenti è di mero fatto, non implicando alcuna lesione della loro libertà di circolazione e di soggiorno (gli stessi ricorrenti hanno contratto matrimonio nel Regno dei Paesi Bassi e si sono poi stabiliti in Italia nel Comune di Latina) e dipendendo inoltre, si ribadisce, dalla attribuzione a ciascuno Stato membro dell’Unione della libera scelta di garantire o no il diritto al matrimonio omosessuale.
3.3.3. – La Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la richiamata sentenza 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), pronunciata in un caso del tutto analogo a quello in esame – due cittadini austriaci di sesso maschile avevano chiesto all’ufficio dello stato civile di adempiere le formalità richieste per contrarre matrimonio e, a fronte della reiezione della richiesta, avevano dedotto di essere stati discriminati, in violazione degli artt. 12 e 14, in relazione all’art. 8, della Convenzione, in quanto, essendo una coppia omosessuale, era stata loro negata la possibilità di contrarre matrimonio o di far riconoscere la loro relazione dalla legge in altro modo -, ha ritenuto tra l’altro, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’art. 12 e, a maggioranza, che non vi è stata violazione dell’art. 14, in relazione all’art. 8, della Convenzione.
Nonostante tale dispositivo di rigetto delle richieste dei ricorrenti, la sentenza contiene importanti novità sull’interpretazione sia dell’art. 12 sia dell’art. 14 della Convenzione.
A proposito dell’interpretazione dell’art. 12 della CEDU, operata dalla Corte Europea in “combinato disposto” con l’art. 9 della Carta (cfr., supra, n. 3.3.1.), è opportuno richiamare le “spiegazioni” della stessa Carta – di cui al quinto capoverso del Preambolo ed al paragrafo 7 dell’art. 52 della stessa Carta (“[…] la Carta sarà interpretata dai giudici dell’Unione e degli Stati membri tenendo in debito conto le spiegazioni elaborate sotto l’autorità del Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta e aggiornate sotto la responsabilità del Praesidium della Convenzione Europea”), nonché del su riportato art. 6, paragrafo 1, terzo comma, del TUE (“I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni”) -, in quanto esse, “pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione” (così, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 138 del 2010, n. 10 del Considerato in diritto).
Orbene, nelle “spiegazioni” all’art. 52, paragrafo 3, è detto: “Il paragrafo 3 [dell’art. 52] intende assicurare la necessaria coerenza tra la Carta e la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo affermando la regola secondo cui, qualora i diritti della presente Carta corrispondano ai diritti garantiti anche dalla CEDU, il loro significato e la loro portata, comprese le limitazioni ammesse, sono identici a quelli della CEDU. […] Il riferimento alla CEDU riguarda sia la Convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di tali strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione Europea. L’ultima frase del paragrafo è intesa a consentire all’Unione di garantire una protezione più ampia. La protezione accordata dalla Carta non può comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU. […] In appresso è riportato l’elenco dei diritti che, in questa fase e senza che ciò escluda l’evoluzione del diritto, della legislazione e dei Trattati, possono essere considerati corrispondenti a quelli della CEDU ai sensi del presente paragrafo. […] 2. Articoli della Carta che hanno significato identico agli articoli corrispondenti della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ma la cui portata è più ampia: – l’articolo 9 copre la sfera dell’art. 12 della CEDU, ma il suo campo d’applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale […]” (corsivi aggiunti).
Inoltre, nella stesse “spiegazioni”, concernenti specificamente l’art. 9, è detto: “Questo articolo si basa sull’articolo 12 della CEDU […]. La formulazione di questo diritto è stata aggiornata al fine di disciplinare i casi in cui le legislazioni nazionali riconoscono modi diversi dal matrimonio per costituire una famiglia. L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Questo diritto è pertanto simile a quello previsto dalla CEDU, ma la sua portata può essere più estesa qualora la legislazione nazionale lo preveda [corsivo aggiunto]”.
Tali spiegazioni, nell’attestare la strettissima correlazione tra la Convenzione e la Carta normativamente sancita dall’art. 52, paragrafo 3, della Carta, che “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, primo comma, del TUE -, danno conto a sufficienza delle ragioni per le quali la Corte Europea ha interpretato l’art. 12 della Convenzione in “combinato disposto” con l’art. 9 della Carta, il quale “copre la sfera dell’art. 12 della CEDU, ma il suo campo d’applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale”.
