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ROVIGO MORTO PER MALASANITA’ RISARCITI I FAMIGLIARI

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ROVIGO MORTO PER MALASANITA’ RISARCITI I FAMIGLIARI

 

UN CASO DI RISARCIMENTO PER MORTE IN OSPEDALE RISARCIMENTO AI FAMIGLIARI

 

L’AVVOCATO SERGIO ARMAROLI E’ ESPERTO IN RISARCIMENTO DANNI PER  GRAVE MALASANITA’

 

SI OPERA IN TUTTO IL NORDITALIA CON SEDE A BOLOGNA 0516447838

IL FATTO

la causa della morte della Sig.ra R. risulta ascrivibile ad un quadro di insufficienza respiratoria secondaria a broncopolmonite severa, ad eziologia “mista”: virale (citomegalovirus) e fungina (aspergillus);

– tale condizione broncopolmonitica si è estesa nella paziente interessando anche il cuore (miocardite aspergillare), su un contesto di pre-esistente miocardiopatia dilatativa e di successiva sindrome da allettamento, caratterizzata da cachessia e decubito sacrale.

Ancora, dagli accertamenti svolti dal CTU sono emerse diverse criticità nella condotta tenuta dal personale sanitario intervenuto, sia nella fase di valutazione dell’esito delle indagini a cui è stata sottoposta la paziente, sia nelle successive fasi di diagnosi e cura del disturbo rilevato.

 

LA CONDANNA

condanna A. N. 5 P. (ex Azienda U.R.) , in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore di G., F. e P.S., rispettivamente coniuge e figli eredi di R.S., dell’importo di Euro 10.135,66 ciascuno, a titolo di danno non patrimoniale iure hereditatis, nonché di Euro 165.960,00 ciascuno, a titolo di danno non patrimoniale iure proprio, oltre rivalutazione ed interessi, come esposto in motivazione, oltre interessi legali dalla presente pronuncia al saldo

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI ROVIGO

SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Pierangela Congiu

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 291/2015 promossa da:

G.S. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. LUZZATTO GUERRINI LAURA; elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. PERTOLDI GIANLUCA ((…)) VIA MAZZINI N. 3 45100 ROVIGO;

F.S. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. LUZZATTO GUERRINI LAURA; elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. PERTOLDI GIANLUCA ((…)) VIA MAZZINI N. 3 45100 ROVIGO;

P.S. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. LUZZATTO GUERRINI LAURA; elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. PERTOLDI GIANLUCA ((…)) VIA MAZZINI N. 3 45100 ROVIGO;

– ATTORI

contro

AZIENDA U.O.S. – ora A. N. 5 P. (P.I.: (…)), con il patrocinio dell’avv. SARTI GIUSEPPE e dell’avv. SARTI FRANCESCO; elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. ROSSI ANDREA in VIA ALL’ ARA N.8 ROVIGO

– CONVENUTA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Premesso che:

con atto di citazione ritualmente notificato, G.S., in qualità di coniuge di R.S., F.S. e P.S., in qualità di figli di R.S., convenivano in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, l’Azienda U.R. (ora A. N. 5 P.) , in persona del legale rappresentante pro tempore, per sentirla condannare al risarcimento in loro favore dei danni non patrimoniali, iure hereditatis, sofferti dalla de cuius R.S. in conseguenza della non correttezza dell’operato dei sanitari dell’Ospedale di Rovigo durante il ricovero della stessa presso l’ Ospedale di Rovigo, avvenuto in data 10 gennaio 2012 e conclusosi con il decesso della paziente in data 17 febbraio 2012, nonché al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da loro patiti (iure proprio) per la definitiva perdita del rapporto parentale con R.S..

Gli attori contestavano l’inadeguatezza della condotta tenuta dai sanitari dell’Ospedale di Rovigo, consistita nell’errata valutazione degli esiti delle indagini a cui era stata sottoposta la paziente e nella conseguente ritardata diagnosi e cura del grave stato infettivo polmonare da cui era affetta, che ha causato il decesso della paziente.

Si costituiva l’Azienda U.R. che chiedeva l’integrale reiezione delle domande proposte dagli attori, in quanto infondate e prive di adeguato supporto probatorio. In subordine, contestava l’ammontare del danno preteso dagli attori ritenendolo eccessivo e ne chiedeva la riduzione ai minimi elaborati dalla giurisprudenza per i parenti coinvolti.

La causa veniva istruita con produzione documentale e CTU.

Infine, all’udienza del 27 giugno 2018, il Giudice, sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti, tratteneva la causa in decisione a norma dell’art. 190 c.p.c.

  SUCCESSIONE EREDITA’ DI UN CITTADINO ITALIANO RESIDENTE ALL’ESTERO Il 4 luglio 2012 è stato adottato il regolamento 650/2012 in materia di diritto internazionale privato delle successioni, che si applicherà a partire dal 17 agosto 2015 negli Stati membri dell’Unione,
SUCCESSIONE EREDITA’ DI UN CITTADINO ITALIANO RESIDENTE ALL’ESTERO Il 4 luglio 2012 è stato adottato il regolamento 650/2012 in materia di diritto internazionale privato delle successioni, che si applicherà a partire dal 17 agosto 2015 negli Stati membri dell’Unione,

Rilevato che:

Nel presente giudizio, gli attori, quali eredi della moglie e madre R.S., hanno dedotto la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della convenuta, allegando, quali fatti costitutivi della loro pretesa risarcitoria, l’inadempimento da parte della predetta delle obbligazioni nascenti dal contratto di spedalità intercorso con la de cuius ed il decesso della paziente.

