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RECICLAGGIO CONDANNA VENEZIA- cassazione rigetta

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RECICLAGGIO CONDANNA VENEZIA

PENALE SOCIETARIO
RECICLAGGIO CONDANNA VENEZIA- cassazione rigetta

RECICLAGGIO CONDANNA VENEZIA- cassazione rigetta

Ha proposto ricorso per cassazione l’Avv. Marco Rocchi, deducendo con il primo motivo, la violazione di norme processuali previste a pena di nullità in relazione alla dichiarata competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Venezia; la Corte d’appello, condividendo l’assunto dei giudici di primo grado, aveva ritenuto che la competenza territoriale dovesse essere determinata ai sensi dell’art. 16 c.p.p., poiché all’imputato veniva contestato sia il delitto continuato di ricettazione e riciclaggio di cui al capo B), sia il concorso nel delitto di riciclaggio di cui al capo A), commesso in data anteriore rispetto a quello descritto nel capo B) e rispetto al quale la consumazione e, quindi, la competenza territoriale doveva essere determinata considerando la prima condotta tipica, individuata nella consegna del denaro di provenienza delittuosa (che sarebbe poi stato oggetto delle successive operazioni di riciclaggio). Tale criterio era erroneo, poiché il mero passaggio materiale del denaro non poteva costituire condotta idonea al perfezionamento del delitto di riciclaggio, trattandosi di operazione priva di qualsiasi attitudine ad ostacolare la provenienza delittuosa; quella condotta, ove qualificabile quale corrispondente al delitto di ricettazione, era avvenuta in un’epoca (negli anni ’80) in cui al B. non veniva addebitato alcun fatto di reato; non rilevava neppure la connessione ai sensi dell’art. 12, lett. c), c.p.p. poiché le condotte contestate al capo B) costituivano il nucleo del contributo a titolo di concorso nel capo A), unico delitto di riciclaggio così come contestato.

SEPARAZIONE CON ADDEBITO : TRIBUNALE DI BOLOGNA
SEPARAZIONE CON ADDEBITO : TRIBUNALE
DI BOLOGNA

reato di riciclaggio così come contestato, trattandosi pacificamente di reato che si caratterizza per l’esistenza di più condotte consumative del reato, attuate in tempi diversi tra loro collegati dal nesso funzionale che le legava e con riferimento ad un medesimo oggetto (ossia, l’ingente ammontare dei capitali che Felice M. aveva affidato ai suoi congiunti e in particolare al D.C.), rispetto al quale siano stati eseguiti atti giuridici di trasferimento su conti presso diversi istituti bancari, anche con impiego delle somme in forme di investimento diversificate, configurandosi così un unico reato a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere (Sez. 2, n. 29869 del 23 giugno 2016, Re, Rv. 267856-01, relativa ad una fattispecie riguardante plurime condotte di “sostituzione” di danaro provento di reato attuate attraverso operazioni su conti correnti bancari). Né colgono nel segno le reiterate deduzioni difensive circa l’impossibilità di attribuire al ricorrente operazioni e condotte realizzate materialmente da altri soggetti, come per l’apertura del conto presso il CPC dopo la chiusura del conto in essere presso la Deutsche Bank: un siffatto argomentare sembra ignorare che le dette operazioni non devono essere considerate come condotte tra loro isolate ed indipendenti ma, al contrario, proprio sulla scorta degli esiti dell’istruttoria di cui hanno dato conto in dettaglio le sentenze di merito, vanno collocate nel contesto che le accomunava in quanto “riconducibili all’obiettivo comune cui [erano] finalizzate[e], ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro” (Sez. 2, n. 7257 del 13 novembre 2019, cit., che riguardava una fattispecie perfettamente sovrapponibile, caratterizzata dall’apertura in successione di plurimi rapporti di conto corrente da parte del medesimo soggetto, indagato per il delitto di riciclaggio delle somme di provenienza delittuosa che aveva in tal modo gestito nel tempo).

reato di riciclaggio così come contestato, trattandosi pacificamente di reato che si caratterizza per l’esistenza di più condotte consumative del reato, attuate in tempi diversi tra loro collegati dal nesso funzionale che le legava e con riferimento ad un medesimo oggetto (ossia, l’ingente ammontare dei capitali che Felice M. aveva affidato ai suoi congiunti e in particolare al D.C.), rispetto al quale siano stati eseguiti atti giuridici di trasferimento su conti presso diversi istituti bancari, anche con impiego delle somme in forme di investimento diversificate, configurandosi così un unico reato a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere (Sez. 2, n. 29869 del 23 giugno 2016, Re, Rv. 267856-01, relativa ad una fattispecie riguardante plurime condotte di “sostituzione” di danaro provento di reato attuate attraverso operazioni su conti correnti bancari). Né colgono nel segno le reiterate deduzioni difensive circa l’impossibilità di attribuire al ricorrente operazioni e condotte realizzate materialmente da altri soggetti, come per l’apertura del conto presso il CPC dopo la chiusura del conto in essere presso la Deutsche Bank: un siffatto argomentare sembra ignorare che le dette operazioni non devono essere considerate come condotte tra loro isolate ed indipendenti ma, al contrario, proprio sulla scorta degli esiti dell’istruttoria di cui hanno dato conto in dettaglio le sentenze di merito, vanno collocate nel contesto che le accomunava in quanto “riconducibili all’obiettivo comune cui [erano] finalizzate[e], ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro” (Sez. 2, n. 7257 del 13 novembre 2019, cit., che riguardava una fattispecie perfettamente sovrapponibile, caratterizzata dall’apertura in successione di plurimi rapporti di conto corrente da parte del medesimo soggetto, indagato per il delitto di riciclaggio delle somme di provenienza delittuosa che aveva in tal modo gestito nel tempo).

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Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 8 aprile 2021, n. 38105

Presidente: Diotallevi – Estensore: Di Paola

RITENUTO IN FATTO

  1. La Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 12 maggio 2020, confermava la condanna pronunciata nei confronti di B. Michele dal Tribunale di Venezia in data 14 febbraio 2019, in ordine al delitto di riciclaggio contestato.
  2. Ha proposto ricorso per cassazione l’Avv. Marco Rocchi, deducendo con il primo motivo, la violazione di norme processuali previste a pena di nullità in relazione alla dichiarata competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Venezia; la Corte d’appello, condividendo l’assunto dei giudici di primo grado, aveva ritenuto che la competenza territoriale dovesse essere determinata ai sensi dell’art. 16 c.p.p., poiché all’imputato veniva contestato sia il delitto continuato di ricettazione e riciclaggio di cui al capo B), sia il concorso nel delitto di riciclaggio di cui al capo A), commesso in data anteriore rispetto a quello descritto nel capo B) e rispetto al quale la consumazione e, quindi, la competenza territoriale doveva essere determinata considerando la prima condotta tipica, individuata nella consegna del denaro di provenienza delittuosa (che sarebbe poi stato oggetto delle successive operazioni di riciclaggio). Tale criterio era erroneo, poiché il mero passaggio materiale del denaro non poteva costituire condotta idonea al perfezionamento del delitto di riciclaggio, trattandosi di operazione priva di qualsiasi attitudine ad ostacolare la provenienza delittuosa; quella condotta, ove qualificabile quale corrispondente al delitto di ricettazione, era avvenuta in un’epoca (negli anni ’80) in cui al B. non veniva addebitato alcun fatto di reato; non rilevava neppure la connessione ai sensi dell’art. 12, lett. c), c.p.p. poiché le condotte contestate al capo B) costituivano il nucleo del contributo a titolo di concorso nel capo A), unico delitto di riciclaggio così come contestato.

2.1. Con il secondo motivo si deduce contestualmente il vizio di motivazione, in relazione all’omessa motivazione sulle censure formulate con l’atto di appello, oltre che l’errata applicazione dell’art. 648-bis c.p.

Osserva il ricorrente che in più punti la motivazione della sentenza era in contraddizione con atti del processo: il giudizio di “affidabilità” del chiamante in correità Felice M., fondato dalla sentenza sugli effetti pregiudizievoli scaturiti dalle sue dichiarazioni – sequestro di denaro e immobili e autodenuncia per condotte di autoriciclaggio – era smentito dalla documentazione in atti (non risultando alcun provvedimento cautelare reale in danno del M. ed essendo certificata l’assenza di iscrizioni di notizie di reato a suo carico); la qualifica del ricorrente, come gestore delle somme di provenienza delittuosa, era esclusa dalle stesse dichiarazioni sia del M. che del D.C. (che individuavano altri soggetti deputati a quelle operazioni); l’attendibilità del D.C. era contraddetta in modo evidente sia dal tenore di intercettazioni tra terzi, sia dagli esiti del procedimento di prevenzione nei confronti del D.C., che mettevano in luce la falsità delle dichiarazioni dirette a dimostrare la costrizione del D.C. nell’affidare al B. le somme secondo le direttive del M.

2.2. Con il terzo motivo si deduce vizio della motivazione, ritenuta contraddittoria o manifestamente illogica quanto al giudizio di responsabilità dell’imputato, con travisamento delle prove documentali rappresentate dagli esiti della rogatoria per l’acquisizione della documentazione bancaria in Svizzera. Il ricorrente lamenta l’omessa valutazione delle prove documentali acquisite attraverso la rogatoria, dimostrative della gestione diretta delle somme depositate sul conto “Monastero” da parte della società Gain SA, senza alcun intervento da parte del ricorrente.

