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600 TER E 600 QUATER CP PEDOPORNOGRAFIA

600 TER E 600 QUATER CP PEDOPORNOGRAFIA

LA CONDANNA

La Corte di appello di Milano con sentenza del 5 dicembre 2016, confermava la decisione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, del 4 febbraio 2016 – giudizio abbreviato -, che aveva condannato B.A. alla pena di anni 2 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, oltre pene accessorie, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti, relativamente ai reati di cui:

capo A, art. 600 ter c.p., commi 3 e 5, art. 602 ter c.p., commi 4 e 5; da (OMISSIS);

capo B, art. 600 quater c.p.. Fino al (OMISSIS).

  1. L’imputato ha proposto ricorso, integrato da successiva memoria (con ivi allegata una relazione sul percorso terapeutico del ricorrente), depositata il 28 novembre 2017, tramite il difensore, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173disp. att. c.p.p., comma 1.

2.1. Violazione di legge, artt. 42 e 43, in relazione all’art. 600 ter c.p..

incidente danno risarcimento
incidente danno risarcimento

LA CORTE

Sul reato sub A dell’imputazione (diffusione del materiale pedopornografico in possesso del ricorrente) la sentenza impugnata (e la decisione di primo grado, doppia conforme) con adeguata motivazione, immune da manifeste illogicità e da contraddizioni rileva plurimi elementi dai quali desumere la diffusione dell’ingente materiale in possesso (almeno 194 file video) relativamente all’uso del programma a.mule: “Dal processo sono emersi alcuni dati oggettivi incontroversi: il B. aveva installato sul computer usato nel luogo di lavoro il programma e.mule che consentiva di scaricare files dalla rete internet e condividerli con altri utenti. L’imputato aveva scaricato e detenuto numerosi files di contenuto pedopornografico; detti files erano stati effettivamente condivisi da altri utenti e quindi erano stati divulgati. L’elemento soggettivo del reato contestato al capo A dell’imputazione risulta pertanto pacificamente integrato”.

L’imputato ha inoltre confessato relativamente al capo B, dell’imputazione, mentre ha contestato in appello (e nel ricorso per Cassazione) solo l’assenza di consapevolezza relativamente alla diffusione del materiale, con il programma a.mule. (per il capo A, dell’imputazione).

In tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter, comma terzo, cod. pen. deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale. (Fattispecie in cui la coscienza e volontà di divulgazione è stata desunta dalla condivisione per lunghissimo periodo dei files scaricati e dal loro effettivo scaricamento da parte di altri utenti). (Sez. 3, n. 19174 del 13/01/2015 – dep. 08/05/2015, Colombo, Rv. 26337301; vedi anche Sez. 3, n. 33157 del 11/12/2012 – dep. 31/07/2013, Moscuzza, Rv. 25725701).

La sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio sopra visto della Suprema Corte di Cassazione, in quanto oltre al programma a.mule, ha evidenziato la competenza informatica del ricorrente che svolgeva il lavoro di grafico, e l’effettiva condivisione di file.

Infine la decisione valorizza anche il dolo eventuale del ricorrente: “Poco importa che il B. non avesse agito con l’intenzione di diffondere le immagini pedopornografiche. Scaricando quel materiale con quel programma di condivisione, aveva accettato il rischio che le immagini venissero diffuse sulla rete, con conseguente punibilità quanto meno a titolo di dolo eventuale”. Su questo punto il ricorso per Cassazione non contiene nessun motivo di censura alla sentenza impugnata.

Del resto la detenzione di materiale pedopornografico, scaricato in maniera massiccia, e l’utilizzazione del programma di condivisione automatica (a.mule) comporta il concreto e tangibile rischio delle diffusione indiscriminata sulla rete. Sussistono, infatti, nel caso tutti i presupposti per la configurazione del dolo eventuale: la sussistenza di una condotta illecita (il possesso di materiale pedopornografico); l’esperienza informatica del ricorrente che svolgeva il lavoro di grafico; la durata nel tempo della condotta illecita e l’elevato numero di file pedopornografici posseduti – almeno 194 file video con minori -; l’elevata probabilità della diffusione (la quasi certezza); la valutazione del comportamento relativo all’uso del computer del luogo di lavoro, come elemento che avrebbe garantito la difficoltà dell’individuazione, e quindi, per tale aspetto, l’assenza di certezza che l’imputato non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento.

Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’individuare i presupposti del dolo eventuale: “In tema di elemento soggettivo del reato, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonchè la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento. (Fattispecie in cui l’imputato, consapevole della propria malattia, aveva intrattenuto rapporti sessuali non protetti con l’amante, omettendo di informarla e trasmettendole il virus dell’epatite C)” (Sez. 5, n. 23992 del 23/02/2015 – dep. 04/06/2015, A, Rv. 26530601).

Può conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3, deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale, anche sotto il profilo dell’individuazione del dolo eventuale, desumibile dall’esperienza dell’imputato e dalla durata nel tempo del possesso di materiale pedopornografico, dall’entità numerica del materiale, e dalla condotta, già illecita ex art. 600 quater c.p., connaturata da accorgimenti volti alla difficoltà di individuazione dell’attività”.

Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 14/12/2017) 26/03/2018, n. 14001

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito – Presidente –

Dott. SOCCI Angelo M. – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere –

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.A.M., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 05/12/2016 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. MARINELLI Felicetta, che ha concluso per: “Rigetto del ricorso”;

Udito il difensore, Avv. Mario Nava, che ha concluso per: “Accoglimento del ricorso”.

Svolgimento del processo

  1. La Corte di appello di Milano con sentenza del 5 dicembre 2016, confermava la decisione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, del 4 febbraio 2016 – giudizio abbreviato -, che aveva condannato B.A. alla pena di anni 2 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, oltre pene accessorie, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti, relativamente ai reati di cui:

capo A, art. 600 ter c.p., commi 3 e 5, art. 602 ter c.p., commi 4 e 5; da (OMISSIS);

capo B, art. 600 quater c.p.. Fino al (OMISSIS).

  1. L’imputato ha proposto ricorso, integrato da successiva memoria (con ivi allegata una relazione sul percorso terapeutico del ricorrente), depositata il 28 novembre 2017, tramite il difensore, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173disp. att. c.p.p., comma 1.

2.1. Violazione di legge, artt. 42 e 43, in relazione all’art. 600 ter c.p..

In relazione al delitto di cui al capo A l’appello del ricorrente aveva sostenuto l’assenza di dolo nella condivisione dei files. La Corte di appello ha invece sostenuto che la sola utilizzazione del programma E.mule è sufficiente per la responsabilità a titolo di dolo (anche eventuale) in quanto il programma è destinato proprio alla condivisione.

Inoltre il programma considerato (e.mule 0.50) non corrisponde al programma usato dal ricorrente (a.mule 2.2.6.), e quindi irrilevanti devono ritenersi le considerazioni della sentenza sul punto. La sentenza della Corte di appello si basa sul presupposto del “non poteva non sapere”.

2.2. Manifesta illogicità della motivazione.

La Corte di appello inoltre – sempre sul reato di cui al capo A rileva che il ricorrente era un abituale utilizzatore del P.C., relativamente al suo lavoro di grafico, e quindi con buone conoscenze informatiche. Poi, in contraddizione, afferma che il programma e.mule è relativamente semplice nell’utilizzazione.

2.3. Mancata assunzione di una prova decisiva in appello, audizione del perito Z.; violazione di legge, art. 603 c.p.p..

La Corte di appello ha ritenuto tardiva la richiesta dell’audizione del perito Z., in quanto proposta nei motivi nuovi; la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale invece può essere proposta anche in sede di motivi nuovi. Sussisteva la necessità della prova in quanto le pagine di presentazione del programma – utilizzato dal P.M. non corrispondevano al programma usato dal ricorrente.

2.4. Violazione di legge, art. 600 septies c.p..

La Corte di appello ha respinto l’istanza di dissequestro poichè le cose sono di terzi; invece l’imputato può rispondere nei confronti dell’effettivo proprietario, G., e quindi aveva diritto alla restituzione, o all’estrazione di copia dei dati non attinenti al reato di cui al capo A. 2.5. Violazione di legge, art. 62 bis c.p..

La Corte di appello non ha tenuto conto della situazione soggettiva del ricorrente, in quanto lo stesso ha confessato, e si è ravveduto. Inoltre egli non ha più connessione internet nella propria abitazione, e svolge attività di volontariato.