Per quanto concerne la responsabilità contrattuale dell’azienda convenuta, si osserva che secondo ormai consolidato e pacifico orientamento della Suprema Corte (v. Cass. Civ. n. 23918/06; n. 24791/08; n. 12274/011; n. 15993/011), la responsabilità del medico e dell’ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione ha natura contrattuale ed è quella tipica del professionista, con la conseguenza che trovano applicazione il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell’onere della prova e i principi delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza e al grado della colpa (v. anche Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in motiv.; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; 21 luglio 2003, n. 11316, in motiv.).

Trattandosi di obbligazioni inerenti all’esercizio di attività professionali, la diligenza nell’adempimento deve valutarsi, a norma dell’art. 1176 c.c., comma 2, con riguardo alla natura dell’attività esercitata e, in caso di prestazione implicante la soluzione di problemi di speciale difficoltà, il prestatore d’opera, ai sensi dell’art. 2236 cod. civ., non risponde dei danni, se non in caso di dolo e colpa grave.

Come puntualmente stabilito dal Supremo Collegio, gli artt. 1176 e 2236 c.c. esprimono dunque l’unitario concetto secondo cui il grado di diligenza deve essere valutato con riguardo alla difficoltà della prestazione resa.

La colpa, quindi, è inosservanza della diligenza richiesta.

L’obbligazione assunta dal professionista consiste in un’obbligazione di mezzi, cioè in un’attività indirizzata ad un risultato.

Il mancato raggiungimento del risultato non determina inadempimento (v. Cass. 26 febbraio 2003 n. 2836).

L’inadempimento (o l’inesatto adempimento) consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, mentre il mancato raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale alla non diligente prestazione o alla colpevole omissione dell’attività sanitaria.

Quanto al riparto dell’onere della prova le Sezioni Unite (30.10.2001, n. 13533), nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

Several surgeons surrounding patient on operation table during their work

Applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento.

La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.

Porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.

Infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione.

In queste obbligazioni in cui l’oggetto è l’attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia “vicina” a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto.

Nel caso di specie, dall’istruttoria è emerso che il personale sanitario dell’Ospedale di Rovigo non ha adempiuto correttamente la prestazione medica, ritardando la diagnosi di polmonite, con conseguente aggravarsi della condizione broncopolmonitica insorta durante il ricovero, che è stata la causa del decesso della paziente R.S..

In particolare, dalla documentazione sanitaria depositata dalle parti (in particolare vedi cartella clinica doc. 1 fasc. attori) e dagli accertamenti effettuati dal CTU dott. Antonello Cirnelli, dettagliatamente descritti nella relazione peritale, depositata in data 5 ottobre 2017, il cui contenuto interamente si richiama è emerso che:

– in data 10.01.2012 la paziente veniva ricoverata presso l’Ospedale civile di Rovigo, in quanto da circa dieci giorni accusava iperpiressia con dolori articolari diffusi e da diversi mesi accusava frequenti oscillazioni ponderali;

– dopo l’accettazione in reparto veniva obiettivata la presenza di dispnea da sforzo, toracalgia, moderata ipossiemia, aumento degli indici di flogosi, leucocitosi neutrofila ed edemi agli arti inferiori;

– la Rx torace iniziale attestava solo congestione degli ili polmonari ed accentuazione della trama bronchiale;

– in tale contesto, veniva somministrato un trattamento antibiotico con il Tazocin (penicillina) e cortisonici (metilprednisolone) e farmaci per il trattamento della patologia cardiaca. Inoltre, veniva altresì somministrata terapia antalgica in quanto la paziente accusava importanti dolori in regione dorsale;

– dopo un primo controllo Rx torace del 16.01.2012, veniva eseguita in data 17.01.2012 una Tac torace che si concludeva con diagnosi (poi non confermarmata in sede di riesame) di embolia polmonare bilaterale e alla paziente veniva somministrato il previsto trattamento anticoagulante (Coumadin – e.b.p.m.);

– dopo pochi giorni la paziente presentava ematomi a livello addominale;

– la situazione clinica della paziente si aggravava con dispnea ingravescente, nonostante la buona ossigenazione ematica, ronchi polmonari, edemi declivi, ed aumento del valore del Brain Natriuretic peptide;

– in data 26 gennaio 2012, la S. veniva trasferita presso la locale Unità di Terapia Intensiva Cardiologica, dove veniva eseguita una nuova Rx torace che attestava l’assenza di addensamenti polmonari. In tale contesto, la S. non presentava febbre, risultava saturata in aria ambiente, e non presentava segni di stasi polmonare;

– il 28 gennaio 2012 compariva la tosse;