2.3. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione, per contraddittorietà e manifesta illogicità, in relazione alla valutazione delle prove, con espresso riferimento alle dichiarazioni rese dal coimputato D.C. nel corso dell’incidente probatorio, a quelle rese dalla teste G. Morena, convivente del D.C., al contenuto delle intercettazioni e alle prove documentali, con plurimi profili di travisamento di tali prove. In particolare, il ricorrente censura la ricostruzione relativa all’attribuzione della paternità del manoscritto e del documento dattiloscritto, ove erano riportate le vicende relative alle operazioni di investimento e disinvestimento eseguite in Svizzera che, per dati logici e indicazioni desumibili dalle intercettazioni, andavano attributi non al ricorrente ma esclusivamente al D.C.

2.4. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione, per contraddittorietà e manifesta illogicità, in relazione alla valutazione delle prove, con espresso riferimento alle dichiarazioni rese da Felice M., a quelle del coimputato D.C. raccolte nel corso dell’incidente probatorio, a quelle dei testi Marta Bi. e Alessandro Bi., al contenuto delle intercettazioni e alle prove documentali, con plurimi profili di travisamento di tali prove. Le dichiarazioni di Felice M. sull’incontro presso l’abitazione del B. erano generiche e contraddette dalla presenza della convivente del B., non indicata dal M.; le dichiarazioni della teste Marta Bi. erano state condizionate dalle pressioni del M., come risultava da intercettazioni non considerate dalla sentenza impugnata; non era stata valutata la posizione processuale della Bi., raggiunta da indizi in relazione all’apertura di un conto bancario a Montecarlo su disposizione del M.

2.5. Con il sesto motivo si deduce la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con cui sono state negate le circostanze attenuanti generiche, sottolineando l’ostacolo alla ricostruzione della verità processuale, frutto esclusivo del legittimo esercizio delle facoltà difensive.

  1. Ha proposto ricorso per cassazione l’Avv. Giuseppe Nerio Carugno deducendo, con il primo motivo, la violazione di norme processuali previste a pena di nullità in relazione alla dichiarata competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Venezia; con argomenti analoghi a quelli illustrati con il primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Rocchi si censura l’individuazione del luogo di consumazione del delitto connesso di cui al capo A), venendo dunque meno il presupposto della competenza territoriale in ragione della connessione exart. 12, lett. a), c.p.p.; si osserva inoltre che, anche nella prospettiva della connessione exart. 12, lett. c), c.p.p., i fatti contestati al ricorrente con il capo B) rappresentano esattamente le condotte descritte nel capo A), senza che possa dunque ravvisarsi alcun nesso teleologico tra le due imputazioni; infine, si rileva che il concorso nel reato di cui al capo A), posto a fondamento dello spostamento della competenza territoriale, avrebbe riguardato fatti storici certamente successivi all’unico segmento di condotta individuato come avvenuto nel circondario del Tribunale di Venezia.

3.1. Con il secondo motivo si deduce la violazione di norme processuali previste a pena di nullità, in relazione agli artt. 521 e 522 c.p.p., per violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza; mentre nell’imputazione si contestava al B. di aver proceduto al trasferimento delle somme di denaro contante del M., dall’Italia verso la Svizzera, e poi di aver concorso nella condotta di restituzione di quelle somme al M., nella sentenza erano stati accertati fatti mai contestati, riguardanti le operazioni di versamento del denaro sui conti correnti intestati al D.C. e le attività di gestione, mediante forme varie di investimento, di quelle somme con rendicontazione dei risultati degli investimenti al D.C.

3.2. Con il terzo motivo si deduce violazione di norme processuali, previste a pena di nullità ed inutilizzabilità, in relazione all’omessa declaratoria di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Bi. Marta e Bi. Alessandro, che erano stati ascoltati senza le garanzie ex art. 63 c.p.p. pur essendo pacificamente esistenti a loro carico elementi di reità per i delitti di riciclaggio (risultando dalle stesse dichiarazioni della Bi. che ella aveva aperto un conto bancario a Monte Carlo su disposizione del M.) e di concorso in estorsione (per avere preso parte Alessandro Bi. all’attività di recupero delle somme pretese, senza alcuna causale, dal B. facendosi consegnare le somme richieste).

3.3. Con il quarto motivo si deducono congiuntamente violazione di legge, in relazione all’art. 648-bis c.p., e vizio di motivazione, per contraddittorietà o manifesta illogicità, anche in relazione agli artt. 187 e 192 c.p.p., in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto di riciclaggio; violazione di norme processuali previste a pena di nullità, per la mancanza di motivazione in ordine agli elementi di prova a sostegno dell’affermata sussistenza del concorso materiale del B. nel reato di riciclaggio, nonché omesso esame delle censure formulate con l’atto di appello; vizio di motivazione per contraddittorietà o manifesta illogicità, anche in relazione agli artt. 187 e 192 c.p.p., per aver affermato la responsabilità del ricorrente con violazione dei criteri di valutazione della prova al di là di ogni ragionevole dubbio. Le operazioni di apertura dei conti in Svizzera a nome del D.C. e il successivo trasferimento delle somme ivi depositate in altri conti non rilevavano quali condotte di riciclaggio, trattandosi di operazioni regolarmente tracciabili senza alcuna modifica del soggetto cui erano intestati i conti, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità e come attestato dal contenuto delle disposizioni della Banca d’Italia in materia di contrasto alle operazioni di riciclaggio (tra cui non erano comprese, come soggette all’obbligo di segnalazione, quelle disposte da un soggetto su conti intestati a sé o comunque i cui effetti economici erano riferibili allo stesso soggetto); del resto, la Guardia di Finanza aveva individuato agevolmente i conti e i passaggi eseguiti dall’uno all’altro, risultando così carente l’elemento del pericolo concreto richiesto dalla norma incriminatrice. Su tali aspetti la sentenza aveva fornito risposte illogiche richiamando argomentazioni non conferenti, quali la finalità dell’occultamento della provenienza, che non escludeva la necessità dell’accertamento della tipicità della condotta che doveva precedere la realizzazione di operazioni astrattamente lecite; aveva immotivatamente ritenuto che le disposizioni in materia amministrativa di contrasto al riciclaggio non avessero rilievo nella definizione della fattispecie penale. Analoghe valutazioni dovevano essere compiute in relazione agli atti di gestione, realizzati attraverso la società svizzera che aveva curato la gestione del conto aperto dal D.C.

Quanto al profilo del contributo del ricorrente alle condotte di riciclaggio, si censura l’attribuzione delle attività di apertura dei conti e della loro gestione al B., in contrasto con i risultati dell’istruttoria, sia in relazione alle evidenze documentali, sia alle dichiarazioni rese dal titolare dei conti D.C.

3.4. Con il quinto motivo si deduce la violazione di norme processuali previste a pena di nullità, attesa la carenza della motivazione in ordine alla sussistenza di elementi di prova dimostrativi della responsabilità dell’imputato, oltre che per l’assenza di risposte alle censure formulate con l’atto di appello; vizio della motivazione, anche in relazione agli artt. 187 e 192 c.p.p., sul medesimo aspetto della sussistenza degli elementi di prova della responsabilità dell’imputato. In particolare, il ricorrente censura il travisamento delle prove documentali e dichiarative da parte della sentenza impugnata su punti ritenuti decisivi, quali l’attribuzione al B. delle decisioni relative a quali banche scegliere per l’apertura dei conti, così come per la gestione delle somme ivi depositate; il ricorrente richiama a questo riguardo sia brani delle dichiarazioni del D.C. rese nel corso dell’incidente probatorio, sia i dati documentali che attestano la sottoscrizione del contratto con la Deutsche Bank attraverso la mediazione della società Gain SA, che avrebbe poi gestito il conto, mentre nessuna delle operazioni di apertura, o anche di presentazione alla Deutsche Bank, era riferibile all’intervento del B.; analoghe censure rivolge alla motivazione concernente le attività di gestione dei conti, che lo stesso D.C. aveva escluso fossero riferibili al B., come del resto provato dai documenti acquisiti con la rogatoria che dimostravano la completa autonomia della società di gestione nel procedere alle attività di investimento e disinvestimento; ulteriori travisamenti delle prove riguardavano la circostanza della sottoscrizione degli ordini da inviare alla società di gestione (avendo il D.C. riferito di ordini sottoscritti e affidati al B. non per le operazioni di investimento, ma solo per quelle dirette al rientro dei capitali dalla Svizzera); il trasferimento delle somme in Svizzera attraverso una società finanziaria del ricorrente (circostanza inesistente negli atti del processo); la redazione dei documenti, l’uno manoscritto, l’altro dattiloscritto, contenenti le indicazioni essenziali per ricostruire le operazioni eseguite per riciclare i proventi delittuosi del M. (che erroneamente la Corte aveva attribuito il primo al D.C. e il secondo al B., travisando l’esistenza di errori e omissioni che si ripetevano esattamente in entrambi i documenti, a riprova della provenienza dal medesimo soggetto), la loro successione cronologica (come riferita dal D.C. e travisando anche il contenuto delle intercettazioni nel corso delle quali G. Morena aveva ammesso di aver richiesto al D.C. di preparare un documento relativo alle operazioni eseguite in Svizzera).