Tanto premesso, la Corte Europea, in particolare: a) quanto all’interpretazione dell’art. 12 (cfr., supra, n. 3.3.1., lettera A) – dopo aver rammentato la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui “l’articolo 12 garantisce il diritto fondamentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia. L’esercizio di questo diritto da origine a conseguenze personali, sociali e giuridiche. Esso è soggetto alle leggi nazionali degli Stati Contraenti, ma le limitazioni introdotte in merito non devono limitare o ridurre il diritto in modo o in misura tale da minare l’essenza stessa del diritto […]” -, ha affermato, tra l’altro, che:
1) “[…] esaminata isolatamente, la formulazione dell’articolo 12 [Uomini e donne] potrebbe essere interpretata in modo da non escludere il matrimonio tra due uomini o tra due donne. Tuttavia, in antitesi, tutti gli altri articoli sostanziali della Convenzione concedono diritti e libertà a tutti o dichiarano che nessuno deve essere sottoposto a certi tipi di trattamento proibito. La scelta della formulazione dell’articolo 12 deve pertanto essere considerata intenzionale. Inoltre, si deve tenere conto del contesto storico in cui è stata adottata la Convenzione. Nel 1950 il matrimonio era inteso chiaramente nel senso tradizionale di unione tra partner di sesso diverso” (p.55);
2) “[…] l’incapacità per una coppia di concepire o di procreare un figlio non inibisce di per sé il diritto di contrarre matrimonio […]. Tuttavia, tale decisione non permette alcuna conclusione sulla questione del matrimonio omosessuale” (p.56);
3) “Secondo la tesi dei ricorrenti si deve leggere attualmente l’articolo 12 come concedente alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio o, in altre parole, come facente obbligo agli Stati Membri di prevedere tale accesso nelle loro legislazioni nazionali. […] La Corte non è persuasa della tesi dei ricorrenti. Tuttavia, come essa ha osservato nel ricorso di Christine Goodwin, l’istituto del matrimonio ha subito importanti cambiamenti sociali dall’adozione della Convenzione […] La Corte osserva che non vi è un consenso generale Europeo in materia di matrimonio omosessuale. Attualmente non più di sei Stati aderenti alla Convenzione su quarantasette permettono il matrimonio omosessuale” (p. 57 e 58);
4) “Passando alla comparazione tra l’articolo 12 della Convenzione e l’articolo 9 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (la Carta), la Corte ha già osservato che quest’ultima ha volutamente evitato il riferimento agli uomini e alle donne […]. Il Commentario alla Carta, che è divenuto giuridicamente vincolante nel dicembre 2009, conferma che l’articolo 9 intende avere un campo di applicazione più ampio dei corrispondenti articoli di altri strumenti relativi ai diritti umani […]. Allo stesso tempo il riferimento alla legislazione nazionale riflette la diversità dei regolamenti nazionali, che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto. Facendo riferimento alla legislazione nazionale, l’articolo 9 della Carta lascia decidere agli Stati se permettere o meno i matrimoni omosessuali. Nelle parole del commentario: … si può sostenere che non vi è ostacolo al riconoscimento delle relazioni omosessuali nel contesto del matrimonio. Tuttavia non vi è alcuna disposizione esplicita che prevede che le legislazioni nazionali debbano facilitare tali matrimoni [corsivo aggiunto]” (p. 60);
5) “Visto l’articolo 9 della Carta, pertanto, la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’articolo 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale [corsivo aggiunto]” (p. 61);
6) “A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società […] In conclusione, la Corte ritiene che l’articolo 12 della Convenzione non faccia obbligo allo Stato convenuto di concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti” (p. 62 e 63);
- b) quanto all’interpretazione dell’art. 14, in relazione all’art. 8 (cfr., supra, n. 3.3.1., lettera A), ha affermato, tra l’altro, che:
1) “È indiscusso nel presente caso che la relazione di una coppia omosessuale come i ricorrenti rientri nella nozione di vita privata nell’accezione dell’articolo 8. Tuttavia, alla luce dei commenti delle parti la Corte ritiene opportuno determinare se la loro relazione costituisce anche una vita familiare [corsivo aggiunto]” (p. 90);
2) “La Corte ribadisce la sua giurisprudenza radicata in materia di coppie eterosessuali, vale a dire che la nozione di famiglia in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio”. […] (corsivo aggiunto) (p. 91);