– la condizione clinica della paziente via via si aggravava, risultando accompagnata da un’ingravescente condizione di insufficienza renale. Si succedevano quindi numerose consulenze specialistiche, ed il 01 febbraio 2012, la paziente veniva trasferita di nuovo in cardiologia;

– la condizione clinica generale della paziente continuava ad aggravarsi ulteriormente ed in data 06 febbraio 2012 al controllo Rx del torace veniva obiettivata la presenza di un addensamento polmonare in regione parailare destro, con strie dislettasiche in parailare inferiore sinistro;

– a fronte di ciò, e del persistere della leucocitosi neutrofila veniva quindi definita l’opportunità di una consulenza pneumologia;

– il 09 febbraio 2012, ancora non veniva posto alcun sospetto di interstiziopatia polmonare, e la S. continuava a stare sempre peggio: compariva ipotensione e senso di oppressione toracica e di dolore toracico;

– in data 14 febbraio 2012, la S. veniva trasferita presso l’Unità di terapia intensiva cardiologica (UTIC) dello stesso nosocomio, dove alla Rx torace di controllo si evidenziava che l’addensamento polmonare parenchimale destro anzi indicato si stava ingrandendo;

– sempre in data 14 febbraio 2012 veniva formulato, tramite consulenza infettivologica, il sospetto di una polmonite e veniva intrapreso il trattamento con antibiotico Tavanik e corisonico Unassin;

– alle ore 02.30 del 17 febbraio 2012, la paziente decedeva;

– la causa della morte della Sig.ra R. risulta ascrivibile ad un quadro di insufficienza respiratoria secondaria a broncopolmonite severa, ad eziologia “mista”: virale (citomegalovirus) e fungina (aspergillus);

– tale condizione broncopolmonitica si è estesa nella paziente interessando anche il cuore (miocardite aspergillare), su un contesto di pre-esistente miocardiopatia dilatativa e di successiva sindrome da allettamento, caratterizzata da cachessia e decubito sacrale.

Ancora, dagli accertamenti svolti dal CTU sono emerse diverse criticità nella condotta tenuta dal personale sanitario intervenuto, sia nella fase di valutazione dell’esito delle indagini a cui è stata sottoposta la paziente, sia nelle successive fasi di diagnosi e cura del disturbo rilevato.

In particolare, è emerso che il personale non ha correttamente valutato l’esito della Rx torace iniziale (attestante solo congestione degli ili polmonari ed accentuazione della trama bronchiale), imputandolo ad un problema cardiaco, nonostante tale ipotesi contrastasse con la negatività dell’ulteriore dato elettrocardiografico raccolto ( vedi relazione CTU a pagina 33).

Ancora, è risultato che il personale sanitario non ha interpretato correttamente l’esito della Tac torace del 17.01.2012. Tale esame, infatti, si concludeva con diagnosi di embolia polmonare bilaterale, poi non confermata in sede di riesame, e somministrazione di trattamento anticoagulante (Coumadin – e.b.p.m.).

Sul punto, il CTU ha verificato che: ” Già all’epoca dei fatti in esame, tale dato Tac non risultava confermato dai dati di laboratorio, atteso che il D-Dimero risultava non significativo; di fatto, quindi, a causa di tale ERRONEA diagnosi Tac di embolia polmonare alla S. veniva somministrato il previsto trattamento anticoagulante (Coumadin – e.b.p.m.) e veniva eliso il sospetto diagnostico di una possibile interstiziopatia polmonare; da ciò originava, inoltre, quale diretta conseguenza, a distanza di pochi giorni, la comparsa di ematomi a livello addominale”.

Né risulta che il caso della Sig.ra S. fosse non gestibile dal punto di vista sanitario.

Sulla base delle ricerche e degli studi effettuati dal CTU, specificamente richiamati nella relazione peritale, infatti, risulta che il caso della Sig.ra S., all’epoca dei fatti di cui si tratta, pur essendo complesso, era adeguatamente conosciuto da parte della scienza medica.

Inoltre, il CTU ha riferito che: “Di fatto, il problema fondamentale del caso in esame risulta grossolanamente sfuggito ai sanitari intervenuti presso l’Ospedale di Rovigo: la Sig.ra S. andava inquadrata precipuamente come paziente affetta da interstiziopatia polmonare, ossia come persona affetta da infiammazione dell’interstizio polmonare e non già come paziente affetta da patologia cardiocircolatoria. A motivo di ciò, alla S. risultano essere state precluse fondamentali misure diagnostiche e terapeutiche.

Nel caso di specie, il dato clinico-anamnestico del calo ponderale, il dato terapeutico della refrattarietà alla terapia antibiotica e cortisonica, nonché il dato relativo alla comparsa della tosse – peraltro in un contesto clinico ingravescente – avrebbero dovuto indirizzare correttamente il ragionamento diagnostico verso una diagnosi di interstiziopatia polmonare da approfondire.

Peraltro, va altresì considerato, che sulla mancata diagnosi ha certamente inciso l’errore diagnostico, sopra indicato, dell’embolia polmonare.