3.5. Con il sesto motivo si deduce congiuntamente il vizio della motivazione per contraddittorietà o manifesta illogicità, anche in relazione agli artt. 187 e 192 c.p.p., nella parte relativa al giudizio espresso circa la credibilità soggettiva, l’attendibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarato di Felice M. e Riccardo D.C., nonché sulla convergenza di tali dichiarazioni nell’attribuzione di responsabilità al B.; ulteriore vizio della motivazione, sul medesimo tema, sia per la carenza di motivazione, meramente apparente, sia per l’omessa risposta alle censure formulate in grado di appello, sia per il ripetuto travisamento dei risultati delle prove acquisite.

Ad avviso del ricorrente era erroneo il giudizio sull’attendibilità di Felice M., attesa la genericità, l’imprecisione e l’incoerenza del suo narrato; inoltre la sentenza non aveva considerato la censura, espressamente formulata, relativa alla dimostrata inclinazione del M. nel manipolare e minacciare i congiunti affinché rendessero dichiarazioni accusatorie false; la Corte aveva omesso di valutare la portata probatoria sia delle dichiarazioni ammissive del M., sia il contenuto delle intercettazioni che documentavano tali pressioni esercitate sui congiunti; anche il giudizio sull’attendibilità intrinseca era manifestamente illogico, nella misura in cui attribuiva al risentimento del dichiarante nei confronti del cognato D.C. la qualità di indice di spontaneità della chiamata in correità; il giudizio era inoltre contraddetto sotto più profili (entità delle somme conferite al D.C.; epoche di restituzione delle somme; ammontare delle somme restituite) dalle dichiarazioni del D.C. e dalla stessa discordanza degli interrogatori resi; anche le ragioni logiche, individuate nelle conseguenze negative subite per effetto delle dichiarazioni (pregiudizi al patrimonio familiare; sottoposizione ad indagine per il reato di autoriciclaggio) erano contraddette dalla documentazione allegata all’impugnazione; la sentenza aveva svilito i profili di inattendibilità, ritenendo erroneamente che riguardassero aspetti marginali ed irrilevanti (mentre concernevano l’esistenza del previo accordo con il D.C. sul riciclaggio e l’epoca di conoscenza con il B.).

Egualmente erroneo il giudizio sulla convergenza delle dichiarazioni accusatorie del M. e del D.C., poiché dal contenuto degli atti espressamente indicati risultavano plurime contraddizioni e numerosi contrasti tra le dichiarazioni su circostanze decisive nella ricostruzione degli eventi.

Anche in relazione all’individuazione di riscontri esterni, la Corte aveva travisato sia le prove relative alle dichiarazioni di Marta Bi., disconoscendo l’inattendibilità della donna per le pressioni che riceveva dal M., sia le prove relative alle dichiarazioni di Morena G., che non contenevano alcuna precisa indicazione soggettiva sull’identità del promotore finanziario che avrebbe curato la gestione del riciclaggio delle somme del compagno D.C.; analoghe carenze si apprezzavano con riguardo all’indimostrata esistenza di rapporti tra il B. ed il Ga., funzionario dalla Gain SA, nel periodo oggetto di contestazione, così come per le evidenti contraddizioni nelle dichiarazioni del M. sugli episodi relativi alla consegna delle somme pretese dal B.

Per quanto concerne le dichiarazioni accusatorie di D.C., l’inattendibilità del dichiarante si apprezzava con evidenza per le incongruenze in relazione alla redazione dei documenti (il manoscritto e il dattiloscritto) sulla gestione delle somme trasferite in Svizzera, alla genesi dei rapporti con il B. e alla decisione di affidare la gestione del denaro del M., alle modalità di ricezione e di trasferimento in Svizzera del denaro da riciclare, alle tecniche per il prelievo del denaro per il rientro in Italia.

Nella parte finale del motivo il ricorrente censura il giudizio circa l’utilizzabilità delle dichiarazioni scritte del B., prodotte davanti al Tribunale del riesame; le valutazioni sul valore delle intercettazioni ambientali in carcere; l’interpretazione della tesi difensiva, che non mirava a dimostrare alcun complotto ai danni del B., ma unicamente una ricostruzione falsa predisposta dal D.C. per addossare responsabilità al B. di fronte alle richieste del M. relative alla mancata restituzione delle somme affidate.

3.6. Con il settimo motivo si deducono la violazione della legge penale (in relazione agli artt. 157 e 158 c.p.), di norme processuali (artt. 129, 529 e 531 c.p.p.) e vizio di motivazione, nella parte in cui la sentenza aveva rigettato l’eccezione di prescrizione del reato contestato; dall’istruttoria svolta l’unica condotta dimostrata, posta in essere dal B. a titolo di concorso nelle attività di riciclaggio, era l’indicazione dell’istituto bancario svizzero ove il D.C. avrebbe potuto aprire un conto, fatto avvenuto nel 1995; al contrario, era priva di motivazione l’affermazione secondo la quale l’ultima condotta ascrivibile al B. andava collocata nel momento in cui il D.C. aveva comunicato alla Deutsche Bank di non accettare richieste di informazioni sulla gestione del conto da persone o società diverse da quella che aveva il mandato per la gestione, poiché tale circostanza non riguardava direttamente il B. (che, comunque, non aveva mai avuto poteri di gestione del conto e che con la delega a visionare il conto non avrebbe mai potuto eseguire atti di gestione); era del tutto indimostrato che il B. avesse concorso nelle successive attività di trasferimento delle somme dal conto della Deutsche Bank a quelle del CPC, trattandosi di mera illazione che non consentiva di spostare il termine di consumazione del reato.

3.7. Con l’ottavo motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in relazione all’art. 648-bis, comma 2, c.p., e vizio della motivazione, per avere affermato la Corte territoriale che la contestata aggravante era sussistente per l’accertata esperienza del ricorrente nel settore bancario, mentre la norma richiede l’esercizio professionale di determinate attività che il B. non aveva svolto in relazione alle condotte contestate; lo stesso D.C. aveva escluso che il ricorrente avesse percepito delle provvigioni.

3.8. Con il nono motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p., e vizio della motivazione, in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, motivato senza considerare gli elementi favorevoli (comportamento processuale e vita anteatta) e valutando erroneamente e in modo illogico il comportamento processuale, tacciato di scarsa lealtà per avere ritrattato il contenuto delle dichiarazioni rese al Tribunale del riesame.

3.9. Con il decimo motivo di ricorso si deduce la violazione della legge penale, in relazione all’art. 648-quater c.p., e vizio della motivazione, in relazione alla disposta confisca dell’intero compendio sequestrato, senza accertamento e motivazione sul valore del profitto e senza valutare la già disposta confisca nei confronti del concorrente; la sentenza, inoltre, non aveva tenuto conto della censura con cui si evidenziava l’inapplicabilità della disposizione relativa alla confisca per equivalente, trattandosi di norma introdotta successivamente rispetto ai fatti accertati nei confronti del B.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. I ricorsi sono infondati.

1.1. Per quanto concerne le questioni processuali che formano oggetto dei ricorsi, vanno in primo luogo esaminati i motivi di ricorso che riguardano le censure svolte con riguardo alle statuizioni sulla dedotta, ma non affermata, incompetenza territoriale dell’autorità giudiziaria veneta. Le difese del ricorrente formulano osservazioni che, pur aderenti al dato normativo e alle nozioni relative alla struttura del contestato delitto di riciclaggio, tendono a segmentare l’attività delittuosa; mentre, per le peculiari caratteristiche delle operazioni di riciclaggio descritte nelle imputazioni, la fattispecie in esame è stata correttamente considerata dalla sentenza della Corte territoriale nel suo insieme apprezzando il collegamento tra le distinte attività, tutte dirette a realizzare l’obiettivo del trasferimento e della sostituzione dei proventi delle attività delittuose commesse da Felice M.

In primo luogo, va ribadito il principio, più volte affermato dalla Corte, secondo il quale le valutazioni che riguardano l’individuazione della competenza territoriale vanno condotte “allo stato degli atti”, considerata la collocazione delle relative questioni nell’ambito della fase degli atti preliminari al dibattimento (ai sensi del combinato disposto degli artt. 21, comma 2, e 491, comma 1, c.p.p.), che preclude qualsiasi previa istruzione od allegazione di prove a sostegno della proposta eccezione (dovendosi così escludere alcun rilievo, ad esempio, alle sopravvenute prove assunte in dibattimento: Sez. 4, n. 27252 del 23 settembre 2020, S., Rv. 279537; Sez. 6, n. 49754 del 21 novembre 2012, Casulli, Rv. 254100; Sez. 6, n. 33435 del 4 maggio 2006, Battistella, Rv. 234347); in particolare, ove si debba determinare la competenza per territorio nell’ipotesi di reati connessi, occorre avere riguardo alla contestazione formulata dal pubblico ministero, a meno che la stessa non contenga rilevanti errori macroscopici ed immediatamente percepibili (Sez. 1, n. 31335 del 23 marzo 2018, Giugliano, Rv. 273484; Sez. 1, n. 11047 del 24 febbraio 2010, Guida, Rv. 246782), senza far ricorso a eventuali valutazioni in via prognostica, anticipatorie del merito della decisione (Sez. 1, n. 36336 del 23 luglio 2015, Novarese, Rv. 264539), non potendosi anche in questa ipotesi tenere conto di sopravvenienze istruttorie che potrebbero giustificare, in astratto, uno spostamento della competenza; ciò che rende insindacabili, in sede di legittimità, gli aspetti relativi alla competenza territoriale non ritualmente sottoposti dalla parte entro i termini dell’art. 491 c.p.p. (Sez. 2, n. 4876 del 30 novembre 2016, dep. 2017, Sacco, Rv. 269212).