3) “In antitesi, la giurisprudenza della Corte ha accettato solo che la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisca vita privata, ma non ha ritenuto che essa costituisca vita familiare, anche se era in gioco una relazione durevole tra partner conviventi. Nel giungere a tale conclusione, la Corte ha osservato che nonostante la crescente tendenza negli Stati Europei verso un riconoscimento giuridico e giudiziario di unioni di fatto stabili tra omosessuali, data l’esistenza di poche posizioni comuni tra gli Stati contraenti, questa era un’area in cui essi godevano ancora di un ampio margine di discrezionalità […]. Nel caso di Karner […], relativo al subentro del partner di una coppia omosessuale nei diritti locativi del partner deceduto, che rientrava nella nozione di abitazione, la Corte ha esplicitamente lasciato aperta la questione di decidere se il caso riguardasse anche la vita privata e familiare del ricorrente” (p. 92);
4) “La Corte osserva che dal 2001 […] ha avuto luogo in molti Stati Membri una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali. A partire da quel momento un notevole numero di Stati Membri ha concesso il riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali […] Certe disposizioni del diritto dell’UE riflettono anche una crescente tendenza a comprendere le coppie omosessuali nella nozione di famiglia […]” (p. 93);
5) “Data quest’evoluzione la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione [corsivo aggiunto]” (p. 94).
3.3.4. – È noto che, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, l’interpretazione e l’applicazione delle norme della Convenzione, pur essendo affidata ai giudici degli Stati contraenti, è attribuita, in via definitiva, alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, la cui competenza appunto “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste” dalla Convenzione medesima, con la conseguenza che detti giudici hanno il dovere di interpretare la norma interna in modo conforme alla norma convenzionale fintantoché ciò sia reso possibile dal testo di tale norma e, in caso di impossibilità dell’interpretazione “conforme”, di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con la norma convenzionale “interposta”, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.; con l’ulteriore conseguenza che l’interpretazione data dalla Corte Europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il “diritto vivente” della Convenzione (cfr. l’art. 32 della CEDU; cfr., altresì, ex plurimis, le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, n. 80 del 2011 e n. 15 del 2012).
Ciò premesso, l’analisi dei su riportati brani della sentenza della Corte Europea mostra inequivocabilmente che essa contiene due novità sostanziali rispetto alla precedente giurisprudenza concernente l’interpretazione degli artt. 12 e 14 della Convenzione, novità correlate alla novità del caso sottoposto all’esame della Corte.
- A) La prima novità attiene appunto alla questione se il diritto al matrimonio, riconosciuto dall’art. 12 della Convenzione, comprenda anche il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La risposta della Corte non lascia adito a dubbi: “Visto l’articolo 9 della Carta […], la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’articolo 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”.
Al riguardo, deve sottolinearsi che:
1) la ratio decidendi si fonda – per le ragioni già dette – sull’interpretazione non del solo art. 12, ma di tale disposizione in “combinato disposto” con l’art. 9 della Carta che, pur avendo “significato identico” a quello dell’art. 12, ha tuttavia “portata più ampia”, in quanto “il suo campo d’applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale” (cfr., supra, n. 3.3.3.): si fonda, cioè, sull’interpretazione del diritto fondamentale al matrimonio secondo il criterio magis ut valeat;
2) la ratio decidendi, inoltre, costituisce vero e proprio Overruling (“[…] la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto […]”) rispetto alla precedente giurisprudenza richiamata dalla stessa Corte, secondo la quale “l’articolo 12 garantisce il diritto fondamentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia”;
3) conseguentemente, il diritto al matrimonio riconosciuto dall’art. 12 ha acquisito, secondo l’interpretazione della Corte Europea – la quale costituisce radicale “evoluzione” rispetto ad “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio” -, un nuovo e più ampio contenuto, inclusivo anche del matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso (cfr., supra, nn. 3.3.1., lettera B, e 3.3.3.);
4) secondo la Corte, tuttavia – in piena conformità con l’inequivocabile tenore letterale degli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta -, la “garanzia” del diritto ad un matrimonio siffatto è totalmente riservata al potere legislativo degli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell’Unione Europea (“Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”); ed è proprio per questa ragione che la Corte ha potuto affermare che, nel caso sottopostole, “l’articolo 12 della Convenzione non fa[ccia] obbligo allo Stato convenuto [nella specie, l’Austria] di concedere l’accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti”.