2.6. Violazione di legge, relativamente alle pene accessorie, art. 600 septies c.p., comma 2.

Le pene accessorie dovrebbero essere comminate solo dopo la valutazione della personalità, e non automaticamente.

Ha chiesto pertanto l’annullamento della decisione impugnata.

2.7. L’imputato ha presentato ampia memoria, come sopra visto, nella quale ribadisce ed illustra i motivi del ricorso per cassazione, allega inoltre relazione della comunità cooperativa Bessimo di Cremona, sul suo percorso terapeutico.

Motivi della decisione

  1. Il ricorso risulta inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi e per genericità. Inoltre ripropone le stesse argomentazioni dell’appello senza critiche specifiche alla motivazione della Corte di appello.

Sul reato sub A dell’imputazione (diffusione del materiale pedopornografico in possesso del ricorrente) la sentenza impugnata (e la decisione di primo grado, doppia conforme) con adeguata motivazione, immune da manifeste illogicità e da contraddizioni rileva plurimi elementi dai quali desumere la diffusione dell’ingente materiale in possesso (almeno 194 file video) relativamente all’uso del programma a.mule: “Dal processo sono emersi alcuni dati oggettivi incontroversi: il B. aveva installato sul computer usato nel luogo di lavoro il programma e.mule che consentiva di scaricare files dalla rete internet e condividerli con altri utenti. L’imputato aveva scaricato e detenuto numerosi files di contenuto pedopornografico; detti files erano stati effettivamente condivisi da altri utenti e quindi erano stati divulgati. L’elemento soggettivo del reato contestato al capo A dell’imputazione risulta pertanto pacificamente integrato”.

L’imputato ha inoltre confessato relativamente al capo B, dell’imputazione, mentre ha contestato in appello (e nel ricorso per Cassazione) solo l’assenza di consapevolezza relativamente alla diffusione del materiale, con il programma a.mule. (per il capo A, dell’imputazione).

In tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter, comma terzo, cod. pen. deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale. (Fattispecie in cui la coscienza e volontà di divulgazione è stata desunta dalla condivisione per lunghissimo periodo dei files scaricati e dal loro effettivo scaricamento da parte di altri utenti). (Sez. 3, n. 19174 del 13/01/2015 – dep. 08/05/2015, Colombo, Rv. 26337301; vedi anche Sez. 3, n. 33157 del 11/12/2012 – dep. 31/07/2013, Moscuzza, Rv. 25725701).

La sentenza impugnata ha correttamente applicato il principio sopra visto della Suprema Corte di Cassazione, in quanto oltre al programma a.mule, ha evidenziato la competenza informatica del ricorrente che svolgeva il lavoro di grafico, e l’effettiva condivisione di file.

Infine la decisione valorizza anche il dolo eventuale del ricorrente: “Poco importa che il B. non avesse agito con l’intenzione di diffondere le immagini pedopornografiche. Scaricando quel materiale con quel programma di condivisione, aveva accettato il rischio che le immagini venissero diffuse sulla rete, con conseguente punibilità quanto meno a titolo di dolo eventuale”. Su questo punto il ricorso per Cassazione non contiene nessun motivo di censura alla sentenza impugnata.

Del resto la detenzione di materiale pedopornografico, scaricato in maniera massiccia, e l’utilizzazione del programma di condivisione automatica (a.mule) comporta il concreto e tangibile rischio delle diffusione indiscriminata sulla rete. Sussistono, infatti, nel caso tutti i presupposti per la configurazione del dolo eventuale: la sussistenza di una condotta illecita (il possesso di materiale pedopornografico); l’esperienza informatica del ricorrente che svolgeva il lavoro di grafico; la durata nel tempo della condotta illecita e l’elevato numero di file pedopornografici posseduti – almeno 194 file video con minori -; l’elevata probabilità della diffusione (la quasi certezza); la valutazione del comportamento relativo all’uso del computer del luogo di lavoro, come elemento che avrebbe garantito la difficoltà dell’individuazione, e quindi, per tale aspetto, l’assenza di certezza che l’imputato non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento.

Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’individuare i presupposti del dolo eventuale: “In tema di elemento soggettivo del reato, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonchè la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento. (Fattispecie in cui l’imputato, consapevole della propria malattia, aveva intrattenuto rapporti sessuali non protetti con l’amante, omettendo di informarla e trasmettendole il virus dell’epatite C)” (Sez. 5, n. 23992 del 23/02/2015 – dep. 04/06/2015, A, Rv. 26530601).