Contestata, secondo il tenore dell’imputazione di cui al capo B), la connessione tra il delitto di riciclaggio ascritto al ricorrente e il delitto di riciclaggio oggetto dell’imputazione di cui al capo A) (alla cui realizzazione ha concorso l’odierno ricorrente, alla stregua dell’imputazione originaria), e considerata la pari gravità dei reati, in modo esatto la Corte d’appello ha fatto riferimento al luogo di consumazione del reato indicato al capo A) in ragione del criterio temporale, essendo stato commesso quest’ultimo reato in epoca precedente rispetto al riciclaggio contestato al capo B); e tenendo conto della struttura di quel reato, così come descritto nell’imputazione, la sentenza impugnata ha messo in rilievo l’unicità del delitto, riguardante le somme di denaro riferibili alla persona di Felice M. che, con articolate e diversificate operazioni, sono state oggetto delle condotte di riciclaggio, il cui inizio è stato fissato (prima dal G.u.p., poi dal Tribunale e infine) dalla Corte d’appello nella prima attività di consegna del denaro di provenienza delittuosa, destinato ad essere successivamente trasferito e sostituito, consegna avvenuta in Campolongo Maggiore (ricadente nel circondario del Tribunale di Venezia).

La sentenza ha fatto corretta applicazione, in tal senso, dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale «il delitto di riciclaggio, pur essendo a consumazione istantanea, è a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente quando il suo autore lo progetti e lo esegua con modalità frammentarie e progressive» (Sez. 2, n. 29611 del 27 aprile 2016, Bokossa, Rv. 267511; Sez. 2, n. 34511 del 29 aprile 2009, Raggio, Rv. 246561).

Rispetto a queste argomentazioni, i ricorrenti indugiano nel riproporre gli argomenti già delineati con i motivi di appello, volti a fornire una lettura alternativa dei fatti storici descritti nelle imputazioni, esaltando l’inidoneità della mera consegna del denaro avvenuta in Campolongo ad integrare il fatto tipico ex art. 648-bis c.p.; in tal modo, si isola quella che è stata l’operazione iniziale rispetto alle modalità descritte nell’imputazione, più complesse e articolate, attraverso le quali doveva essere realizzata l’attività di riciclaggio che richiedeva, quale prima fase, quella del recupero delle somme da riciclare dai nascondigli – ove erano state da tempo occultate – con l’affidamento agli altri imputati, incaricati delle successive operazioni. Sempre nella medesima prospettiva, non colgono nel segno le censure che criticano l’ipotizzata connessione ex art. 12, lett. a), c.p.p., distinguendo il concorso nel delitto di cui al capo A) ascritto al ricorrente, realizzatosi mediante le attività di investimento eseguite all’estero, dal concorso nel fatto di reato come descritto; ancora una volta i ricorrenti trascurano di considerare l’oggetto dell’imputazione come formulata, separano temporalmente le condotte, individuano luoghi differenti in cui furono eseguite le singole attività materiali succedutesi nel tempo, senza considerare che la forma di manifestazione del reato plurisoggettivo comprende anche ipotesi in cui il contributo dei singoli concorrenti può manifestarsi in luoghi e tempi diversi, ciò che non incide però nell’attribuzione del fatto come contestato e, conseguentemente, dell’individuazione del luogo in cui il fatto tipico si realizza. A questo riguardo, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con espresso riguardo ai profili della competenza territoriale, che ove la realizzazione del fatto tipico (che, si ripete, nel caso sottoposto al giudizio della Corte territoriale è stato individuato nella prima consegna del denaro) sia conseguenza del concorso o della cooperazione tra più agenti, ovvero di condotte indipendenti avvinte da connessione ai sensi dell’art. 12, lett. a), c.p.p., territorialmente competente è, alla stregua della regola prevista dall’art. 16, comma 2, c.p.p., il giudice del luogo in cui si è consumato il reato, anche nel caso in cui detto luogo sia diverso da quelli nei quali sono state realizzate le azioni od omissioni dei concorrenti (Sez. 1, n. 38871 del 12 giugno 2019, G.i.p. Tribunale Palermo, Rv. 276880-02). Si tratta in questo caso dell’applicazione più generale del c.d. criterio dell’ubiquità allargata in forza del quale, proprio per le caratteristiche della fattispecie di riciclaggio sopradescritta, è sufficiente che inizialmente sia stato posto in essere solo un frammento della condotta, il cui oggettivo rilievo appare idoneo per le sue modalità a configurare, apprezzare e collegare in modo inequivoco gli altri segmenti operativi realizzati successivamente, in Italia e poi all’estero; un movimento iniziale che, ponendo in essere un iter modificativo della realtà concreta, contribuisce a realizzare il segmento finale cui ancorare il momento consumativo del reato. Alla luce delle suesposte considerazioni appaiono coerenti con queste valutazioni le modalità di individuazione della competenza territoriale affermata in sentenza.

1.2. Ulteriore questione processuale sollevata dall’Avv. Carugno concerne la dedotta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza: la Corte territoriale, al pari di quella di primo grado, ha affermato la responsabilità del ricorrente relativamente a condotte (riguardanti le operazioni eseguite in territorio elvetico, mediante il versamento del denaro sui conti correnti intestati al D.C. e le successive operazioni di gestione, attraverso forme varie di investimento, delle stesse somme con rendicontazione dei risultati degli investimenti) che non erano contenute nel capo d’imputazione, ove si addebitava al ricorrente esclusivamente il trasferimento del denaro contante e la successiva restituzione al M.

Anche questa censura non è fondata. Essa dà per presupposta una descrizione del fatto contestato avente carattere di tale specificità, da escludere logicamente che le operazioni di trasferimento all’estero e di successiva restituzione del denaro potessero comprendere anche operazioni che si collocavano tra i due eventi indicati, senza considerare che già nel corpo dell’imputazione di cui al capo A) – rispetto alla quale si indicava espressamente la partecipazione nell’esecuzione delle condotte materiali da parte del ricorrente – erano indicate (al n. 5) le operazioni di investimento eseguite utilizzando il denaro ricevuto, depositato in successione presso differenti istituti bancari. Come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, è la struttura stessa del delitto di riciclaggio, che si ribadisce si caratterizza per la qualifica di reato a forma libera, a rendere legittima e corretta la contestazione con cui si addebiti l’esecuzione di condotte convergenti e finalizzate al raggiungimento dell’obiettivo di occultamento o di creazione di ostacoli all’individuazione della provenienza dei beni di provenienza delittuosa, rispetto alla quale l’apprezzamento di singole attività ed operazioni, desunte dal materiale probatorio acquisito nel giudizio, non implica la diversità del fatto contestato rispetto a quello ritenuto in sentenza. Pertanto, poiché l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione fissato dall’art. 521 c.p.p. «non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione» (Sez. un., n. 16 del 19 giugno 1996, De Francesco, Rv. 205619), per affermare la diversità del fatto rispetto al contenuto della statuizione di condanna è necessario accertare l’esistenza di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta in termini di sostanziale incompatibilità ed eterogeneità, da cui derivi un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione e, quindi, un effettivo pregiudizio dei diritti della difesa, unico e solo dato che può sostenere il giudizio di diversità del fatto (seguendo quell’insegnamento, tra le più recenti, Sez. 3, n. 7146 del 4 febbraio 2021, Ogbeifun, Rv. 281477; Sez. 2, n. 12328 del 24 ottobre 2018, dep. 2019, Calabrese, Rv. 276955; Sez. 5, n. 33878 del 3 maggio 2017, Vadacca, Rv. 271607); inoltre, va ricordato che non può affermarsi la diversità del fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, «laddove la differente condotta realizzativa sia emersa dalle risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato, di modo che anche rispetto ad essa egli abbia avuto modo di esercitare le proprie prerogative difensive» (Sez. 6, n. 38061 del 17 aprile 2019, Rango, Rv. 277365), anche con riferimento all’accertamento di una diversa forma di estrinsecazione della condotta concorsuale (Sez. 2, n. 6560 dell’8 ottobre 2020, dep. 2021, Capozio, Rv. 280654).

1.3. L’ultima questione processuale è prospettata dall’Avv. Carugno con il terzo motivo del ricorso. Le censure che il ricorrente indirizza nei confronti della sentenza impugnata d’un lato reiterano gli stessi argomenti già esposti con l’atto di appello, dall’altro difettano di specificità nella misura in cui, nel denunciare la violazione delle disposizioni in tema di inutilizzabilità delle dichiarazioni dei testi Bi. (Marta e Alessandro), omettono completamente di allegare e chiarire la decisività delle prove che, per effetto dell’ipotizzata inutilizzabilità, incrinerebbero il quadro probatorio.

Il ricorrente, infatti, non si è fatto carico di affrontare e superare la necessaria “prova di resistenza”, richiesta allorché con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento di prova (poiché in tale contingenza processuale «il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l’espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento»: Sez. 6, n. 18764 del 5 febbraio 2014, Barilari, Rv. 259452, seguita da Sez. 3, n. 3207 del 2 ottobre 2014, dep. 2015, Calabrese, Rv. 262011; Sez. 2, n. 7986 del 18 novembre 2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; Sez. 2, n. 30271 dell’11 maggio 2017, De Matteis, Rv. 270303). Va osservato, a tale proposito, che rispetto al giudizio di penale responsabilità per i fatti oggetto delle imputazioni le motivazioni delle decisioni di merito consentono di apprezzare che le dichiarazioni dei testimoni indicati dal ricorrente non costituivano né la fonte esclusiva di prova, né risultavano decisive rispetto all’apporto degli altri elementi di prova di cui si è tenuto conto.