Un corretto esame del dato Tac torace, incanalato nel caso di specie, avrebbe infatti certamente potuto far aumentare il sospetto diagnostico per l’esistenza di un problema infettivo, quale causa di ripercussioni specifiche sull’interstizio polmonare e quindi sulla funzionalità polmonare. La mancanza del sospetto dovuto ha comportato, come diretta conseguenza, la mancanza di approfondimenti diagnostici quali il lavaggio bronchiolo alveolare o l’aspirazione percutanea trans toracica oppure infine (ove possibile) la biopsia toracoscopia.

Allorquando il 06 febbraio 2012, l’Rx torace attestava l’evoluzione in pejus dei reperti polmonari, la polmonite della Sig.ra S. era ormai sicuramente andata troppo avanti e per troppo tempo”.

Conclude, infine, il CTU affermando che: “Il comportamento espresso presso la convenuta Az. Ulss 18 di Rovigo va pertanto censurato a titolo di imperizia e negligenza ed a tali profili di colpa va causalmente imputato il decesso dalla S.”.

Pertanto, alla luce delle argomentazioni che precedono, si deve ritenere che l’adozione da parte del personale dell’Ospedale di Rovigo di un’adeguata condotta professionale (corretta interpretazione dei dati clinici e strumentali raccolti e conseguente tempestiva diagnosi e cura della grave infezione polmonare in atto) avrebbe, con un elevato grado di probabilità, evitato l’evento letale o quantomeno ne avrebbe ridotto le conseguenze.

Alla luce dell’elaborato peritale, infatti, appare del tutto evidente lo scostamento tra la condotta doverosa, conforme ai regolamenti e discipline vigenti in materia, da una parte, e la condotta concretamente posta in essere dall’altra.

I dati clinici e strumentali raccolti avrebbero dovuto allertare i sanitari, che avrebbero dovuto eseguire e completare le indagini nei tempi più rapidi possibili.

Da tutto quanto sopra esposto deriva, quindi, la configurazione, con grado di alta probabilità logica e credibilità razionale, sufficiente a fondare il convincimento del Giudicante, di un nesso di condizionamento eziologico-causale tra la condotta colposa dei sanitari intervenuti ed il decesso di R.S., secondo il criterio della causalità adeguata, fondata sul giudizio del “più probabile che non.

Inoltre, nel corso del processo la convenuta non ha fornito la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica, né ha dimostrato la riferibilità dell’aggravarsi della condizione della paziente e del suo decesso fattori indipendenti dall’operato dei sanitari.

La presunzione di colpa gravante sui debitori, pertanto, non è stata superata.

Per quanto riguarda, poi, le contestazioni sollevate dalla parte convenuta in comparsa conclusionale sulla CTU, se ne rileva l’infondatezza, essendo l’elaborato redatto dal consulente corretto, ben motivato e rispondente ai quesiti posti.

Il giudice non ha, quindi, motivo per discostarsi dalle conclusioni cui è giunto il CTU.

Peraltro, si osserva, come tali contestazioni siano state sollevate dalla convenuta tardivamente, atteso che non risulta che la parte convenuta abbia formulato richiesta di chiarimenti al CTU nei termini assegnati dal Giudice all’udienza del 21 dicembre 2016, né che abbia sollevato alcuna osservazione all’udienza del 15 novembre 2017, tenutasi dopo il deposito della CTU.

L’accertamento della responsabilità colposa del personale sanitario dell’Ospedale di Rovigo determina la responsabilità dell’ente convenuto in virtù dell’art. 1228 c.c..

Invero, la responsabilità dell’ente nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, come nel caso di specie, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliare necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (cfr. Cass. 1353/2007; conf Cass. 18610/2015Cassazione civile, sez. III, 13/11/2015, n. 23198).

Ciò posto, e venendo all’individuazione dei danni subiti dalla de cuius R.S. in conseguenza del ravvisato illecito colposo, ad avviso del giudicante, alla luce anche di quanto chiarito da una recente pronunzia della Suprema Corte, nel caso in esame non deve discorrersi del danno da perdita di chance di sopravvivenza, quanto piuttosto ed in via diretta di danno biologico terminale. La Suprema Corte con la sentenza n. 564/12018, enucleate le differenze tra la perdita di chance patrimoniale e quella di una chance non patrimoniale, ed evidenziato che la connotazione della chance-intesa come evento di danno- in termini di possibilità perduta di conseguire un risultato migliore e soltanto eventuale non esclude né elide la necessaria e preliminare indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, da condursi alla luce del criterio civilistico del più probabile che non, ha ben chiarito che “qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse”.