A quest’ultimo riguardo, secondo l’impostazione della Corte, le ora richiamate disposizioni, pur “riconoscendo” detti diritti, sono state tuttavia formulate in modo tale da separare il “riconoscimento” dalla “garanzia” degli stessi: infatti, l’art.12 della CEDU riconosce “il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia”, ma “secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”; corrispondentemente, l’art. 9 della Carta riconosce “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, ma al contempo afferma che questi diritti “sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. E la ragione di questa “separazione” – come emerge nitidamente dalla motivazione della sentenza della Corte Europea – sta nella constatazione delle notevoli ed a volte profonde differenze sociali, culturali e giuridiche, che ancora connotano le discipline legislative della famiglia e del matrimonio dei Paesi aderenti alla Convenzione e/o membri dell’Unione Europea.
- B) La seconda novità attiene alla questione se la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di “vita familiare” nell’accezione dell’articolo 8 della Convenzione.
Anche su tale questione la risposta della Corte è chiarissima: “Data quest’evoluzione [sociale e giuridica] la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”.
Questa estensione alla coppia omosessuale stabilmente convivente del diritto alla “vita familiare” costituisce coerente conseguenza del riconoscimento ai singoli componenti tale coppia, da parte della Corte Europea, del diritto al matrimonio e del diritto di fondare una famiglia ed attesta ancora una volta la necessità di distinguere tra riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, altre forme di riconoscimento giuridico della stabile convivenza della coppia omosessuale e riconoscimento ai singoli componenti tale unione di altri diritti fondamentali.
- – Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, può pervenirsi – ferma restando la decisione di infondatezza del ricorso in esame – ad una risposta maggiormente articolata alle questioni – più generale e specifica – poste a questa Corte dalla presente fattispecie (cfr., supra, n. 2.1.), segnatamente in relazione agli effetti, nell’ordinamento giuridico italiano, della sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 (cfr., supra, nn. 3.1. e 3.2.) e della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo 24 giugno 2010 (cfr., supra, n. 3.3.3.).
4.1. – Occorre muovere dal rilievo che, se il diritto di contrarre matrimonio è diritto fondamentale -in quanto derivante dagli artt. 2 e 29 Cost. ed espressamente riconosciuto, come più volte rilevato, dall’art. 16, paragrafo 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, dall’art. 12 della CEDU del 1950, dall’art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 e dall’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000-2007 -, esso spetta “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, cioè alla persona in quanto tale (cfr., ex plurimis, Corte costituzionale, sentenze nn. 105 del 2001, 249 del 2010, 245 del 2011 cit.).
Il riconoscimento di tale diritto fondamentale comporta necessariamente non soltanto l’appartenenza di esso al patrimonio giuridico costitutivo ed irretrattabile del singolo individuo quale persona umana, ma anche la effettiva possibilità del singolo individuo di farlo valere erga omnes e di realizzarlo, nel che consiste la “garanzia” del suo “riconoscimento”, secondo l’inscindibile binomio contenuto nell’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili […]”).
La sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 ha negato fondamento costituzionale al diritto al matrimonio tra due persone dello stesso sesso, in riferimento sia agli artt. 3 e 29, sia all’art. 2 Cost. Dunque, il suo riconoscimento e la sua garanzia – cioè l’eventuale disciplina legislativa diretta a regolarne l’esercizio -, in quanto non costituzionalmente obbligati, sono rimessi alla libera scelta del Parlamento; ciò che trova espressa conferma negli artt. 12 della CEDU e 9 della Carta, i quali riservano appunto alla disciplina legislativa dei singoli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell’Unione Europea la garanzia del “diritto al matrimonio” (CEDU) e dei diritti “di sposarsi e di costituire una famiglia” (Carta).