1.4. Il secondo motivo del ricorso proposto dall’Avv. Rocchi è infondato.

La denunciata contraddittorietà della motivazione concerne, in primo luogo, isolati aspetti della ricostruzione e della valutazione delle prove operate dalla Corte territoriale; il giudizio di affidabilità del M. non è stato pronunciato esclusivamente considerando i profili delle conseguenze scaturite dalle dichiarazioni (conseguenze che, peraltro, rilevavano in quanto oggetto della verosimile rappresentazione del dichiarante, indipendentemente dall’effettiva realizzazione), ma operando una valutazione complessiva della tenuta logica di quelle dichiarazioni che coinvolgevano il ricorrente, difettando elementi per ipotizzare volontà calunniose in danno del ricorrente e trovando conferma l’attività di riciclaggio denunciata dal M. nel complesso delle prove documentali che attestano in modo incontestabile il trasferimento di una massa ingente di capitali operata dai congiunti del M., capitali destinati in parte a realizzare l’acquisto di beni immobili e di valore, per altra parte all’impiego in operazioni di investimento in Svizzera attraverso la persona del cognato del M., il coimputato D.C.

L’altro profilo di contraddittorietà, che costituisce l’asse portante di entrambi i ricorsi (e che, quindi, appare opportuno trattare unitariamente), concerne l’errata valutazione delle prove acquisite da cui emergevano elementi univoci nell’esclusione del ricorrente dalla gestione dei conti aperti in territorio elvetico a nome del coimputato D.C., risultando sia dalle dichiarazioni del M. e del D.C., sia per tabulas che le operazioni di gestione (intese come scelta delle modalità di investimento e disinvestimento) erano affidate ad una società svizzera (la Gain SA) senza alcun intervento diretto del ricorrente.

A questo riguardo occorre rilevare che il ricorso difetta di specificità, nella misura in cui non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata che ha fornito una spiegazione logica e coerente con i dati documentali e testimoniali (pagg. 23 ss.) proprio in ordine al “conflitto” tra la ricostruzione che si desume dall’esame della documentazione acquisita presso gli istituti di credito svizzeri e la realtà sostanziale dei rapporti che, dietro lo schermo dell’apparenza costituito dalla documentazione ufficiale, intercorrevano tra il ricorrente e il titolare di quei conti, ossia il D.C. La Corte territoriale ha richiamato sul punto le spiegazioni rese “diffusamente nel corso dell’incidente probatorio” dal D.C., descrivendo le attività del ricorrente (individuare gli istituti di credito ove aprire i rapporti di conto corrente; far sottoscrivere la documentazione necessaria e farla pervenire presso i destinatari in Svizzera; operare come strumento di collegamento tra il D.C. e la società di gestione che doveva operare sui conti). Allo stesso modo, il ricorso non tiene conto dell’indicazione specifica da parte della sentenza impugnata di dati documentali di peculiare valore probatorio, che forniscono riscontri dettagliati e precisi alle dichiarazioni del D.C. (si tratta dell’annotazione esistente nella documentazione afferente l’apertura del conto presso Deutsche Bank, denominato “Monastero”, in cui si faceva espresso riferimento sia alla persona del ricorrente come soggetto che aveva presentato il cliente, sia alla provenienza della provvista da altri rapporti intrattenuti dal cliente con l’altro istituto di credito – City Bank – coincidente con quello indicato dal D.C. nella ricostruzione dei passaggi operati tra i diversi istituti; l’autorizzazione a visionare il conto “Monastero” rilasciata in favore del ricorrente, la cui esistenza si giustifica unicamente con l’esigenza di affidare al ricorrente il controllo dell’andamento dei conti per assumere quindi le decisioni, da comunicare alla società di gestione, sulle operazioni da eseguire; ulteriore annotazione esistente nella documentazione relativa al conto “Gendex” aperto presso il Credito Privato Commerciale (CPC), in cui si fa riferimento alla manifestata esigenza che i contatti “esterni” fossero mantenuti esclusivamente attraverso un soggetto indicato come “Michele”).

In definitiva, che la gestione dei capitali (individuata attraverso la documentazione acquisita con rogatoria) fosse operata da una società svizzera non implica logicamente, come conseguenza necessitata, che il ricorrente fosse estraneo al complesso delle operazioni dirette ad ostacolare l’individuazione della provenienza delittuosa di quei capitali, risultando da una molteplicità di fonti di prova che il ricorrente è intervenuto nella programmazione, predisposizione ed esecuzione di quelle attività.

Infine, le censure formulate in ordine al giudizio di attendibilità del chiamante in correità D.C. si àncorano all’atteggiamento del dichiarante che aveva interesse a nascondere le proprie responsabilità nei rapporti con il M. (risultando da fonti esterne l’appropriazione di parte delle somme ricevute dal M.), ma come rileva la Corte territoriale (pag. 47) in nessuno degli atti indicati dal ricorrente si apprezzano elementi indicativi della volontà del dichiarante di addossare responsabilità al ricorrente.

1.5. Il terzo motivo del ricorso proposto dall’Avv. Rocchi è anch’esso infondato.

Il motivo si ricollega al tema, già affrontato nell’esame del motivo che precede (v. § 1.4), dell’esistenza di plurime evidenze documentali attestanti la gestione dei conti elvetici, e in particolare di quelli accesi presso la Deutsche Bank, da parte non del ricorrente, ma attraverso una società di gestione finanziaria (Gain SA) con logica esclusione di ogni coinvolgimento del ricorrente in tutte le fasi della gestione dei rapporti, anche quelli relativi all’apertura del conto, affermata invece dalla sentenza impugnata sulla scorta di ipotesi e congetture indimostrate (l’accesso del ricorrente alle informazioni sui conti, gli incontri con il titolare e con il M. per decidere le operazioni da eseguire, l’invio delle istruzioni per operare nella gestione dei conti).

Si tratta di doglianze sostanzialmente reiterative del contenuto dell’atto di appello, oltre che generiche, per le ragioni già espresse in precedenza: le argomentazioni del ricorrente non superano i dati documentali che segnalano l’intervento del ricorrente attraverso strumenti (la delega a visionare il conto, in particolare, oltre le annotazioni che dimostrano la funzione di elemento di collegamento tra il D.C. e gli istituti ove sono stati accesi i rapporti bancari) che assumono l’unico significato logicamente coerente con quei dati, ossia quello di consentire al ricorrente di seguire l’andamento dei conti e di assumere le decisioni relative. Per altro verso, la gestione operata dalla società elvetica non escludeva che decisioni e disposizioni sugli obiettivi da realizzare fossero veicolate da altri soggetti, appunto il ricorrente per come affermato dal D.C. e come dettagliatamente illustrato dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 27-28); per queste ragioni non risultano dirimenti le insistite osservazioni del ricorrente sull’attribuzione dell’esecuzione delle operazioni riguardanti la vendita e l’acquisto degli strumenti finanziari alla sola società di gestione, così come la denunciata contraddizione logica tra l’esecuzione di un numero rilevante di operazioni e la dimostrazione di sporadici incontri tra il ricorrente, il titolare dei conti e il reale proprietario delle somme (il M.) è solo assertiva, non essendo necessaria una consultazione ripetuta e periodica tra le parti, specie considerando il dato della qualifica professionale del ricorrente (in grado di valutare autonomamente tipologia e consistenza delle opportunità di investimento). Infine, anche le osservazioni sul passaggio delle somme di denaro dal conto Deutsche Bank al conto Credito Privato Commerciale, che attesterebbe l’autonomia della società di gestione nelle decisioni relative alle somme in capo al D.C., non tengono conto della motivazione della Corte territoriale (pag. 29) che ha messo in rilievo la coincidenza della revoca dell’autorizzazione a visionare il conto con la liquidazione della società di gestione, di poco anteriore all’operazione di trasferimento del capitale da un istituto all’altro.

1.6. Il quarto motivo del ricorso è formulato in termini generici e in parte reiterativi dell’omologo motivo di appello.

Il ricorso intende collegare la censura motivazionale al denunciato travisamento sia delle dichiarazioni indicate, sia delle conversazioni intercettate, oltre che dei documenti (il manoscritto e quello dattiloscritto) in cui erano annotate le operazioni eseguite nei diversi istituti bancari elvetici; ma l’analisi del motivo mette immediatamente in rilievo come attraverso le censure proposte viene sostanzialmente sollecitata una diversa lettura sia del contenuto dichiarativo delle testimonianze e dell’esame del coimputato, sia del significato delle annotazioni dei documenti, tra loro comparati, senza però che si giunga ad individuare l’esistenza di informazioni decisive di cui si è omessa la valutazione ovvero di informazioni inesistenti, desunte dalle prove acquisite, e di cui si sarebbe avvalsa la sentenza per formulare il giudizio di responsabilità.

Non è superfluo rammentare a questo riguardo che nel giudizio di legittimità non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi da quelli espressamente indicati dall’art. 606, lett. e), c.p.p., che devono altresì incidere su aspetti essenziali tali da imporre una diversa conclusione del processo, sicché «sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento» (in questi termini, ex plurimis, Sez. 2, n. 9106 del 12 febbraio 2021, Caradonna, Rv. 280747-01).