In altri termini chiarisce la Suprema Corte, occorre distinguere tra le varie ipotesi possibili:

“se la condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce dell’accertamento della disposta Cl’U. In tal caso l’evento – conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole – sarà attribuibile al sanitario. chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari”;

Se invece “la condotta colpevole del sanitario ha avuto come conseguenza, un evento di danno incerto, le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce probabile che non”), tra la condotta e l’evento incerto (la possibilità perduta) nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza”. Pertanto. afferma la Suprema Corte con specifico riferimento alla patologia tumorale ma con ragionamento estendibile a qualsiasi tipo di patologia, che ove risulti provato, sul piano etiologico, che la mancata diagnosi di una patologia abbia cagionato la morte anticipata del paziente, che sarebbe (certamente o probabilmente) sopravvissuto significativamente più a lungo e in condizioni di vita (fisiche e spirituali) diverse e migliori, “non di “maggiori chance di sopravvivenza” sarà lecito discorrere, bensì di un evento di danno rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita e dalla sua peggiore qualità (fisica e spirituale). Ne consegue che, provato il nesso causale, secondo le ordinarie regole civilistiche, rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza ed nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. Sul medesimo piano d’indagine, che si estende dal nesso al danno, ove quest’ultimo venisse morfologicamente identificato, in una dimensione di insuperabile incertezza, con una possibilità perduta, tale possibilità integra gli estremi della chance, la cui risarcibilità consente (come scelta, hic et nunc, di politica del diritto, condivisa, peraltro, anche dalla giurisprudenza di altri Paesi di Common e di Civil law) di temperare equitativamente il criterio risarcitorio del cd. All or nothing, senza per questo essere destinata ad incidere sui criteri di causalità, nè ad integrarne il necessario livello probatorio” (cfr Cassazione civile, sez. III, 09/03/2018, (ud 05/07/2017, dep.09/03/2018), n. 5641).

Nella fattispecie potendosi affermare, alla luce della CTU, che qualora fossero stati effettuati i necessari approfondimenti diagnostici, la sig.ra S., secondo il criterio del più probabile che non, sarebbe sopravvissuta, appare fondata la domanda risarcitoria degli attori, prospettata iure ereditario sotto il profilo del danno biologico terminale, nonché iure proprio per la perdita del rapporto parentale.

Si passa ora ad esaminare le singole voci di danno pretese dagli attori.

Quanto ai danni iurae hereditatis, gli attori hanno domandato il ristoro dei danni non patrimoniali patiti dalla sig.ra S., in conseguenza dell’evento lesivo oggetto di lite, sul presupposto che la relativa obbligazione, acquisita ex art. 1173 c.c. dalla vittima primaria, si è ad essi trasferita ex art. 581 c.c.

In merito alla posta risarcitoria in oggetto si osserva quanto segue.

Costituiscono massime ormai consolidate nella giurisprudenza della Suprema Corte che:

  1. a) che in caso di lesione dell’integrità fisica con esito letale, un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è configurabile solo se la morte sia intervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo, si da potersi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso, non già quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall’evento, giacché essa non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di un bene giuridico diverso, e cioè del bene della vita (confr. Cassazione civile, sez. III, 08/07/2014, n. 15491Cass. civ. 17 gennaio 2008, n. 870;  civ. 28 agosto 2007, n. 18163Corte Cost. n. 372 del 1994);

  2. b) che parimenti il danno cosiddetto catastrofale – e cioè la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia – è risarcibile e può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché essa sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l’angosciosa consapevolezza della fine imminente. mentre va esclusa quando all’evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso (confr. Cassazione civile, sez. III, 13/06/2014, n. 13537, Cass. civ. 28 novembre 2008, n. 28423 civ. 24 marzo 2011, n. 6754);

  3. c) che non è risarcibile il danno tanatologico, da perdita del diritto alla vita. fatto valere iure successionis dagli eredi del de cuius, per l’impossibilità tecnica di configurare l’acquisizione di un diritto risarcitorio derivante dalla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del titolare, e da questo fruibile solo in natura: e invero, posto che finché il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto, il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un’anomala funzione punitiva, particolarmente percepibile laddove il risarcimento dovesse essere erogato a eredi diversi dai congiunti o. in mancanza di successibili, addirittura allo Stato (con fr. Cassazione civile, sez, un., 22/07/2015, n. 15350;  civ. 24 marzo 2011, n. 6754Cass. civ. 16 maggio 2003, n. 7632).

Secondo la Suprema Corte, Sentenza 10 marzo – 9 maggio 2011. n. 10107: “a monte di tali opzioni ermeneutiche, e soprattutto dell’ultima, vi è l’elementare considerazione che, in caso di morte di un congiunto, la stessa nozione di risarcimento per equivalente – e cioè di un intervento a carico del danneggiante che serva a rimettere il patrimonio del soggetto leso nella situazione in cui si sarebbe trovato se non fosse intervenuto l’atto illecito – ha senso solo con riferimento alle conseguenze di carattere patrimoniale del fatto pregiudizievole, predominante essendo invece la funzione consolatoria dell’erogazione pecuniaria (non a caso tradizionalmente definita denaro del pianto), inattuabile, per forza di cose, nei confronti del defunto ” (confr. Cass. civ. 6754/2011 e 7632/2003 cit.).

Nel caso di specie, risulta dalla documentazione sanitaria in atti che dopo il ricovero presso il reparto di pneumologia avvenuto in data 10.01.2012 la paziente, a seguito di un progressivo peggioramento delle sue condizioni cliniche, a distanza di oltre un mese, pativa un danno irreversibile causativo di morte (cfr documentazione sanitaria allegata alla produzione di parte attrice e ctu).