Secondo la sentenza della Corte Europea 24 giugno 2010, invece, il diritto al matrimonio, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta, include anche quello al matrimonio di persone dello stesso sesso, quale “nuovo contenuto” ermeneuticamente emergente proprio dai predetti diritti riconosciuti dalla Convenzione e dalla Carta, fermo restando tuttavia che la sua garanzia è rimessa al potere legislativo dei singoli Stati (“Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato Contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale. […] A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società”).
Tale “riserva assoluta di legislazione nazionale”, per così dire, non significa, però, che le menzionate norme, convenzionale e comunitaria non spieghino alcun effetto nell’ordinamento giuridico italiano, fintantoché il Parlamento – libero di scegliere, sia nell’an sia nel quomodo – non garantisca tale diritto o preveda altre forme di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali. Dette norme, invece – attraverso gli “ordini di esecuzione” contenuti nelle su citate leggi che hanno autorizzato la ratifica e l’esecuzione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e del Trattato sull’Unione Europea -, sono già da tempo entrate a far parte integrante dell’ordinamento giuridico italiano e devono essere interpretate in senso “convenzionalmente conforme”.
Ed allora, il limitato ma determinante effetto dell’interpretazione della Corte Europea – secondo cui “la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto” -, sta nell’aver fatto cadere il postulato implicito, il requisito minimo indispensabile a fondamento dell’istituto matrimoniale, costituito dalla diversità di sesso dei nubendi e, conseguentemente, nell’aver ritenuto incluso nell’art. 12 della CEDU anche il diritto al matrimonio omosessuale (cfr., supra, n. 2.2.2.). La Corte Europea, in altri termini, sulla base della ricognizione delle differenze, anche profonde, delle legislazioni nazionali in materia, “che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto”, ha (soltanto) rimosso l’ostacolo – la diversità di sesso dei nubendi appunto – che impediva il riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, riservando tuttavia la garanzia di tale diritto alle libere opzioni dei Parlamenti nazionali.
4.2. – Le considerazioni che precedono consentono di pervenire ad una prima conclusione circa la più generale questione se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il diritto fondamentale di contrarre matrimonio.
Come già sottolineato (cfr., supra, nn. 3.2. e 4.1.), la sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010, pur negando specifico fondamento costituzionale al riconoscimento del diritto al matrimonio di persone dello stesso sesso, ha tuttavia affermato: che nelle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost. è inclusa “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”; che fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto “inviolabile”, “nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”, e che, tuttavia, resta “riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)”, potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
A sua volta, la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo 24 giugno 2010 (cfr., supra, n. 3.3.3.) ha affermato anche che “la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8”, e che “Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”.
Ed allora, le su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti da parte della Corte costituzionale, non danno adito a dubbi circa il senso e, soprattutto, gli effetti dei dieta delle due Corti nell’ordinamento giuridico italiano.
I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se – secondo la legislazione italiana – non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia -, quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti, applicabili nelle singole fattispecie, in quanto ovvero nella parte in cui non assicurino detto trattamento, per assunta violazione delle pertinenti norme costituzionali e/o del principio di ragionevolezza.
4.3. – Le medesime considerazioni consentono di pervenire all’altra conclusione circa la specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero – come nella specie -, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.
La risposta negativa, già data, si fonda però su ragioni diverse da quella, finora ripetutamente affermata, della “inesistenza” di un matrimonio siffatto per l’ordinamento italiano.
Infatti, se nel nostro ordinamento è compresa una norma – l’art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte Europea -, che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi nel senso dianzi specificato (cfr., supra, n. 4.1.), ne segue che la giurisprudenza di questa Corte – secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è, unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante – non si dimostra più adeguata alla attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per cosi dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio. Per tutte le ragioni ora dette, l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende -non più dalla loro “inesistenza” (cfr., supra, n. 2.2.2.), e neppure dalla loro “invalidità”, ma – dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano.
- – La novità di tutte le questioni trattate giustifica la compensazione integrale delle spese del presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Dispone, ai sensi dell’art. 52 del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che nel caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
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