Così, delle dichiarazioni del D.C. e della G., convivente del primo, si esaltano isolate frasi, ignorando altre espressioni che confermano la tesi di accusa (come per l’attribuzione esplicita, da parte del D.C., della paternità del dattiloscritto al ricorrente); quanto ai documenti, si sottolineano ripetutamente le corrispondenze testuali che dovrebbero orientare a ritenere che i documenti provenivano dalla stessa mano. Al contrario, proprio l’analisi e la comparazione dei c.d. “documenti gemelli” ad opera della sentenza impugnata (pagg. 26-27; egualmente dettagliata quella del giudice di primo grado: pagg. 2-7) mettono in luce una serie di caratteristiche che sostengono logicamente la conclusione della Corte territoriale, circa l’attribuzione al ricorrente della predisposizione del documento dattiloscritto (in quanto del tutto anonimo nell’indicazione dei soggetti coinvolti, riferendo solo del “cliente” e non dell’intermediario – ossia il ruolo ricoperto dal ricorrente -, carente di specificità nell’indicazione dell’ammontare dei prelevamenti, senza alcuna descrizione delle modalità operative seguite dal “cliente” per impartire le disposizioni a coloro che eseguivano le operazioni di investimento, invece riportata in dettaglio nel manoscritto), fornendo anche una spiegazione, priva di vizi logici, in ordine alla causale che aveva determinato la predisposizione del documento dattiloscritto, sulla scorta delle indicazioni fornite sul punto dal D.C. (ossia, il mezzo per rappresentare al M. la correttezza del proprio operato, in modo da contrastare le pretese estorsive del M. che minacciava rappresaglie per la mancata restituzione integrale dei capitali affidati).

1.7. Il quinto motivo di ricorso dell’Avv. Rocchi è generico nella censura volta a screditare l’attendibilità dei chiamanti in correità (M. e D.C.), nella misura in cui seleziona solo alcune delle dichiarazioni rese e dei riscontri che si assumono inidonei a confortare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, trascurando del tutto il complesso delle considerazioni svolte dalla Corte territoriale.

Con motivazione accurata e completa, infatti, la sentenza impugnata ha considerato i profili di attendibilità intrinseca e estrinseca dei dichiaranti (pagg. 40 ss.); ne ha apprezzato la convergenza nell’attribuzione al ricorrente del ruolo indicato nell’imputazione, al netto di imprecisioni e discrasie tutte riferibili ad aspetti di contorno (giustificate logicamente dalle condizioni soggettive e dalla distanza temporale tra l’acquisizione delle dichiarazioni e l’epoca in cui erano avvenuti gli episodi riferiti) che non elidono l’attribuzione del ruolo di soggetto professionalmente in grado di realizzare il progetto di investimento dei capitali illeciti provenienti dalle attività delittuose del M.; ha ricordato che le dichiarazioni a riscontro provengono da soggetti che hanno riconosciuto entrambi, attraverso attività di individuazione fotografica, il ricorrente come soggetto nei cui confronti il M. aveva indirizzato la richiesta imperativa di restituzione di somme, che i testimoni furono incaricati di prelevare proprio dal ricorrente; ha soprattutto ricordato (elemento di cui le difese tacciono) le ammissioni contenute nel memoriale del 10 febbraio 2017 depositato dal ricorrente davanti al Tribunale del riesame (pag. 42), con specifico riferimento ai rapporti con il M., agli incontri avvenuti e alle richieste di denaro formulate dal M., oltre che al contesto delle operazioni di investimento da eseguire in Svizzera su sollecitazione del D.C.; ha evidenziato, a completamento della ricostruzione, il contenuto delle dichiarazioni acquisite dalla convivente del D.C., nel corso di un dialogo con il M., oltre alle captazioni di una conversazione tra la testimone ed un ufficiale dei carabinieri, che riconducono all’indicazione di un “socio” del D.C., che aveva operato – per essere un professionista del settore operante nella zona di residenza del D.C. (circostanza corrispondente alla posizione del ricorrente) – per realizzare la ripulitura delle somme di provenienza illecita.

A fronte di tale complessiva motivazione, le censure articolate con la prospettazione di vizi di motivazione e di travisamento delle prove non sono rispettose dell’osservanza del principio di specificità, mancando «la compiuta rappresentazione e dimostrazione di un’evidenza – pretermessa o infedelmente rappresentata dal giudicante – di per sé dotata di univoca, oggettiva ed immediata valenza esplicativa, in quanto in grado di disarticolare il costrutto argomentativo del provvedimento impugnato per l’intrinseca incompatibilità degli enunciati» (Sez. 1, n. 54281 del 5 luglio 2017, Tallarico, Rv. 272492-01).

1.8. Il quarto motivo del ricorso proposto dall’Avv. Carugno è infondato.

Secondo la prospettiva del ricorrente, le caratteristiche delle condotte contestate (operazioni di apertura dei conti in Svizzera per deposito del denaro, successivo trasferimento in altri conti, sempre intestati allo stesso soggetto) escludono la loro riconducibilità alla categoria delle operazioni finalizzate ad ostacolare l’individuazione della provenienza del denaro trasferito, trattandosi di operazioni regolarmente tracciabili, senza alcuna modifica del soggetto cui erano intestati i conti; in tal senso depongono sia l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, sia il contenuto delle disposizioni della Banca d’Italia in materia di contrasto alle operazioni di riciclaggio (ove non sono comprese, come soggette all’obbligo di segnalazione, quelle disposte da un soggetto su conti intestati a sé o, comunque, i cui effetti economici erano riferibili allo stesso soggetto).

1.8.1. La tesi difensiva, in primo luogo, non considera quanto già illustrato in precedenza (v. supra, § 1.1): l’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice, così come descritto nell’imputazione e apprezzato all’esito del giudizio, era composto da un pluralità di condotte materiali, non solo frazionate nel tempo ma anche differenti per la natura e la caratteristica delle attività realizzate, sicché la valutazione delle sole operazioni eseguite per il deposito del denaro e per la sua gestione, con affidamento a società di gestione finanziaria, non varrebbe da sé ad escludere la sussistenza del fatto tipico contestato. Va considerato, infatti, che l’identità della titolarità dei conti, caratteristica sottolineata dal ricorrente perché in grado di porre le condotte più volte ricordate al di fuori della nozione di “operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa”, non fa venir meno la rilevanza del trasferimento materiale del denaro dalla disponibilità del M., che l’aveva realizzato mediante condotte delittuose, a quella dei familiari e del D.C., cui erano affidate le ulteriori attività volte alla “ripulitura” del denaro, proprio attraverso gli impieghi finanziari in territorio elvetico, con l’obbligo della successiva restituzione del denaro al M.

È stato recentemente affermato, con statuizione che il Collegio condivide integralmente, che «la forma libera del reato di riciclaggio (…) implica che quell’effetto di oscuramento possa essere astrattamente realizzato con singoli atti leciti, ma anche con una pluralità di distinti atti leciti, anche realizzati a distanza di tempo, purché siano ricondotti a unità dall’obiettivo comune cui essi sono finalizzati, ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro che costituisce il loro oggetto. Non è essenziale, inoltre, che l’agente individui e preveda fin dall’inizio del proprio progetto delittuoso i singoli atti che andrà a compiere per perseguire la finalità di occultamento, ben potendo accadere che i singoli atti siano individuati nel corso della sua attuazione, in base alle eventuali sopravvenienze ovvero in base allo sviluppo concreto degli eventi che rendono preferibile un atto piuttosto che un altro ovvero mettono a disposizione atti precedentemente non previsti dall’ordinamento giuridico, che possono rendere più efficace l’azione nella prospettiva di rendere definitiva e/o di consolidare l’acquisizione del provento del delitto» (Sez. 2, n. 7257 del 13 novembre 2019, dep. 2020, Balestrero, Rv. 278374).

Il criterio interpretativo che deve guidare nella selezione delle condotte penalmente rilevanti, in relazione alla figura di reato del delitto di riciclaggio, è ancorato al dato della dissimulazione della provenienza delittuosa (Sez. 2, n. 1857 del 16 novembre 2016, dep. 2017, Ferrari, Rv. 269316; Sez. 1, n. 32491 del 30 giugno 2015, Ghini, Rv. 264497; Sez. 1, n. 1470 dell’11 dicembre 2007, dep. 2008, Addante, Rv. 238840): ogni condotta che sia in grado (mediante un giudizio di idoneità concreta, che si apprezza sin dal momento della realizzazione di ostacoli all’individuazione della provenienza e senza pretendere l’effettiva impossibilità di ricostruzione dei trasferimenti materiali o giuridici del bene oggetto della condotta: Sez. 5, n. 21925 del 17 aprile 2018, Ratto, Rv. 273183) di intralciare la ricostruzione del legame tra i beni di provenienza delittuosa e la loro origine (fattuale, ovvero di attribuzione in termini di titolarità) si colloca nell’area del fatto tipico; pertanto, l’affidamento dei proventi delittuosi a soggetto diverso dall’autore del reato, che poi provveda al trasferimento materiale all’estero dei capitali in violazione della normativa valutaria, al suo deposito presso istituti di credito, pur se a proprio nome, con ulteriori operazioni di trasferimento mediante stipula di mandati di gestione finanziaria a terze società, mediante investimento e disinvestimento in strumenti finanziari, integra la condotta prevista dall’art. 648-bis c.p.