Può conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3, deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale, anche sotto il profilo dell’individuazione del dolo eventuale, desumibile dall’esperienza dell’imputato e dalla durata nel tempo del possesso di materiale pedopornografico, dall’entità numerica del materiale, e dalla condotta, già illecita ex art. 600 quater c.p., connaturata da accorgimenti volti alla difficoltà di individuazione dell’attività”.

  1. Del tutto generico, e comunque manifestamente infondato è il motivo della mancata assunzione di una prova decisiva (l’audizione del perito). Nel ricorso non si prospetta la decisività della prova: “In tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mentre nelle ipotesi di cui all’art. 603c.p.p., commi 1 (richiesta di riassunzione di prove già acquisite e di assunzione di nuove prove) e 3 (rinnovazione “ex officio”), è necessaria la dimostrazione, in positivo, della necessità (assoluta nel caso del comma terzo) del mezzo di prova da assumere, onde superare la presunzione di completezza del compendio probatorio, nell’ipotesi di cui al citato art. 603, comma 2, al contrario, è richiesta la prova, negativa, della manifesta superfluità e della irrilevanza del mezzo, al fine di superare la presunzione, opposta, di necessità della rinnovazione, discendente dalla impossibilità di una precedente articolazione della prova, in quanto sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado” (Sez. 3, n. 13888 del 27/01/2017 – dep. 22/03/2017, D e altro, Rv. 26933401).

Nessuna dimostrazione, in positivo, della necessità (assoluta) dell’audizione del perito, è stata fornita.

In sostanza il ricorrente ha formulato una rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello esplorativa, non ammessa ai sensi dell’art. 603 c.p.p.: “Nel giudizio di appello, la presunzione di tendenziale completezza del materiale probatorio già raccolto nel contraddittorio di primo grado rende inammissibile (sicchè non sussiste alcun obbligo di risposta da parte del giudice del gravame) la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale che si risolva in una attività “esplorativa” di indagine, finalizzata alla ricerca di prove anche solo eventualmente favorevoli al ricorrente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esplorativa la richiesta di rinnovazione finalizzata a verificare l’intenzione della vittima, attraverso un nuovo esame, di ritrattare le accuse formulate nei confronti dell’imputato)” (Sez. 3, n. 42711 del 23/06/2016 – dep. 10/10/2016, H, Rv. 26797401).

Inoltre la perizia (e, quindi, l’audizione del perito di parte) non è mai prova decisiva, e – come sopra visto – nel ricorso per Cassazione non si rappresenta la decisività della prova, quale accertamento idoneo a scardinare l’intero impianto probatorio: “La perizia non rientra nella categoria della prova decisiva ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in Cassazione” (Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012 – dep. 09/11/2012, Ritorto e altri, Rv. 25370701; nello stesso senso Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013 – dep. 14/02/2013, Sciarra, Rv. 25515201).

Del tutto irrilevante nell’economia della decisione risulta poi la diversità delle spiegazioni dei programmi, utilizzati dal P.M. (e.mule 0.50, che non corrisponde al programma usato dal ricorrente, a.mule 2.2.6.) in quanto non si prospetta, in concreto, una diversità sostanziale che abbia potuto incidere a sfavore dell’imputato.

  1. I motivi sul trattamento sanzionatorio, circostanze attenuanti generiche e pene accessorie sono estremamente generici, in quanto si limitano a riproporre gli stessi motivi dell’appello senza critiche specifiche di legittimità alla decisione.

Del resto, le circostanze attenuanti generiche sono state riconosciute equivalenti all’aggravante, e la pena è stata ritenuta congrua: “In tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena” (Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016 – dep. 15/09/2016, Rignanese e altro, Rv. 26794901; vedi anche Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 26528301 e Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013 – dep. 08/07/2013, Taurasi e altro, Rv. 25646401).

  1. Anche il motivo relativo alla violazione di legge, art. 600 septiesc.p., risulta generico e manifestamente infondato. La Corte di appello ha ritenuto mancante l’interesse dell’imputato alla revoca della confisca o all’estrazione dei dati in quanto di proprietà di terzi.

Conseguentemente sarà onere del terzo interessato a far valere i suoi diritti.

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue il pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di Euro 2.000,00, e delle spese del procedimento, ex art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2018