Ciò posto, può affermarsi che, nella fattispecie, ricorre la sussistenza di quel apprezzabile lasso di tempo (38 giorni) tale da potersi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto, id est un danno biologico trasmissibile agli eredi mortis causa. Se, infatti, non risulta stabilito in linea generale quale durata debba avere la sopravvivenza perché possa essere ritenuta apprezzabile, ai fini del risarcimento del danno biologico, è del tutto evidente che in tanto può sorgere nel soggetto il diritto al risarcimento del danno biologico in quanto la sua durata in vita sia tale da consentirgli di apprezzare l’effettiva ripercussione delle lesioni riportate sulla sua qualità della vita, il che ad avviso del giudicante ben può affermarsi nel caso di una sopravvivenza di oltre un mese.

Sulla scia di quanto statuito dalla Suprema Corte si può ritenere che il danno patito dal de cuius – nell’intervallo di tempo tra la lesione del bene salute ed il sopraggiungere della morte conseguente a tale lesione- rientri nel danno da inabilità temporanea, la cui quantificazione va operata tenendo conto delle caratteristiche peculiari del suddetto pregiudizio, consistenti in un danno alla salute, che sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità (cfr Cass. n. 18163/2007). Il suddetto danno, che rientra nella sfera patrimoniale della vittima, risulta essere trasmissibile agli eredi (cfr Cass. 22601/2013).

In ordine alla non agevole quantificazione di tale danno, un utile punto di riferimento può indubbiamente essere costituto dai criteri orientativi, recentemente elaborati dalla giurisprudenza milanese per la liquidazione del cosiddetto “danno terminale”, in aderenza ai principi di diritto elaborati dalle Sezioni Unite con sentenza 15350/2015.

Tali criteri orientativi si ispirano, correttamente, al principio di unitarietà ed onnicomprensività (ricomprendendo ogni pregiudizio non patrimoniale subito nel periodo), ad una tendenziale durata limitata (di circa 100 giorni, decorsi i quali torna ad essere risarcibile il danno biologico temporaneo “ordinario”).

Nella fattispecie, in applicazione delle richiamate tabelle, tenuto conto, da un lato, dell’ arco temporale nel corso del quale è intervenuto il decesso della sig.ra R.S. (38 giorni) e, dall’altro, della intensità delle sue sofferenze, essendo la paziente in stato di coscienza e consapevolezza del suo malessere, (ricoveri in diversi reparti, percepibile peggioramento della propria condizione di salute ed inadeguatezza della risposta sanitaria), si reputa congruo riconoscere in suo favore, a titolo di danno terminale, un importo risarcitorio di Euro 30.407,00, di cui Euro 1.000,00 per i primi tre giorni ed Euro 29.407,00 per i restanti giorni (le richiamate tabelle prevedono che nei primi tre giorni di danno terminale il Giudice possa liquidare il quantum debeatur muovendosi liberamente secondo la propria valutazione personalizzata ed equitativa ma nel rispetto di un tetto massimo convenzionalmente stabilito in curo 30.000,00 e non ulteriormente personalizzabile e che i valori espressi nella tabella e corrispondenti all’ammontare del risarcimento base liquidabile in funzione del numero di giorni (da quattro a cento) della sofferenza terminale, sono da intendersi come aggiuntivi rispetto a quanto riconosciuto (entro il tetto massimo di Euro 30.000,00) in via di equità per i primi tre giorni di danno).

Tale importo va diviso tra gli istanti in proporzione delle quote ereditarie e quindi nella misura di 1/3 ciascuno ex art. 581 c.c.

Infondata si reputa, invece, la pretesa azionata dagli attori con riferimento alla mancanza di consenso informato, in quanto priva di adeguato supporto probatorio, non avendo la parte attrice dimostrato, come era suo onere fare, che la sig.ra S. avrebbe rifiutato le terapie a cui è stata sottoposta se fosse stata adeguatamente informata dai medici circa le loro possibili conseguenze.

Né tale carenza probatoria può essere colmata attraverso l’accoglimento delle istanze istruttorie formulate dalla parte attrice nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., già rigettate e riformulate dalla parte in sede di precisazione delle conclusioni, in quanto orientate solo a dimostrare di aver chiesto informazioni al personale medico e non anche che la condotta positiva omessa dal personale medico avrebbe evitato l’evento.

Non vi sono, dunque, elementi per ravvisare la sussistenza di nesso causale tra l’asserita lesione del diritto all’autodeterminazione della paziente (realizzatosi mediante l’omessa informazione da parte del personale medico dipendente dell’ente convenuto) e la lesione della salute per le conseguenze negative delle terapie a cui è stata sottoposta.

Pertanto, si ritiene che la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell’acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l’evento (lesione della salute).

Ne deriva il rigetto della domanda risarcitoria formulata dagli attori.

Per quanto concerne, invece, il danno non patrimoniale preteso dagli attori iure proprio si osserva quanto segue.

Non è stata provata la sussistenza di un danno alla loro salute psico-fisica, ovvero di un danno biologico iure proprio causalmente legato alla morte del loro congiunto, non reputandosi utile al tal fine il solo certificato medico prodotto dalla parte attrice, attestante solo genericamente lo stato di depressione dell’attrice P.S. e non anche la sua esclusiva riferibilità alla perdita della madre.