1.8.2. Sotto altro profilo, la prospettiva in cui si muove il ricorrente è ancora una volta condizionata dalla segmentazione delle condotte che tende ad estrarre, dal complesso delle attività descritte e ricostruite come costituenti il reato oggetto di contestazione, le operazioni materialmente eseguite dal ricorrente; in tal modo si trascura e dimentica la struttura del reato che si caratterizza per la forma di manifestazione in termini di concorso di più persone ex art. 110 c.p., ciascuna chiamata a rispondere della realizzazione del fatto di reato per il contributo materiale assicurato.

1.8.3. Infine, anche la tesi difensiva che ritiene decisiva, per escludere la rilevanza delle operazioni eseguite, l’intestazione al medesimo soggetto dei conti accesi presso diversi istituti di credito, in quanto inidonea a realizzare l’effetto di ostacolo, non è fondata.

La giurisprudenza della Corte ha insegnato, sin dalle prime pronunce emesse dopo l’introduzione della figura delittuosa nel corpo del codice penale, che «in tema di riciclaggio stante la fungibilità del danaro, non può dubitarsi che il deposito in banca di danaro “sporco” realizzi automaticamente la sostituzione di esso, essendo la banca obbligata a restituire al depositante la stessa quantità di danaro depositato» (Sez. 2, n. 13155 del 15 aprile 1986, Ghezzi, Rv. 174380; nonché successivamente Sez. 6, n. 495 del 15 ottobre 2008, dep. 2009, Argiri Carrubba, Rv. 242372; Sez. 6, n. 43534 del 24 aprile 2012, Lubiana, Rv. 253795; Sez. 6, n. 13085 del 3 ottobre 2013, Amato, Rv. 259485; Sez. 2, n. 52549 del 20 ottobre 2017, Venuti, Rv. 271530). Sulla scorta di questo fondamentale principio, si è poi osservato che anche la sola operazione di prelievo di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario integra il delitto in esame (Sez. 2, n. 21687 del 5 aprile 2019, Armelisasso, Rv. 276114 riguardante la fattispecie del prelevamento, in unica soluzione, da parte dell’imputata, di una ingente somma di denaro in contanti a pochi giorni dall’arresto del marito per i reati di associazione a delinquere, riciclaggio di autovetture, concussione e falso).

La giurisprudenza che il ricorrente richiama a sostegno della propria tesi, ossia quella che condiziona la ravvisabilità del delitto di riciclaggio nelle operazioni di trasferimento di fondi da un conto corrente ad un altro “solo nel caso in cui il conto sia intestato a persona diversa”, intende evidentemente segnalare che la diversità deve riguardare il titolare sostanziale delle somme (ossia, l’autore del reato presupposto) e l’intestatario del conto su cui vengono trasferite quelle somme.

1.8.4. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, appaiono del tutto destituite di fondamento le ulteriori censure del motivo, sia in punto di apparenza ed erroneità della motivazione della sentenza impugnata, che ha invece fatto corretta applicazione dei principi su ricordati, sia per quanto concerne le valutazioni ripetute anche in relazione alle operazioni di gestione finanziaria delle somme depositate dal D.C. sui conti esteri, oltre che alla dedotta assenza di obblighi di segnalazione ex d.l. 231/2007 di tali operazioni, trattandosi di aspetti che riguardano operazioni successive a quelle da cui ha avuto origine il complesso delle attività finalizzate al riciclaggio (e che, ove eseguite attraverso gli ordinari canali bancari e finanziari, avrebbero imposto l’obbligo di segnalazione agli operatori che le avessero eseguite). Egualmente infondate le censure riguardanti l’omessa individuazione del contributo fornito dal ricorrente alla realizzazione della condotta di riciclaggio, potendosi richiamare le considerazioni svolte in precedenza (v. supra §§ 1.4 e 1.5).

1.9. Il quinto motivo è carente di specificità, oltre che manifestamente infondato.

Le censure che il ricorrente muove alla motivazione della sentenza impugnata, in punto di travisamento della prova desunta dal contenuto delle dichiarazioni del coimputato D.C., imponevano al ricorrente di osservare l’obbligo di autosufficienza del ricorso, così come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità. È principio da tempo consolidato quello a tenore del quale «in tema di ricorso per cassazione, la condizione della specifica indicazione degli “altri atti del processo”, con riferimento ai quali l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi quali, ad esempio, l’integrale riproduzione dell’atto nel testo del ricorso, l’allegazione in copia, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito, purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. d), e 591 c.p.p.» (Sez. 4, n. 3937 del 12 gennaio 2021, Centofanti, Rv. 280384).

Inoltre, come è stato di recente affermato, l’onere a carico del ricorrente non è mutato anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. ove si prevede che copia degli atti «specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), del codice» è inserita a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato in separato fascicolo da allegare al ricorso e che, nel caso in cui tali atti siano mancanti, ne sia fatta attestazione: «sebbene la materiale allegazione con la formazione di un separato fascicolo sia devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, resta in capo al ricorrente l’onere di indicare nel ricorso gli atti da inserire nel fascicolo, che ne consenta la pronta individuazione da parte della cancelleria, organo amministrativo al quale non può essere delegato il compito di identificazione degli atti attraverso la lettura e l’interpretazione del ricorso. Si ritiene dunque che anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. è necessario il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso che si traduce nell’onere di puntuale indicazione da parte del ricorrente degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione delegata alla Cancelleria» (Sez. 2, n. 35164 dell’8 maggio 2019, Tallarico, Rv. 276432-01; nello stesso senso, Sez. 5, n. 5897 del 3 dicembre 2020, dep. 2021, Cossu, Rv. 280419-01).

Il ricorso, che tra gli atti da allegare non indica i verbali dell’incidente probatorio, non contiene la trascrizione integrale di quei verbali, ma riporta singoli brani estratti impedendo di valutare nel suo complesso l’atto di cui si denuncia il travisamento, non potendo privilegiarsi «l’indebita frantumazione dei contenuti probatori» (Sez. 1, n. 23308 del 18 novembre 2014, dep. 2015, Savasta, Rv. 263601).

Quanto al travisamento del contenuto dei documenti relativi all’apertura del conto presso al Deutsche Bank, in cui non risulta come presentatore del D.C. il ricorrente, va osservato che non senza rilievo rimane la presentazione del D.C. da parte del ricorrente alla società di gestione finanziaria che avrebbe proceduto agli investimenti e disinvestimenti delle somme esistenti sul conto (circostanza che lo stesso ricorrente prova attraverso i documenti allegati al ricorso), trattandosi di indizio convergente sul contributo fornito dal ricorrente nella fase di gestione dei capitali di provenienza illecita, con evidenti finalità di riciclaggio di quelle somme. Per altro verso, anche in riferimento al dedotto travisamento, il ricorrente non si fa carico di dimostrare la decisività dell’errore ricostruttivo rispetto al complesso della motivazione del provvedimento impugnato, come già ricordato in precedenza (v. supra, § 1.7).

Per quanto concerne le censure relative all’individuazione della riferibilità delle condotte di gestione finanziaria delle somme trasferite in territorio elvetico e all’estraneità del ricorrente da quelle operazioni, si fa rinvio alle considerazioni svolte in relazione all’esame del secondo motivo del ricorso proposto dall’Avv. Rocchi, attese le medesime ragioni poste a sostegno del motivo di ricorso.

Infine, in ordine ai ril[i]evi relativi all’irrilevanza del rilascio della delega a visionare il conto presso la Deutsche Bank, così come per le censure riguardanti l’attribuzione dei c.d. “documenti gemelli”, oltre a fare rinvio alle considerazioni svolte nel paragrafo che precede e alle considerazioni già svolte nell’esame delle analoghe questioni sollevate dall’Avv. Rocchi (v. supra, §§ 1.5 e 1.6), va osservato che il motivo, pur evocando anche in questo ambito il travisamento della prova, finisce nella sostanza per prospettare una ricostruzione alternativa dei dati a disposizione della Corte territoriale, rispetto alla quale nessun intervento può essere operato in sede di legittimità.

1.10. Il sesto motivo del ricorso proposto dall’Avv. Carugno è in primo luogo reiterativo, oltre che anch’esso carente di specificità quanto alla deduzione dei vizi di travisamento delle prove.

Oggetto del motivo di ricorso (pagg. 74 ss.) sono le censure rivolte alla motivazione della sentenza impugnata, con specifico riferimento alle valutazioni in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni dei chiamanti in correità. L’articolazione del motivo riproduce, per larga parte, le censure che componevano i corrispondenti motivi di appello, evidenziando il carattere meramente reiterativo delle doglianze senza alcuna specifica critica alla sentenza impugnata che ha fornito un giudizio compiuto sull’attendibilità del dichiarante (così destinando il motivo alla declaratoria di inammissibilità, alla stregua del costante orientamento a mente del quale va ravvisato tale carattere nel ricorso in sede di legittimità «che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione»: Sez. 2, n. 27816 del 22 marzo 2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del 18 luglio 2014, Cariolo, Rv. 260608). Si tratta, peraltro, di censure del tutto sovrapponibili a quelle già esaminate nell’esame del quinto motivo del ricorso proposto dall’avv. Rocchi, sicché si può rinviare alle valutazioni espresse in quella sede (v. supra, § 1.7). A ciò va aggiunto, anche in relazione al contenuto di questo motivo, che le denunce dei vizi di travisamento delle prove soffrono dello stesso difetto di specificità che si è indicato nel paragrafo che precede, atteso il costante richiamo a singoli passaggi, estratti dai verbali sia dell’incidente probatorio del D.C. Riccardo, sia degli interrogatori di M. Felice, con continue interpolazioni anche tra le diverse frasi pronunciate nel corso degli esami, tecnica che per le ragioni su indicate non rispetta il canone di specificità e autosufficienza del ricorso in sede di legittimità.

Per altra parte il motivo, nel dedurre il travisamento del contenuto delle intercettazioni (pag. 120 s. del ricorso), non fa che sollecitare una differente interpretazione dei contenuti delle captazioni, operazione non consentita in sede di legittimità, non potendosi ritenere arbitraria la lettura che delle intercettazioni ha fornito la Corte territoriale (Sez. 3, n. 6722 del 21 novembre 2017, dep. 2018, Di Maro, Rv. 272558); anche il “travisamento” della tesi difensiva, che non sosteneva alcun complotto tra i dichiaranti ma unicamente il tentativo architettato dal D.C. di attribuire al ricorrente la responsabilità degli esiti negativi degli investimenti, riposa su una lettura alternativa dei risultati probatori non consentita attraverso l’evocazione dei vizi motivazionali; manifestamente infondato il rilievo (pag. 118-19) concernente l’omessa pronuncia da parte del Tribunale sulla richiesta di produzione documentale, tra cui il memoriale scritto dal ricorrente, poiché esso non tiene conto della motivazione della sentenza impugnata (pag. 19) che ha chiarito il meccanismo processuale mediante il quale il documento, peraltro proveniente dall’imputato (e, come tale, suscettibile di acquisizione di ufficio ai sensi dell’art. 237 c.p.p.), è stato legittimamente utilizzato mediante il sistema delle letture ex art. 515, comma 5, c.p.p. in difetto di eccezioni sul punto da parte delle difese.

1.11. Il settimo motivo di ricorso è infondato.

Secondo la prospettiva seguita dalla difesa, l’impossibilità di attribuire direttamente al ricorrente le attività di gestione del conto aperto presso la Deutsche Bank comporta l’individuazione dell’epoca di consumazione del reato di riciclaggio al più tardi nel momento dell’apertura del conto “Monastero” presso quell’istituto nell’anno 2003, ultima condotta certamente ascrivibile al ricorrente, con l’evidente conseguenza dell’intervenuta estinzione del reato contestato per prescrizione. Né potrebbero valere in senso diverso le circostanze, indicate dalla Corte territoriale, della revoca dell’autorizzazione a visionare lo stesso conto rilasciata al ricorrente (che sarebbe intervenuta nel settembre del 2009, in quanto non provata documentalmente) e del trasferimento dei fondi da quell’istituto al diverso istituto avvenuto nel mese di marzo dell’anno 2010 (con l’apertura del conto presso il Credito Privato Commerciale, mancando qualsivoglia documento attestante l’intervento del ricorrente in quell’operazione, comunque neutra perché riguardante il trasferimento intestato allo stesso soggetto).

La prospettazione difensiva non tiene conto della più volte ricordata struttura del reato di riciclaggio così come contestato, trattandosi pacificamente di reato che si caratterizza per l’esistenza di più condotte consumative del reato, attuate in tempi diversi tra loro collegati dal nesso funzionale che le legava e con riferimento ad un medesimo oggetto (ossia, l’ingente ammontare dei capitali che Felice M. aveva affidato ai suoi congiunti e in particolare al D.C.), rispetto al quale siano stati eseguiti atti giuridici di trasferimento su conti presso diversi istituti bancari, anche con impiego delle somme in forme di investimento diversificate, configurandosi così un unico reato a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere (Sez. 2, n. 29869 del 23 giugno 2016, Re, Rv. 267856-01, relativa ad una fattispecie riguardante plurime condotte di “sostituzione” di danaro provento di reato attuate attraverso operazioni su conti correnti bancari). Né colgono nel segno le reiterate deduzioni difensive circa l’impossibilità di attribuire al ricorrente operazioni e condotte realizzate materialmente da altri soggetti, come per l’apertura del conto presso il CPC dopo la chiusura del conto in essere presso la Deutsche Bank: un siffatto argomentare sembra ignorare che le dette operazioni non devono essere considerate come condotte tra loro isolate ed indipendenti ma, al contrario, proprio sulla scorta degli esiti dell’istruttoria di cui hanno dato conto in dettaglio le sentenze di merito, vanno collocate nel contesto che le accomunava in quanto “riconducibili all’obiettivo comune cui [erano] finalizzate[e], ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro” (Sez. 2, n. 7257 del 13 novembre 2019, cit., che riguardava una fattispecie perfettamente sovrapponibile, caratterizzata dall’apertura in successione di plurimi rapporti di conto corrente da parte del medesimo soggetto, indagato per il delitto di riciclaggio delle somme di provenienza delittuosa che aveva in tal modo gestito nel tempo).

La motivazione articolata dalla Corte territoriale (pagg. 50-52) è coerente con tale premessa, mette in rilievo i dati di prova concernenti non solo le operazioni relative alla gestione delle somme depositate, disposte dal titolare e dal ricorrente ed eseguite dalla società di gestione, ma anche quelle del successivo trasferimento in altro istituto, escludendo per queste ragioni l’intervenuta prescrizione del reato.

Del resto, la dichiarata inesistenza di fonti probatorie attestanti l’intervento del ricorrente sia nella gest[i]one delle somme durante l’operatività del conto “Monastero”, sia nelle determinazioni assunte per il trasferimento delle somme da quel conto al conto presso CPC è smentita dall’attenta ricostruzione della sentenza impugnata, che richiama per ciascuna fase le dichiarazioni del D.C. (v. pagg. 29-30) e i riscontri documentali già ricordati (v. supra § 1.4), che il ricorrente oblitera così rendendo generiche le censure formulate.

1.12. L’ottavo motivo è generico.

La censura del ricorrente si appunta sulla carenza di dimostrazione del collegamento tra la realizzazione del reato e lo svolgimento dell’attività professionale da parte del B., evidenziando che la Corte territoriale ha invece erroneamente attribuito al mero dato astratto del possesso di competenze professionali la precondizione per riconoscere la circostanza aggravante.

Al contrario, la sentenza (pag. 52) ha precisato che dall’istruttoria è risultato l’intervento del ricorrente nella vicenda mediante l’assunzione di un incarico professionale, evidentemente legato alla sua qualità di esperto nel settore finanziario, tanto da aver concordato anche la misura delle provvigioni a lui spettanti, persino per le operazioni concluse dalla società finanziaria elvetica che gestiva i fondi depositati presso la Deutsche Bank; ancora una volta, il travisamento probatorio che il ricorrente deduce con riguardo alle dichiarazioni rese sul punto dal D.C. è aspecifico per le ragioni già esposte in precedenza.

1.13. Il sesto motivo del ricorso a firma dell’Avv. Rocchi e il nono motivo del ricorso a firma dell’Avv. Carugno, riguardanti profili del trattamento sanzionatorio, possono essere esaminati congiuntamente.

Manifestamente infondate le censure in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche: le difese insistono nel valutare lo stato di incensuratezza dell’imputato e la legittima scelta della strategia difensiva, senza però confrontarsi con la motivazione della Corte territoriale che ha segnalato, quale elemento ostativo alla concessione delle attenuanti, sia l’atteggiamento assunto nel corso del processo (teso non solo a difendersi, ma ad ostacolare “la ricostruzione della verità processuale”, in modo significativo attraverso la ritrattazione delle dichiarazioni ammissive di responsabilità rese dinanzi al Tribunale del riesame: Sez. 2, n. 28388 del 21 aprile 2017, Leo, Rv. 270339), sia “la lunga durata della condotta criminosa, le gravi modalità dell’azione e l’intensità del dolo”, così esplicitando le ragioni ostative anche rispetto a potenziali elementi positivi (in sintonia con il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale nel valutare la concessione delle attenuanti generiche «il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione. (Nella specie, la Corte ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato)» (Sez. 5, n. 43952 del 13 aprile 2017, Pettinelli, Rv. 271269; nello stesso senso anche Sez. 3, n. 1913 del 20 dicembre 2018, dep. 2019, Carillo, Rv. 275509-03; Sez. 2, n. 23903 del 15 luglio 2020, Marigliano, Rv. 279549-02).

1.14. Il decimo motivo del ricorso proposto dall’Avv. Carugno è in parte reiterativo e generico, in altra parte formulato in termini non consentiti.

Quanto al profilo del presupposto dell’esistenza di condotte ascrivibili al ricorrente che integrino fatti di riciclaggio in epoca successiva all’entrata in vigore dell’art. 648-quater c.p., il ricorso reitera testualmente gli argomenti utilizzati per la proposizione dell’appello, mentre la sentenza impugnata ha dato conto degli elementi di ricostruzione che annettono rilievo agli elementi di prova indicativi della partecipazione del ricorrente alle operazioni di riciclaggio, nei termini più volte precisati nell’esame dei motivi di ricorso che precedono, quantomeno sino al mese di settembre 2009. Il tentativo di rileggere quelle prove, fornendo una ricostruzione alternativa, destina il motivo alla declaratoria di inammissibilità.

Per ciò che riguarda, invece, il distinto e separato profilo della misura della confisca disposta, senza valutazione “del valore del prodotto, profitto o prezzo del reato” e del valore dei beni già confiscati ai concorrenti nello stesso reato, risulta pacifico che si tratta di questioni che non avevano formato oggetto di alcuna censura in grado di appello; il che rende non consentito il motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 606, comma 3, c.p.p.

  1. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 25 ottobre 2021.

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