Nell’ipotesi in oggetto, tuttavia, va riconosciuto agli attori, quale voce di danno non patrimoniale, il danno da perdita del rapporto parentale.

Il suddetto danno, che è ontologicamente diverso da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (datino lato sensu, biologico), si collega alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso dal diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., l’uno e l’altro. peraltro, definitivamente trasmigrati – non come autonome categorie di danno, ma come entità descrittive della conformazione che l’unitaria figura del danno non patrimoniale di volta in volta assume in concreto – nell’area normativa dell’art. 2059 cod. civ. (confr. Cass. civ. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828; Corte Cost. 11 luglio 2003, n. 233; Cass, civ, sez. un. 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dopo che per anni avevano trovato copertura nell’ambito dell’art. 2043, in combinato disposto con i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati (confr. Cass. civ, sez, un. 22 maggio 2002, n. 7470).

Più nello specifico, il danno da perdita del rapporto parentale va al di là del crudo dolore che la morte in sè di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figlio, nonni e nipoti, tra fratelli, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonchè nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti.

Nella più recente giurisprudenza della Suprema Corte nella stessa misura in cui si esclude in favore del soggetto defunto il risarcimento del diritto alla vita, non essendo configurabile nel nostro ordinamento una funzione sanzionatoria (garantita invece dal diritto penale) o consolatoria del risarcimento, si evidenzia la necessità di dare adeguata risposta all’esigenza di ristoro fatta valere dai prossimi congiunti della vittima primaria, che hanno perso, in conseguenza della morte di una persona, la possibilità di godere del rapporto parentale con la persona stessa in tutte le sue possibili modalità attuatine (Cass. 2011/6754).

Il danno qualificabile come “edonistico” per la perdita del rapporto parentale deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale “iure proprio”. Infatti il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. preclude un risarcimento separato e autonomo per ogni tipo di sofferenza patita dalla persona, fermo l’obbligo del giudice di tener conto nel caso concreto di tutte le peculiari modalità di manifestazione del danno non patrimoniale, così da assicurare la personalizzazione della liquidazione (cfr Cassazione civile, sei. 111, 08:07/2014, n. 15491).

Nella liquidazione di tale voce di danno non patrimoniale, da operare in via equitativa, occorre tener conto ai fini di una adeguata personalizzazione dello stesso, di tutti gli elementi allegati e provati in atti idonei a sopportare la domanda risarcitoria in quanto indicativi dei tipo e dell’intensità della relazione esistente tra il danneggiato ed prossimo congiunto deceduto all’esito del sinistro. Sempre secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione: i relativi parametri sono conseguentemente da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella, di diverso ammontare, cui sia diversamente pervenuto, (cfr Cass 30 giugno 2011 nr. 14402; Cassazione civile sez. 111, 09 maggio 2011, n. 10107).

Ciò posto nella fattispecie ai fini della liquidazione del danno in oggetto risultano dagli atti e vanno tenute in considerazione le seguenti circostanze: R.S. al momento del decesso aveva 69 anni, suo marito G.S. 72 anni i suoi figli P. e F., quest’ultimo coniugato e con prole, e entrambi non conviventi con i genitori, rispettivamente di anni 38 e 48.

Non appare revocabile in dubbio la gravità della perdita subita dagli attori, trattandosi della moglie e madre degli stessi, atteso che lo stretto vincolo di parentela lascia presumere, in assenza di prova contraria, l’intensità dei reciproci affetti e la scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare, nonché il rapporto genitori- figli, e ciò a prescindere dall’esistenza di una relazione di convivenza (cfr Cass. 21230/2016).

All’uopo si rileva che nella fattispecie le allegazioni attoree in ordine alla sussistenza di una solida relazione affettiva tra i coniugi e tra i figli e la madre, al tempo passato insieme, alle attività svolte in comune e all’intensità della frequentazione, sono state specificamente contestate dalla convenuta e rimaste del tutto indimostrate.

Invero, non si reputano utili a tal fine le prove orali indicate da parte attrice in seconda memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., in quanto i relativi capitoli di prova si reputano assolutamente generici ( capitoli c) e d)) e aventi carattere valutativo 8 h),I), O)).

Tanto chiarito vanno dunque richiamati i parametri di liquidazione del danno in oggetto di cui alle citate tabelle di Milano, che, aggiornati all’anno 2018, nella quantificazione del danno non patrimoniale per la perdita di un prossimo congiunto, prevedono un valore monetario da un minimo di Euro 165.960,00 ad un massimo di Euro 331.920,00 in favore del figlio per la perdita di un genitore, ed in favore del coniuge sopravvissuto.

Nella fattispecie, per quanto attiene al danno patito dagli attori F. e P.S., quali figli della de cuius, tenuto conto dell’età della madre al momento del decesso, nonché della circostanza che i predetti attori avevano già raggiunto l’età adulta e, quanto a F., era già parte di un autonomo nucleo familiare distinto dalla famiglia di origine, ed in mancanza di particolari allegazioni per una personalizzazione del danno in oggetto, appare equo al giudicante, riconoscere a titolo di danno non patrimoniale l’importo di Euro 165.960,00 ciascuno in favore di F. e P..

Anche per quanto attiene all’attore G.S., pur in assenza di specifiche prove circa l’intensità della relazione con la de cuius, appare congruo liquidare in suo favore l’ importo di Euro 165.960,00, in ragione dell’età del coniuge sopravvissuto, della durata del rapporto coniugale, del fatto che a seguito del decesso della moglie al sig. S. verrà preclusa la possibilità di condividere l’ultima fase della sua esistenza con la persona con cui ha costruito una famiglia e condiviso una vita.

Nulla è dovuto, invece, a titolo di danno patrimoniale, non avendo gli attori, come era loro onere fare, dimostrato adeguatamente l’allegato danno patito per la perdita dei contributi patrimoniali asseritamente ricevuti dalla sig.ra S., nonché per le spese sostenute in relazione all’intervenuto decesso. In relazione a queste ultime spese, si rileva l’inammissibilità per tardività della produzione documentale effettuata da parte attrice solo in data 11.10.2018, con il deposito della nota spese, non potendo le spese funerarie rientrare nell’ambito delle spese legali ed essendo onere della parte provvedere alla dimostrazione del danno patrimoniale allegato prima del maturare delle preclusioni istruttorie.

Sulla base del materiale probatorio raccolto nel processo, infatti, non può ritenersi sufficientemente provato che vi siano state delle conseguenza negative nella sfera patrimoniale degli attori in connessione causale con l’intervenuto decesso della moglie e madre (all’uopo si evidenzia che del tutto generico ed in quanto tale inammissibile era il capitolo di prova articolato in merito, vedi memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., sub d)). Né tantomeno vi è prova documentale delle spese, anche funerarie, sostenute dagli istanti in connessione causale con il decesso della congiunta.

Nella liquidazione del danno causato da illecito aquiliano, in caso di ritardo nell’adempimento, deve tenersi conto. però, anche del nocumento finanziario (lucro cessante) subito dal soggetto danneggiato a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovutagli a titolo di risarcimento, la quale se tempestivamente corrisposta sarebbe potuta essere investita per ricavarne un lucro finanziario: tale danno ben può essere liquidato con la tecnica degli interessi, ma in questo caso gli interessi stessi non debbono essere calcolati né sulla somma originaria, né sulla somma rivalutata al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno ovvero in base ad un indice di rivalutazione medio. (Cass., 10-32000. n. 2796). Tali interessi, avendo natura compensativa del mancato godimento della somma liquidata a titoli di risarcimento del danno, concorrono con la rivalutazione monetaria, che tende alla reintegrazione del danneggiato nella situazione patrimoniale antecedente al fatto illecito e devono essere calcolati – in mancanza di circostanze particolari – anno per anno, sul valore della somma via via rivalutata nell’arco di tempo compreso tra l’evento dannoso e la liquidazione (Cass. 27 marzo 1997 n. 2745).

La somma sulla quale calcolare la rivalutazione e gli interessi, è per tutti gli attori, quella di Euro 10.135,66 ciascuno loro spettante iure hereditatis (30.407,00 diviso tre), nonché quella di Euro 165.960,00 ciascuno loro spettante iure proprio, a titolo di danno non patrimoniale, tutte somme previamente devalutate al momento dell’evento lesivo (febbraio 2012).

Su tali somme, previamente devalutate, vanno calcolate la rivalutazione e gli interessi, sulla somma rivalutata anno per anno, dal febbraio 2012 alla data di pubblicazione della presente sentenza.

Sulla somma così ottenuta vanno riconosciuti gli interessi dalla pronuncia della presente sentenza al soddisfo.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo secondo i criteri stabiliti nel D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto della somma attribuita in concerto alla parte vincitrice e della maggiorazione complessiva del 10% del compenso, in ragione dell’assistenza di più soggetti.

Le spese di c.t.u. come liquidate con separato decreto in corso di causa si pongono in via definitiva a carico della convenuta.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

– condanna A. N. 5 P. (ex Azienda U.R.) , in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore di G., F. e P.S., rispettivamente coniuge e figli eredi di R.S., dell’importo di Euro 10.135,66 ciascuno, a titolo di danno non patrimoniale iure hereditatis, nonché di Euro 165.960,00 ciascuno, a titolo di danno non patrimoniale iure proprio, oltre rivalutazione ed interessi, come esposto in motivazione, oltre interessi legali dalla presente pronuncia al saldo;

– pone le spese di C.T.U., così come già liquidate, definitivamente a carico di A. N. 5 P. (ex Azienda U.R.), in persona del legale rappresentante pro tempore;

– condanna A. N. 5 P. (ex Azienda U.R.), in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare in favore degli attori le spese di lite che liquida in Euro 23.525,70 per compenso, oltre C.P.A. e I.V.A., oltre Euro 545,00 per spese documentate ed oltre il 15% del compenso per spese forfettarie.

Manda alla Cancelleria per le comunicazioni alle parti.

Conclusione

Così deciso in Rovigo, il 28 gennaio 2019.

Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2019.

 

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